Dopo la pubblicazione de Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione a cura di Anna Caterina Dalmasso (Mimesis 2021), è finalmente ora disponibile l’edizione italiana del corso di Merleau-Ponty su L’istituzione, la passività, tenuto al Collège de France fra il 1954 e il 1955, edito sempre per i tipi di Mimesis e tradotto e curato da Giovanni Fava e Riccardo Valenti. Si tratta di un’opera meritoria da più punti di vista: in primo luogo perché restituisce al lettore italiano un importante tassello della produzione merleau-pontiana, in anni che si riveleranno decisivi per lo sviluppo della sua filosofia e la maturazione della sua ontologia che troverà espressione poi ne Il visibile e l’invisibile. Sono gli anni in cui si consuma il distacco da Sartre ed entra in crisi il suo rapporto con il marxismo, e, parallelamente, si configura una densissima riflessione sul linguaggio, sulla parola e sull’espressione. Da questo punto di vista, il corso su L’Institution-La passivité del ‘54-’55 può essere letto in continuità con quello antecedente del ‘52-’53 su Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione, come il naturale prosieguo di una riflessione rispetto al mondo irriflesso, al rapporto fra linguaggio e cogito tacito, al problema del cominciamento per la coscienza filosofica.
È opera meritoria, inoltre, perché ha il pregio di inserire le considerazioni merleau-pontiane nel campo della rinascita degli studi sul concetto di istituzione: non solo nell’ultimo decennio c’è stata una riscoperta del suddetto corso nell’ambito della letteratura critica su Merleau-Ponty – per cui è divenuto un corso molto amato e molto frequentato –, ma in seconda battuta pensatori come Roberto Esposito hanno evidenziato la fecondità del concetto di istituzione, sostituendo di fatto a una lunga tradizione di pensiero anti-istituzionale (che affonda le sue radici proprio nel post-strutturalismo francese) un discorso critico che rimodula l’approccio teorico alle istituzioni. Come nota Fava nel saggio introduttivo al testo, l’istituzione è «un concetto che opera come la dinamica che esso stesso tenta di inquadrare: apre un campo di possibilità, istituisce una tradizione, mette in moto una ricerca che non si esaurisce nella sintesi ma si evolve e si arricchisce strada facendo» (p. 40). Da ultimo, si tratta di un’operazione degna di nota perché i curatori posti di fronte alla scelta tra farne un testo – in senso canonico del termine – o lasciarlo in forma di appunti, con tutte le incongruenze, le cacofonie e le formule dubbie del caso, hanno coraggiosamente optato per la seconda: sciogliendo le parti più contratte e restituendo in nota a piè di pagina i rimandi che nell’originale francese si trovavano a fine sezione, agevolando così il compito del lettore senza, tuttavia, alterare la natura dell’opera. Se il concetto di istituzione mostra dunque tutto il suo potenziale innovativo, ad esempio nel ripensare i rapporti tra i processi di soggettivazione e le istituzioni o, ancora, nella riformulazione di una istanza ecologica (giacché «la natura è il non-istituito», M. Merleau-Ponty, La Natura, 1996, p. 4), si tratta allora di guardare alla riflessione merleau-pontiana sull’istituzione come l’opportunità di osservare «la matrice di senso entro cui si origina e si sviluppa un tale rinnovato interesse» (p. 41).
È indubbio che il pensiero dell’istituzione merleau-pontiano si presenti da un lato come una «revisione dell’hegelismo» (p. 178) e, dall’altro, come una ripresa creativa del concetto husserliano di Stiftung e quindi del problema della genesi, dell’attivazione e della trasmissione di senso, pur imprimendo una curvatura filosofica tutta personale a tale questione. Ma la riflessione sull’istituzione è soprattutto una riflessione sul tempo e sulla nascita: il tempo dell’istituzione definisce un processo in cui «la diacronia inciampa nella sincronia» (p. 50) e in cui non si dà semplicemente avvio a una nuova serie, ma si origina un inizio. Come nell’istituzione di un’opera d’arte o di un sentimento amoroso in cui «tutti gli ora si tengono assieme» (p. 67). Il genio artistico è «produttività postuma» (p. 59), inventa il suo passato e schiude l’avvenire; mentre l’amore si prepara, c’è tutta una vita che ti prepara all’incontro amoroso pur conservando la sua dimensione assolutamente contingente e fortuita, e tuttavia è istituito perché è un atto di fedeltà, di fedeltà soprattutto a sé stessi, rispetto alla nostra storia personale, a ciò che ci aveva preparato all’incontro con l’altro, che innesca infine possibilità inedite e sopite. Insomma, il binomio istituzione-tempo è un altro modo di intendere il rapporto tra la necessità e la contingenza, di concepire una risonanza del tempo. Così, «il tempo originario non è né decadenza (ritardo su sé stesso) né anticipazione (anticipo su sé stesso), ma è in orario [à l’heure], è l’ora che è» (p. 61). Come ebbe a dire una volta Dalì, più di tutto, mi ricordo il futuro.
Per tale ragione il concetto di istituzione permette di riscrivere la possibilità stessa di una filosofia della storia e di interrogarsi su cosa significhi un senso immanente e, al tempo stesso, trascendente a essa. Nell’analisi degli eventi-matrice Merleau-Ponty immagina come un unico gesto indiviso quello della tradizione che tramanda e quello della tradizione che tradisce: è in questo décalage, in questa sfasatura e in questa deformazione che vi è la specificità e la fecondità di un pensiero dell’istituzione. È solo nel custodire la contingenza che può esservi storia, altrimenti «non vi è più che un fantasma di storia» (M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, 2019, p. 56). La contingenza che si fa ragione, discorso, è il vero senso di una filosofia della storia per Merleau-Ponty che è, da ultimo, soprattutto una filosofia della libertà.
Alessandra Scotti
S&F_n. 30_2023