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Jean-Paul Fitoussi – Éloi Laurent – La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano – tr. it. a cura di S. D’Alessandro [Feltrinelli, Milano 2009, pp. 128, € 14]


Quel che genericamente si può chiamare la costellazione delle riflessioni ecologiste esiste sin dagli anni Settanta, ma è solo negli ultimi vent’anni che si è assistito a uno sviluppo, di pari passo col dibattito sulla globalizzazione, della cosiddetta coscienza ecologica. Al suo interno possono essere individuate due opposte linee prospettiche: una che muove dall’attenzione per la natura al fine di determinare i vari piani politici, economici e sociali di discussione; e un’altra che invece inserisce la natura in un dialogo orizzontale con questi ultimi.

La prima prospettiva imposta il suo discorso sull’idea che si debba ripartire dalla visione ecologica. Solo così diventerebbe possibile riformare l’attuale sistema socio-economico capitalista emendandone le deficienze e le aberrazioni, siano esse etiche o strutturali al modo di produzione. Parole d’ordine come “benessere” (un generico ben vivere) e “grandi valori” sono rivendicate associandone la realizzazione concreta alla soluzione del problema dei consumi, cioè al problema dello sfruttamento dell’ambiente. Si ricordi, al riguardo, quanto propugnato da uno dei testi fondatori di quest’ordine di pensieri, in Gaia. A New Look at Life on Earth (1979) dello scienziato inglese James Lovelock. Centrale è qui il fondo naturale a cui anche l’uomo deve essere ricondotto poiché la cultura, la civiltà, l’educazione muovono ancora oggi i loro primi passi; la natura, invece, avendo avuto milioni di anni per trovare le strategie più adatte al raggiungimento dell’equilibrio omeostatico, indica sempre la strada giusta da percorrere. Stigma dell’uomo, la natura è il luogo in cui si conservano nella forma più pura e più forte i valori che lo nobilitano. Essa diventa così condizione necessaria e sufficiente: l’uomo si mostra nella sua piena umanità, nella sua spiritualità, solo nella misura in cui riconosce e si fa carico della sua essenza naturale.

Si presenta però una questione irrisolta, ereditata dalla tradizione culturale cui questa prospettiva è debitrice: se la natura è fondamento e si esprime come relazione di forze («ogni realtà è già quantità di forze “in un rapporto di tensione” le une con le altre», Gilles Deleuze,  Nietzsche e la filosofia, tr. it. Einaudi, Torino, 2002, p. 60), allora è solo presentando un principio esterno che diventa possibile determinare un loro ordine gerarchico. Tale principio è per lo più quello etico, che si esprime nella forma di benessere generale, prodotto o manifestazione dei benesseri individuali. Così, però, il fondamento stesso – il discorso ecologico – si trova ad aver bisogno di un sostegno e finisce per perdere inevitabilmente quella capacità di essere termine ultimo di paragone, di per sé evidente, che d’altra parte rivendica.

Questa problematicità ricade sul concetto di giustizia sociale a cui il benessere implicitamente o esplicitamente fa riferimento. Infatti, vi è in ultimo una giustizia che è lo stare al proprio posto all’interno delle relazioni naturali, che il sistema sociale può solo riprodurre arricchendone i tratti con la tonalità propria alla spiritualità umana. Paradossalmente, ciò che ne risulta è che la natura diventa concetto astratto e, più specificamente, sfondo dell’azione umana, che rimane a sé concettualmente identico salvo subire l’azione dell’uomo nella sua concretezza empirica.

