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Teresa Caporale – Ateismo religioso e religione atea. Genesi e destinazione dell’antropoteismo feuerbachiano [Orthotes, Napoli/Salerno 2021]

«Esiste una continuità tra storia sacra e storia profana?» (p. 23), questa domanda abissale, in cui è possibile compendiare molto del percorso feuerbachiano dedicato al tema della religione è anche – secondo le parole della sua autrice – il leitmotiv del prezioso testo che al filosofo originario di Landshut ha dedicato Teresa Caporale.
Il testo è prezioso perché si pone non solo come un’analisi puntuale del problema della religione in Feuerbach, ma anche come un’attualizzazione del pensiero del filosofo tedesco nell’orizzonte dei dibattiti contemporanei sul problema della secolarizzazione. Feuerbach viene, infatti, letto da Caporale non solo come un autore fondamentale della tradizione filosofica tedesca, ma anche (e forse, verrebbe da dire, soprattutto) come un contemporaneo: le sue domande, adeguatamente analizzate, esposte e “rivitalizzate” dall’Autrice si pongono come interrogazioni che non smettono di inquietare e spronare alla riflessione anche il nostro tempo.
Nel primo capitolo del libro – Rileggere Feuerbach – l’Autrice risale alle fonti materialiste dell’antropologia feuerbachiana. Comprendere il materialismo antropologico feuerbachiano, secondo Caporale, significa, infatti, comprendere anche la sua posizione rispetto alla teologia, che va intesa come una vera e propria «antropologia rovesciata» (p. 47): «[L]a critica religiosa di Feuerbach ha rivendicato all’uomo quell’infinito che egli aveva sempre desiderato e cercato fuori di sé, facendo in modo che il superamento dei limiti acquistasse finalmente una nuova dimensione umana invece che teologica. Nello stesso tempo tale critica gli aveva consentito di penetrare nei meccanismi profondi che generano il fenomeno religioso» (p. 49).
Secondo Feuerbach il desiderio religioso per eccellenza – quello di immortalità, quindi di una vita oltre la paura della morte e della finitezza, che possa godere di se stessa indefinitamente – è primariamente un desiderio antropologico, è anzi il desiderio antropologico tout court. Ed è a partire da questo nesso necessitante che sussiste tra dimensione corporale-antropologica e proiezione dei desideri e bisogni umani in una costruzione teologica che si costruisce la filosofia della religione feuerbachiana. L’utilizzo dell’espressione “filosofia della religione”, per il pubblico che avesse contezza delle note teorie ateistiche feuerbachiane, potrebbe forse sembrare poco adeguato. Eppure – e l’evidenziarlo con dovizia di particolari è uno dei meriti maggiori del lavoro di Caporale – a una lettura approfondita dell’opera feuerbachiana non può sfuggire che, se è un’inaggirabile base antropologica che crea, per superfetazione, il fenomeno teologico, anche laddove si rinunciasse alla proiezione in un dio personale di tale base antropologica, sarebbe comunque impossibile far ammutolire l’anelito umano di cui essa è proiezione.
In questo senso, nell’orizzonte filosofico feuerbachiano, è solo con una religione a-tea (ossia: non teistica) che è possibile sostituire quella teistica, e non con un ateismo nichilista, che mirerebbe a sbarazzarsi di dio senza porre nessun valore al suo posto. La religione atea feuerbachiana tiene conto della spinta antropologicamente fondata all’autotrascendimento che il fenomeno teologico porta a espressione, mirando non tanto a estirparla, quanto piuttosto a mettere sul trono lasciato vuoto dalla divinità l’umanità, considerata come il valore più alto.
