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Immanuel Kant – La fenice della natura. Scritti di geofisica e astronomia – a cura di Silvia De Bianchi [Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2016, pp. 260, € 20]


In una nota della sua Antropologia dal punto di vista pragmatico, Immanuel Kant osserva: «nella mia attività di insegnamento di filosofia pura […] ho tenuto per circa trent’anni due corsi di lezioni miranti alla conoscenza del mondo: vale a dire, di antropologia (nel semestre invernale), e di geografia fisica (nel semestre estivo)». Anche se Michel Foucault nell’Introduzione all’Antropologia kantiana ha segnalato che in realtà questa catalogazione temporale non può essere considerata corretta per diversi motivi, non si può né si deve sottovalutare il fatto che per Kant lo studio di questioni geofisiche e astronomiche non costituisce un mero diversivo accademico, completamente slegato dalla sua pura riflessione filosofica, ma un’attività teoretico-scientifica a essa complementare. In altri termini, per il filosofo di Königsberg l’antropologia e gli studi scientifici procedono di pari passo, nella misura in cui entrambi hanno per oggetto il ruolo che l’uomo ricopre nel mondo.Premesso ciò, risulta evidente che la riproposizione di alcuni degli scritti scientifici kantiani rappresenta un’occasione per approfondire il nesso tra filosofia trascendentale e scienza nel percorso teoretico-speculativo di Kant. Tant’è vero che la curatrice del volume, Silvia De Bianchi, mette in evidenza, a buon diritto, nell’Introduzione, che l’obiettivo principale di questa selezione di scritti è «tanto quello di dare una visione d’insieme dei problemi della scienza naturale, della geofisica e dell’astronomia in particolare, e del loro ruolo per la genesi della filosofia trascendentale, quanto quello di mostrare concretamente come Kant volesse usare la filosofia trascendentale per impostare correttamente le risposte alle domande poste dalla scienza naturale» (p. 16).Questo rapporto dialettico, se così lo si può definire, tra filosofia trascendentale e scienza naturale costituisce il comune denominatore dei vari saggi kantiani, che hanno, tra l’altro, il merito di affrontare, attraverso un confronto serrato con le opere e le teorie degli scienziati dell’epoca, le tematiche più disparate, che, per mere ragioni di brevitas, non possono essere prese in esame singolarmente: dall’influsso della Luna sul clima alla teoria dei venti, dal movimento della Terra intorno al proprio asse alla questione dell’invecchiamento della Terra stessa.Proprio nel trattare quest’ultimo argomento nel saggio del 1754 Se la Terra invecchi da un punto di vista fisico, Kant ci fornisce alcune indicazioni molto importanti sul suo metodo di indagine scientifica e sulle ricadute filosofiche di una particolare disciplina come la geofisica.Nel breve scritto in questione, Kant, anzitutto, cerca di spiegare cosa debba intendersi per invecchiamento. A tal fine, mette in risalto che «nella sequenza dei suoi cambiamenti, l’invecchiamento di un essere non è una fase inaugurata da cause esterne e violenti. Le cause che sostengono il raggiungimento della perfezione di qualcosa la portano del resto più vicina alla sua fine proprio attraverso stadi impercettibili» (p. 41). Ciò perché nell’ottica kantiana «tutte le cose in natura sono soggette alla legge secondo cui lo stesso meccanismo che le ha condotte in un primo tempo alla loro perfezione, ne causa gradualmente il deteriorarsi, e finalmente le conduce alla distruzione, per il fatto che continua a cambiare le cose dopo che esse hanno raggiunto la loro condizione più perfetta» (ibid.). In altri termini: Kant sottolinea che la Terra deve essere intesa come un essere vivente, che, in quanto tale, nasce, cresce, si sviluppa e infine muore. Ecco, dunque, “la fenice della natura”, cioè un particolare processo di creazione e distruzione di mondi.Sulla questione dell’invecchiamento della Terra, va, invece, osservato che nel corso del XVIII secolo circolavano