Quest’impensato originario finisce per essere il modo attraverso cui il modello produttivo capitalista torna prepotentemente come protagonista principale. Ne è testimonianza il cosiddetto capitalismo naturale (denominazione nata nel 1999, si veda in proposito P. Hawken, A. Lovins, H. Lovins, Capitalismo naturale. La prossima rivoluzione industriale, Ambiente, Milano 2007) secondo il quale il sistema ambientale deve essere considerato un fattore primario all’interno delle dinamiche produttive, diventando una delle voci principali nel calcolo dei costi e dei profitti generali del processo di produzione. In tal modo la natura prende la forma atomizzata di risorse naturali il cui sfruttamento deve divenire intelligente, deve cioè tener conto anche della loro capacità rigenerativa e dei costi che le diverse scelte inerenti a esse comportano, al fine di raggiungere l’efficienza maggiore possibile. È all’interno di questo quadro che possono trovare il loro luogo più consono le istanze di protezione e di espansione di quello che prende il nome di “capitale naturale esistente”.

A differenza di queste impostazioni, la seconda prospettiva propugna invece un’azione riformista, in cui la problematica ecologica è una sfida che può essere accolta solo se coordinata ai piani politico ed economico. Esemplare di questa impostazione è il recente studio La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano (Feltrinelli 2009) di Jean-Paul Fitoussi e Éloi Laurent, studiosi di fama internazionale impegnati in istituzioni come l’Observatoire Français des Conjonctures économiques e, nel caso di Fitoussi, nella Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès Social, creata in Francia per iniziativa del Presidente Sarkozy all’inizio del 2008 e diretta dal premio nobel J. E. Stiglitz.

Ipotesi di partenza del lavoro è che, pur essendo il sistema-mondo capitalista assolutamente valido, necessita però di un correttivo, in quanto l’elemento etico vi è stato emarginato. Una deriva dovuta all’«inversione della gerarchia tra politica ed economia, o spesso [al]la pura e semplice subordinazione della prima alla seconda» (J.-P. Fitoussi, in la Repubblica, 23 febbraio 2009). Infatti, il “benessere materiale” è sì il fine sostanziale, ma può esserlo veramente solo nella misura in cui comprende o, meglio, è riconosciuto come rappresentazione concreta dell’elemento etico. Si configura così come orizzonte totalizzante dell’individuo in quanto ne prefigura la felicità. L’intento riformista dei due studiosi è dunque quello di consolidare definitivamente la visione capitalista profittando del momento di crisi e facendo proprio il dettato del distico holderliniano su cui a lungo ha riflettuto Heidegger: «là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva». La crisi finanziaria ancora in atto dà la possibilità di affrontare la crisi ecologica e, dunque, il rilancio dell’economia è in sé la possibilità di un correttivo della configurazione generale del mondo capitalista. Per questo è inevitabile affrontare la complessità del problema a partire dal ruolo dell’economico.

In questo quadro concettuale la disciplina economica ha un duplice compito, quello di «studiare la pertinenza dei modelli usati per calcolare gli effetti di medio e lungo termine del mutamento climatico sui modi di vita» e quello di «risolvere il problema dell’efficacia potenziale dei sistemi di incitamento prospettati per raggiungere determinati obiettivi ambientali» (p. 71). L’economia dunque non solo non può né deve rivendicare un’autonomia pseudoscientifica che, appiattendola sulle scienze matematiche, ne sterilizza le potenzialità concrete, ma deve anche evitare di propugnare un pensiero che concepisca la «dialettica dei rapporti tra uomo e Natura» (p. 21) come un sistema chiuso, incapace di superare quel limite oggettivo costituito dalle possibilità materiali della natura così da trasformarlo nel pensiero di un «esaurimento generalizzato dell’ospitalità terrestre» (p. 36). In entrambi i casi essa manca infatti la sua propria vocazione, quella di partecipare alla tutela della configurazione del mondo che l’Occidente ha sviluppato ed esportato in questi ultimi due secoli.

