S&F_scienzaefilosofia.it

Micaela Latini e Aldo Meccariello (a cura di) – L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders [Asterios, s.l. 2014, pp. 237, € 29]


Se per molto tempo Günther Anders è stato recepito in Italia più per il suo impegno nel movimento internazionale anti-atomico che per la sua produzione intellettuale, gli ultimi vent’anni hanno conosciuto una sorta di Anders-Reinassance con gli studi di Lütkehaus, di van Dijk, di Wiesenberger e in Italia di Pier Paolo Portinaro, Stefano Velotti e di Micaela Latini. In questo orizzonte di letture più attente e più comprensive del viaggio filosofico di Günther Anders/Stern si è tenuto, il 25-26 ottobre 2012, un Convegno alle Scuderie Aldobrandini di Frascati in occasione dei vent’anni dalla morte del filosofo, promosso dalla rivista Kainòs e dalla Regione Lazio in collaborazione con il Dipartimento di scienze umane, sociali e della salute dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Dei lavori di questo Convegno il volume è documentazione.La sempre più costante attenzione al pensiero andersiano coincide con il dibattito sempre più attuale sulla crisi dello stesso concetto di umano, determinata dallo sviluppo della logica della tecnica e dei suoi strumenti. Diviene così indispensabile guardare a un filosofo che si muove sulla linea ambigua del gramsciano pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Pessimismo, perché dalle pagine di Anders si coglie una dimensione della tecnica che ha sorpassato il sentire e l’immaginare dell’uomo tanto da vanificarne lo stesso “principio responsabilità”; ottimismo, in virtù di una coscienza morale che deve, e quindi può, essere sollecitata e mobilitata attraverso strumenti che non possono essere quelli forgiati dalla stessa “ragion pratica” da cui è derivata l’egemonia della tecnica, quanto da quelli che l’immaginazione genera. Di qui il forte impegno politico del filosofo tedesco e anche la sua convinzione che l’arte e la letteratura costituiscano luoghi privilegiati per (ri)costruire una cultura nel tempo in cui l’uomo è antiquato. Non casualmente, il superamento dell’uomo, il suo essere antiquato appunto, è un tema che Anders attinge alla sua tradizione religiosa e culturale, nonostante si dichiari «ateo di professione». Il messianismo e l’escatologia giudaico/cristiana erano anch’esse evocazione di una realtà in cui l’umano, nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto, non esisterà più, diventando un “altro”, un “oltre”; la differenza, come sottolinea nel suo saggio Antonio Stefano Caridi, consiste nel fatto che nella tradizione religiosa dell’apocalisse la categoria è quella della speranza, mentre nella visione di Anders – come in genere negli scrittori “apocalittici” – è quella dell’angoscia. L’annuncio della fine dei tempi richiede, tanto nei predicatori medioevali e post-moderni quanto in Anders, uno sforzo dell’immaginazione, ma mentre nei primi doveva condurre a leggere la fine della mondanità del mondo e dell’umano in una prospettiva anagogica con il definitivo trionfo del Regno del Bene, in Anders la prospettiva è quella della catastrofe vista attraverso la lente di ingrandimento dell’esagerazione capace di determinare un’allerta costante che impedisca alle coscienze di addormentarsi nella rimozione. L’esagerazione dell’ineluttabilità della catastrofe è utile proprio per evitarla, per uscire dall’incertezza del possibile e del dubbio, inserendo la certezza del peggio nell’orizzonte della decisione politica.Un tema, quest’ultimo, con il quale la politica mondiale è chiamata sempre più a confrontarsi, ma che per essere efficace deve sottrarsi alle pressioni degli interessi economici per essere mossa dall’angoscia delle coscienze per l’ineluttabile catastrofe. Occorre far emergere il rischio che nasce dal capovolgimento del “potere prometeico” – che rende l’uomo non più il creatore di strumenti che modificano la natura, ma il creatore della natura stessa – in “vergogna prometeica”, ovvero il sentimento della propria inadeguatezza dinanzi all’oggetto della propria