diverse teorie, quattro delle quali Kant prende in esame nel suo breve saggio. La prima si basava sulla convinzione che i motivi dell’invecchiamento dovessero essere ricercati nella costante riduzione del tasso di salinità del terreno provocata dalle piogge; la seconda chiama in causa, invece, la forza distruttrice delle piogge e dei corsi d’acqua; la terza si sofferma sull’aumento delle terre emerse a svantaggio delle acque; la quarta, infine, accettata e difesa da Kant, si basa sul conetto di Weltgeist o Spiritus rector, cioè un vero e proprio Spirito del Mondo che, perdendo col passare del tempo la sua forza, determina l’invecchiamento della Terra stessa. In realtà, non va dimenticato che per Kant ci potrebbero anche essere altre cause segnatamente all’invecchiamento terrestre: «sembra che siano nascosti all’interno della Terra stessa il regno di Vulcano e un grande serbatoio di materia combustibile che potrebbero forse guadagnare terreno sotto la crosta, accumulando fuoco e distruggendo le fondamenta delle cavità superiori, il cui probabile collasso potrebbe portare il materiale infiammabile sulla superficie e causare la sua distruzione con il fuoco» (p. 106).Purtuttavia, al di là di possibili eventi catastrofici capaci di fare in modo che la Terra invecchi più velocemente, occorre soffermarsi sul concetto di Spiritus rector. Prima facie, potrebbe sembrare che Kant si serva di un principio metafisico, che regge completamente il ciclo vitale della Terra. In realtà, però, a ben guardare, l’obiettivo del filosofo tedesco è quello di sganciare lo studio della natura da qualsivoglia concetto teologico, ipotizzando l’azione di un principio tutto interno al sistema-Terra. Del resto, Kant sa bene, e lo afferma senza tanti fronzoli, che la questione è tanto spinosa da non poter essere trattata in modo risolutivo, ma soltanto “con metodo probatorio”, cioè cercando, attraverso lo studio e l’osservazione diretta di determinati fenomeni naturali, una conferma o una smentita a determinate ipotesi, senza mai cedere alla tentazione di una teoria totalizzante e onninclusiva, cioè metafisica. Un’epistemologia, insomma, quella kantiana, aperta e mai dogmatica, in perfetta sintonia con la sua filosofia pura, poggiante sulla consapevolezza, ora latente ora manifesta, che l’uomo, in quanto essere finito, vive sulla Terra per un arco di tempo assolutamente breve e limitato, e proprio per questo motivo può indagare il mondo e il resto dell’universo soltanto parzialmente, dando di volta in volta delle risposte mai definitive a problemi e questioni, che, seppur in modo differente, lo assillano da quando ha cominciato, all’alba della civiltà occidentale, a interrogarsi sul significato, primo e ultimo, della realtà. Kant, in altri termini, anche quando pensa da scienziato, non cessa di essere filosofo, cioè si sforza, continuamente, di penetrare nei fenomeni per portare alla luce ciò che la scienza in quanto tale non coglie o non considera problematico. Proprio per questa ragione, anche quando affronta determinate questioni di carattere geofisico o astronomico, Kant si comporta diversamente dallo scienziato, che, per dirla con Merleau-Ponty, «dal momento che ha i suoi fattori scatenanti, non si pone più il problema, dimentica di dover spiegare l’azione delle sue parti, e ciò perché ha realizzato il tutto e può agire su di esso. La preoccupazione del filosofo è di vedere; quella dello scienziato di trovare degli appigli. Il suo pensiero non è guidato dalla preoccupazione di vedere, ma di intervenire. Vuole sfuggire alla paralisi del vedere filosofico. Così, spesso lavora come un cieco, per analogia. Una soluzione gli è riuscita? Egli la prova su qualcos’altro, poiché gli è riuscita. Lo scienziato ha la superstizione dei mezzi che riescono. Ma in questo tentativo per assicurarsi un appiglio, lo scienziato svela più di quanto veda in realtà» [La natura. Lezioni al Collège de France (1956-1960), pp. 125-126].

Ciro Incoronato

S&F_n. 17_2017

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