Per svolgere il suo ruolo specifico, l’economia deve partecipare a un dialogo inter pares con l’ecologia e la politica, dialogo che si fonda su di una struttura teorica complessa, una sorta di triangolo concettuale tra le nozioni di natura, uomo e democrazia. Quest’ultima è naturalmente il concetto politico per eccellenza. È, infatti, il miglior precipitato storico della messa in forma tecnica della natura in quanto capace di garantire l’equilibrio tra il piano delle relazioni interumane e quello delle relazioni umane con la «Natura»: «Impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato a sua volta favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita dei cittadini» (J.-P. Fitoussi, in la Repubblica, cit.). La democrazia determina dunque «ciò che deve essere uguale da ciò che può restare ineguale» (p. 72) proprio perché in grado di considerare equilibratamente l’essenza dell’uomo e l’essenza della natura. In altri termini, ecologia ed economia «non sono altro che sottoinsiemi della questione della giustizia sociale, cioè della questione democratica» (p. 71).

È così che diventa possibile il realizzarsi del sogno positivista-capitalista le cui radici affondano nella modernità: l’eterno progresso dell’umanità (cfr. p. 18). Infatti, «il processo di sviluppo umano è segnato dall’aumento irreversibile delle conoscenze» (p. 51), per cui alla «decumulazione degli stock di risorse esauribili» o alla «denaturazione altrettanto irreversibile di alcuni fondi ambientali» corrisponde «l’accumulazione dei saperi e del progresso delle tecniche» (pp. 60-61).

Posto questo quadro generale, ai due autori rimane da risolvere il problema, empiricamente confermato da studi statistici, della possibile mancanza di un nesso necessario tra la democrazia e lo sviluppo. Proprio qui l’elemento ecologico assume un peso fondamentale, che finisce per assicurare la stessa funzione della democrazia, poiché se il futuro è possibile solo conservando la capacità vitale della scena teatrale in cui si svolge la storia dell’uomo, allora tale tutela deve essere garantita prima della stessa efficienza economica; e proprio la democrazia è l’unica in grado di adempiere a questo compito.

In definitiva, però, l’approccio all’elemento naturale non viene ripensato al di là del modello dominante e si esce da un suo sfruttamento ancora una volta solo nel senso di un suo sfruttamento intelligente fondato su di una mobilitazione di «risorse intellettuali inesauribili» (p. 25). Ma tale progresso cognitivo – ed è il primo elemento che rimane impensato – è concepito come sovrapposto alla linea storica del tempo, inesauribilmente in evoluzione.

Si arriva così a un secondo punto problematico, quello del riferimento alla democrazia. Si è detto che lo scambio all’interno del triangolo concettuale funziona solo nella misura in cui si assicura la democrazia come unico modello politico. Ma gli autori ne parlano solo nel senso delle strutture politiche che essa aiuta a generare e a mantenere. Non viene mai preso in considerazione il problema della sua stessa istituzione, problema ancor più spinoso se si considera il fatto che solo ponendo questa domanda emerge l’imprescindibile riferimento a un determinato quadro morale come suo momento fondativo. In altri termini, i due autori sovrappongono il piano etico e il piano morale. Certamente non sono i primi, anzi, si tratta di un’operazione teorica che appartiene specificamente al loro background di studi. Ma se questa è la radice, allora non può essere semplicemente espunta l’opzione della violenza come mezzo di imposizione, ancora marginalmente presente solo come effetto degenerato. Infatti, è difficilmente pensabile una giustizia sociale come prodotto di un sistema democratico che stabilisca dall’alto quali siano le ineguaglianze accettabili senza considerare una certa costrizione per imporre queste ineguaglianze.

Sembra, dunque, di non essersi allontanati molto dalle spesso citate frasi pronunciate quasi un secolo fa da Ernesto Teodoro Moneta: «Forse non è lontano il giorno in cui tutti i popoli, dimenticando gli antichi rancori, si riuniranno sotto la bandiera della fraternità universale e, cessando ogni disputa, coltiveranno tra loro relazioni assolutamente pacifiche, quali il commercio e le attività industriali, stringendo solidi legami. Noi aspettiamo quel giorno …», e insieme agli uomini lo aspettano anche le formiche: «Uno sviluppo umano più democratico sarà più ospitale per gli uomini e per le formiche» (p. 95).

Didier Contadini

S&F_n. 2_2009

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