creazione. La “vergogna” rischia di far assumere come paradigma di perfezione proprio la superiorità tecnica e performativa degli oggetti artificiali, come si può constatare dal sempre più frequente inserimento di elementi tecnologici nell’organismo umano, anche solo per migliorare gli standard di prestazione. Ma, come viene più volte segnalato dagli Autori, vi è anche il rischio di accettare passivamente la logica della tecnica e di andare passivamente verso l’abisso, come i topi dietro al pifferaio magico. In questa visione dell’ineluttabilità dell’età della tecnica e della fine dell’umano, Anders si ricollega idealmente a un altro tedesco che, nella precedente guerra mondiale, aveva pre-visto la sottomissione dell’uomo alla funzionalità della macchina, il suo eclissarsi dinanzi allo strapotere della tecnica. Vero che nella figura archetipica dell’Operaio, Ernst Jünger vedeva ancora un inizio della storia, un “progresso”, ma proprio la Seconda guerra mondiale lo condurrà, in analogia con Anders sia pure con modalità diverse, a denunciare il nichilismo dell’età della tecnica, il rischio della disumanizzazione dell’uomo.Opportunamente Pier Paolo Portinaro, nel suo saggio, colloca Anders tra i rappresentanti della fine di una concezione comtiana della storia come motore di indefinito progresso. Del resto era impossibile, dopo gli eventi epocali dell’olocausto e di Auschwitz, non perdere l’ingenua fiducia positivistica e non pensare piuttosto l’Endzeit, il tempo della fine che è anche la fine del tempo storico. La dimensione della tecnica costringe l’uomo al di fuori del tempo, illudendolo in merito all’espansione infinita delle sue potenzialità e all’eternità della sua stessa vita. L’uomo si “vergogna” di morire perché il suo essere non abita più il tempo, per parafrasare un Heidegger che fu Maestro e termine costante di confronto per Anders, il quale non può ricorrere, come si è detto, a una filosofia razionalizzata perché questa si muove ancora nell’illusione dell’aletheia, dello svelamento della verità al di là del simulacro. Portinaro individua il fulcro dell’estetica andersiana nella decostruzione della filosofia, nella sua contaminazione con contenuti che essa non può trovare autonomamente al suo interno. Il problema è che anche lo strumento dell’emancipazione estetica – la fantasia – è inadeguato di fronte alle accelerazioni della tecnica e l’incondizionato imperativo morale non sembra più disponibile a un uomo «senza mondo e senza tempo». Se la matrice schilleriana modella le riflessioni andersiane, non sembra più possibile, nell’Endzeit, nemmeno un’educazione estetica.Un’educazione estetica richiede infatti «libertà del cuore», richiede «più energia del volere di quanto l’uomo abbia bisogno», mentre ciò che caratterizza l’uomo posto sotto il segno della macchina è piuttosto la rinuncia. Rinuncia alla sua umanità, alla sua responsabilità che appare inadeguata rispetto all’infallibile giudizio di una macchina “pensante”. Nuovo Pilato, l’uomo della terza – e ultima – rivoluzione industriale, “se ne lava le mani”, ottunde la propria coscienza affinché questa non sia di impaccio alla funzionalità della macchina. Il saggio della Vallori Rasini sottolinea la colpevolezza di quest’atteggiamento, della volontà di «assumere una posizione dimessa e ammirata» dinanzi ai prodotti tecnologici e all’inversione del rapporto mezzi-fini: una posizione mimetica, perché l’uomo ha sempre desiderato di essere come i suoi dei. Il sentimento di inadeguatezza verso ciò che una volta l’uomo aveva creato non è una vergogna adamitica che nasce dalla curiosità, dall’ingenuità, dall’inconsapevolezza della violazione, ma una vergogna prometeica perché nasce dalla volontà di potenza e rivela, anche nella rinuncia – soprattutto nella rinuncia – una volontà di potenza: essere come Dio.Il volume non nasconde le aporie del pensiero di Anders: ad esempio, Mario Costa mette in luce la contraddizione tra la considerazione andersiana dell’assenza di una natura determinata nell’uomo e quella per la quale la tecnica lavora alla