La rilettura operata di questo complesso nucleo di rimandi tra etica, antropologia e teologia nell’opera di Feuerbach permette all’Autrice di passare – nel secondo capitolo del libro – a un’analisi che allarghi il campo dell’indagine a una serie di autori che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, si sono interessati a Feuerbach nel contesto del dibattito sulla secolarizzazione: in particolare Karl Barth (che permette all’Autrice di analizzare i profondi e complessi rapporti tra Feuerbach e Lutero), Ronald Dworkin, Hans Küng, Raimon Panikkar e Richard Kearney. Lungi dal consistere nella sola esposizione delle posizioni di vari interpreti, o in confronti meramente estrinseci, i paragrafi dedicati all’analisi dei rapporti tra Feuerbach e questi autori sono utili a comprendere come il filosofo tedesco, spesso, anche se non esplicitamente menzionato, abbia funzionato e funzioni come una forza carsica, che lavora dal basso il pensiero di quegli autori che si sono confrontati con il problema dell’uomo e con quello della religione, nelle rispettive co-implicazioni.
Il capitolo terzo del testo prende in esame il concetto di “ateismo religioso”, proponendo Feuerbach come colui che «potrebbe aver aperto la strada alle recenti riflessioni sulla possibilità di una religione atea» (p. 121). In questo contesto vengono analizzati, come sparring partners della riflessione feuerbachiana, autori come Ernst Bloch, György Lukács (interprete di Dostoevskij), Marcel Gauchet e Charles Taylor. In particolare il raffronto con Gauchet sembra sostanziare in maniera evidente la tesi dell’Autrice precedentemente riportata: è solo in dialogo con una filosofia della religione a-tea fondata su basi antropologiche (quindi, di feuerbachiana memoria) che è possibile pensare una contemporaneità secolarizzata che non si pretenda assolutamente scollegata dal fenomeno della religione e del religioso: «[E]ntrambi i filosofi (Feuerbach e Gauchet – AL), al di là della loro distanza temporale e della diversità di prospettive, ritengono che della religione, così come dell’aldilà, resti in ogni caso intatta la sua ineliminabile dimensione antropologica» (p. 140).
Il quarto capitolo del libro, che lo conclude, si pone come summa e conclusione del percorso avviato con e oltre Feuerbach nei capitoli precedenti. La tematica su cui si concentra l’Autrice è principalmente quella dell’etica eudaimonica che Feuerbach fonda sul terreno antropologico a lui caro. In particolare viene presa in considerazione quella che potrebbe essere definita l’“etica metabolica” di Feuerbach, espressa dall’autore tedesco nella celebre sentenza “L’uomo è ciò che mangia”: è anche (e soprattutto) nelle funzioni corporee basali che Feuerbach vede la naturale tendenza alla felicità dell’essere umano. Mangiare, bere, creare situazioni di felicità condivisa a partire dal pasto comune sono atti irrinunciabili per la nostra specie, che vengono interpretati come costanti antropologiche indice di una naturale tendenza dell’essere umano a godere del proprio corpo e del proprio essere nel mondo. Questo essere nel mondo è da considerarsi in quanto intersoggettività: «La morale feuerbachiana non ammette una felicità isolata, indipendente dalla felicità degli altri, bensì solo una felicità sociale, comunitaria. Essa, in altri termini, non può essere spiegata a partire dal puro io, bensì dal nesso io-tu, dal legame dell’individuo col suo prossimo [.]» (p. 160). La tendenza naturale, antropologicamente fondata, alla felicità, e la necessità di questa di trovare espressione in un mondo intersoggettivo, sono – secondo Caporale – le basi della morale fuerbachiana. Questa, giocoforza, non può essere né nichilistica né solipsistica: chiusura su di sé e assenza di spinta all’autotrascendimento, come ha mostrato l’Autrice durante tutto il percorso del libro, contraddicono ciò che Feuerbach vede di più innato nella substantia antropologica dell’essere umano.
Nella proposta di ritrovare in e in dialogo con Feuerbach le basi di una filosofia morale intersoggettiva che tengano insieme il fenomeno religioso e quello antropologico il libro di Teresa Caporale si pone come un tentativo – riuscito – di esegesi storico-filosofica che riesce a porsi anche come riflessione teoretica su alcuni dei punti-chiave del dibattito etico contemporaneo.

Antonio Lucci

S&F_n. 30_2023

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