devastazione dell’uomo. Se non c’è natura umana definita non solo non ci può essere “devastazione”, ma non si comprende nemmeno il giudizio negativo e preoccupato in merito alla nuova umanità che sta emergendo dalla nuova tecnica. Non a torto l’Autore ritiene che una condanna della tecnica come quella formulata da Anders «può coerentemente venire soltanto da una prospettiva religiosa, da chi crede non nella inesistenza ma nella fissità e nella immutabilità della natura e della persona umana». Non basta dichiararsi atei per essere senza Dio; anche il saggio di Vincenzo Cuomo nota come l’ascensione della tecnica a soggetto della storia significa «elaborare una sorta di cripto-teologia della tecnica». Se tuttavia, l’unico criterio di verità diventa la Tecnica non si coglie più la possibilità di uscire dalla logica apocalittica. Anche quando Anders ritiene che il superamento del dislivello prometeico tra agire e sentire consiste nell’«aumentare l’estensione delle prestazioni comuni della sua fantasia e del suo sentimento», come ricorda Francesco Miano, sembra attribuire all’immaginazione e al sentire la stessa logica della macchina, caratterizzata dal continuo superamento del limite. Del resto, scrive sempre Miano, muta la stessa considerazione del tempo, in una direzione che potremmo dire bergsoniana: il futuro, infatti «non deve più estendersi “davanti a noi”, ma deve “esserci presente”, ovvero essere sempre presso di noi». Vivere nel tempo significa assumersi responsabilità, vivere con coscienza, “avere scrupoli” nei confronti di ciò che si fa. Ovviamente risulta impossibile adeguare la tecnica all’immaginare e al sentire umano, così come avveniva nel mondo dell’«altro-ieri», perché abbiamo lanciato il progresso ben oltre ciò che possiamo vedere; è quindi necessario che la vista compia uno sforzo “sovra-umano” per guardare alle conseguenze della tecnica. Ma proprio perché sovra-umano, anche questo sforzo è al di là della nostra vista. E infatti, in merito all’estensione della facoltà immaginativa, «non risulta possibile né fornire indicazioni concrete su come compiere questi tentativi, né determinarne». Del resto la filosofia andersiana ha sempre rivendicato il suo carattere occasionale che esprime, come sottolinea nel suo saggio Devis Colombo, il bisogno di concretezza; per questo non fornisce risposte teoreticamente fondate, ma solo esempi, così come nella sua prosa filosofica fa largo uso di favole, allegorie, proverbi per disinnescare l’astrattezza speculativa. Proprio gli esempi costituiscono una risposta alle domande con le quali alcuni Autori incalzano il pensiero andersiano. Come Schopenhauer non poteva tematizzare riflessioni calzanti su come la volontà potesse volere il suo annullamento, ma ricorreva ad esempi di santi, artisti, pensatori che avevano raggiunto la noluntas, così Anders mostra ritratti esemplari di uomini capaci, come scrive Sante Maletta, «di non alienare la propria soggettività in situazioni estremamente problematiche». Claude Eatherly, che guidava l’aereo-pilota che precedeva l’Enola Gay col compito di controllare le condizioni e dare il nulla osta allo sgancio dell’atomica, è appunto il sostituto della fondazione formale; è l’esempio di come ci si possa sentire responsabili anche per azioni che non ci vedono agenti consapevoli, assumendo, per questo, un’identità e un volto autenticamente umano.Anche la Arendt si muove sulla stessa frequenza, elevando a figura esemplare Anton Schmidt, il sergente della Wehrmacht che aiutò gli ebrei polacchi e finì giustiziato. Proprio il legame, non solo personale, tra la Arendt e Anders è al centro del saggio di Aldo Meccariello, che dimostra come le categorie arendtiane della natalità e della possibilità siano echi di precedenti riflessioni andersiane. La natalità, ovvero l’entrata nel mondo improvvisa, lacerante il fondamento e segno della nostra imperfezione – ma anche «assestamento e riconoscimento» – e la pluralità, ovvero la dimensione intrinsecamente plurale, costitutiva dell’uomo in quanto tale, segnano l’allontanamento dal comune Maestro, alla cui analitica dell’esistenza manca proprio la realtà, la naturalezza, la corporeità e, appunto, la natalità e la pluralità. Meccariello individua però nella comprensione della diade uomo-mondo l’incolmabile differenza tra una Arendt che invoca la cura del mondo come dimora umana e un Anders per il quale l’uomo non ha mondo ed è un deraciné. La seconda parte del libro  si concentra sulle considerazioni, espresse in numerosi saggi, di Anders sulla musica, sulla scultura di Rodin, la pittura di Grosz, la poesia e la letteratura,  non tacendo – anche in questo caso – limiti e imprecisioni delle sue riflessioni estetiche. Si tratta di contributi di grande importanza anche per sottolineare l’atteggiamento, per quanto ambivalente, di Anders sulla cultura come argine insufficiente a fronteggiare le grandi tragedie del Novecento. Come sottolinea Stefano Velotti, Anders rifiuta la cultura intesa come mercato di prodotti culturali tutti omologati e tendenti a omologare tutti i consumatori. L’eguaglianza diventa acquistabile al supermercato, perché siamo tutti uguali dinanzi a uno scaffale «e la cultura diventa universale o accessibile a tutti solo in quanto i prodotti che non possono essere smerciati a chiunque sono cattive merci». Di qui l’esigenza non di cancellare la cultura, sostituendola con il silenzio, ma piuttosto di scardinarla dai meccanismi della riproduzione e dell’omologazione.Sul rapporto tra Anders e la letteratura, particolare attenzione merita il saggio di Micaela Latini che analizza il pensiero andersiano attraverso un’attenta comparazione con la poetica di Brecht – che a differenza di Anders conserva la fiducia nel non-ancora, nell’avvento di un regno messianico – con Döblin, con Rilke e il suo concetto di “senza casa” che avvicina il “senza mondo” di Anders; con Kafka e l’insensatezza dell’umano. Latini ha anche il merito di sottolineare come la tematica andersiana dell’indeterminatezza costitutiva dell’umano fosse anticipata nello scritto giovanile tratto da una conferenza presso la Kant-Gesellschaft – Die Weltfremdheit des Menschen – in cui sono già presenti i temi dello sradicamento e della vergogna, oltre a quello dell’impossibilità di trovare una via di uscita dalla trappola dell’essere proprio per la «strutturale sradicatezza dell’uomo, la sua differenza ontologica rispetto al mondo».A chiudere la serie degli interventi un saggio di Silvia Vizzardelli che individua un’originale somiglianza del pensiero andersiano con Rilke e Adorno sul “lasciarsi cadere” come tema fenomenologico dell’ascolto musicale. Si tratta di una categoria situazionale che già Anders descriveva in una dissertazione del 1924 discussa con Husserl e che resterà a segnare un punto di passaggio inevitabile negli scritti di fenomenologia musicale e non solo. Infatti il “lasciarsi cadere”, il “lasciarsi andare” è la situazione che intreccia indissolubilmente attività e passività, laddove l’attività «si manifesta solo nella specifica funzione di aprire lo spazio alla passività». Esercitare i sensi, anche quello della vista se liberato dalla contrapposizione soggetto-oggetto, significa vivere un’esperienza in cui non vi sono aspettative all’orizzonte, ma la condizione non è meccanica e inerziale. La Vizzardelli descrive come quest’abbandono si viva nella musica impressionista, ma il tema si presta anche a una trasposizione (teor)etica, laddove l’esperire senza certezze, e neppure speranze, di evitare il Disastro, ma nello stesso tempo operare attivamente senza meccanici cedimenti e trascinamenti è esattamente quanto Anders ritiene necessario nell’esperienza apocalittica dei nostri tempi.Molti altri sono gli utili stimoli che il saggio offre anche per problematizzare la classica distinzione tra “apocalittici” e “integrati”; stimoli comunque attuali, anche perché l’atomica si accompagna oggi – e ancora di più si accompagnerà domani – a molti altri e non meno gravi problemi che richiedono una mobilitazione delle coscienze, sempre più invece anestetizzate nel consumo.

Rodolfo Sideri

09_2014

Print Friendly, PDF & Email