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Georges Didi-Huberman – La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini – tr. it. a cura di C. Tartarini [Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 243 + ill., € 28]


Il primo saggio di questa raccolta parla di uno strano animale e presenta un incedere narrativo perlomeno insolito: «vorrei parlarvi del mio animale preferito, o meglio di quello che un giorno mi provocò il terrore più squisito, il terrore del dissimile» (p. 19). Si tratta di un fasmide, uno di quegli animali che fanno del mimetismo, di una particolare forma di mimetismo, la loro modalità di sopravvivenza, si tratta di quella classe di insetti meglio conosciuti come insetti-stecco. Didi-Huberman passeggia dinanzi alle teche del Jardin des Plantes di Parigi e, dopo aver riconosciuto, meravigliato dal loro mimetismo, vipere e serpenti di ogni genere e poi scorpioni e altri insetti velenosi, giunge dinanzi alle teche che contengono fasmidi. Il suo sguardo, la sua ricerca e la sua curiosità non vengono immediatamente accontentati, all’interno del vivarium non appare nulla. È il problema del dettaglio, problema centrale di questa raccolta, perché quando non si riesce a vedere nulla si cerca il dettaglio che possa svelare la visione, che possa portare all’essere ciò che ama nascondersi. Eppure Didi-Huberman vede soltanto foglie un po’ accartocciate pendere da rami rinsecchiti, null’altro. Null’altro finché, discostatosi dalla paranoia del dettaglio e fatto qualche passo indietro, dinanzi ai suoi occhi appare fluttuante e attraversato da lievi movimenti il fasmide che altro non è se non la scenografia nella quale è immerso. Il fasmide non imita qualche dettaglio della natura, imita l’ambiente stesso, è esso stesso l’ambiente che imita. Il fasmide è la foglia di cui si nutre, è il ramo sul quale è poggiato. L’apparizione del fasmide ha la potenza di una rivelazione: «il fasmide – animale mitico, come avrete capito, per qualsiasi antiplatonismo – trae forza dal seguente paradosso: pur realizzando una specie di perfezione imitativa, infrange la gerarchia che qualsiasi imitazione esige» (p. 23), in poche parole «non ci sono più il modello e la sua copia: c’è una copia che divora il suo modello e un modello che non esiste più, ed è solo la copia che, per una strana legge di natura, gode del privilegio di esistere» (ibid.). L’elemento fondamentale è la dissomiglianza, cioè il fatto che è necessario un duplice mondo affinché vi sia somiglianza, duplice mondo che il fasmide fa saltare (bastava un insetto-stecco per far saltare il platonismo!), perché esso stesso è ciò che imita, diviene ciò che imita. Nell’apparizione del fasmide, nel suo venire allo scoperto per un momento, un momento senza precisione di dettaglio e senza costruzione immaginativa, si confondono quelle che sono le quattro dimensioni dell’essere dell’immagine che in questa eterogenea raccolta vengono raccontate: somigliare apparire guardare scomparire. Il titolo originale di questa raccolta di saggi e racconti edita nel 1998 e tradotta in italiano nel 2011 è allora Phasmes. Essais sur l’apparition. Ed è proprio il fasmide a rappresentarne l’unità nell’eterogeneità: «ho preso l’abitudine di ordinare questi brevi racconti di “apparizioni” – sperimentate di fronte a oggetti eterocliti, cose della vita, giocattoli, testi mistici, frammenti di quadri, insetti, macchie d’inchiostro, racconti di sogni, relazioni etnografiche, sculture, inquadrature cinematografiche e così via – sotto la voce Fasmidi» (p. 13). I fasmidi come racconti e saggi di apparizioni accidentali rappresentano un sentiero secondario nella ricerca, una maniera di raccontare (o cercare di raccontare, di tradurre in parole) ciò che ha il suo senso soltanto nell’accidentalità, non già discorso sull’essere, ma sui suoi accidenti.Ma non si tratta soltanto di suggestioni raccolte da chi, storico dell’arte ed esperto di immagini come luogo della possibilità del pensiero, subisce il fascinans e il tremendum della visione e dei suoi usi molteplici. Non si tratta soltanto di suggestioni perché a tratti e disseminate appaiono alcune indicazioni di carattere teorico che non vanno sottovalutate. Nel saggio Un candore affascinante, trascrizione di un intervento tenuto a un convegno sulla presenza di Freud nella cultura francese, Didi-Huberman si chiede se abbia senso parlare di un’“estetica freudiana”, al di là della troppo semplicistica considerazione secondo la quale Freud, nella cura dell’isteria prima e poi delle psicopatologie, avrebbe sostituito il vedere (tipico della clinica positivista di Charcot – Charcot stesso disegnava, cercava la forma) con l’ascoltare. Freud ha scritto un Leonardo, sintomo che la modalità di apparizione delle immagini nell’arte fosse degna di analisi almeno quanto quella delle immagini in sogno. E così sarebbe nata una scuola di estetica freudiana (in senso esplicito o implicito) che ritiene che l’analisi di un’opera d’arte debba muovere dal ritrovamento di quanti più dettagli è possibile per la determinazione del senso profondo di un’opera. Si tratta del problema del dettaglio, di quel dettaglio tanto cercato e che non riusciva a mostrare la potenza d’apparizione del fasmide. Secondo Didi-Huberman c’è una sorta di sotterranea opposizione tra figura figurante che non raffigura ma prefigura – l’opera d’arte è naturalmente incompiuta e imperfetta perché la stessa materia della pittura non può produrre corpi realmente isolati, la materia unica mescola gli elementi della raffigurazione e la fa divenire virtuale – e figura figurata, il dettaglio il quale spesso non è che una costruzione dello storico dell’arte, vera e propria ossessione della visibilità compiuta e perfetta, della leggibilità assoluta dell’immagine come se si trattasse di parole (ma poi sarebbe da chiedere: le parole sono davvero così leggibili in maniera dettagliata?) Lo storico dell’arte allora dovrebbe andare «al di là del principio di dettaglio» (p. 95) così come è necessario andare al di là del sintomo e cercare altrove il significato della malattia. Il luogo della ricerca di senso dell’opera d’arte non è la clinica di Charcot ma un vivarium abitato da fasmidi.Nel saggio I paradossi dell’essere da vedere Didi-Huberman, forse non troppo sotterraneamente attratto dai platonismi di qualsiasi sorta, discute quello che gli sembra essere il problema fondamentale in Sant’Agostino, il fatto che «l’uomo tenda verso il visibile come tende verso il nulla» (p. 129) e che quest’uomo «potrà salvarsi solo se si distaccherà da questa diversione nell’essere – questa perversione –, attraverso un movimento di conversione che gli offrirà qualche possibilità di rivolgersi all’essere» (p. 130). Ma questo movimento di conversione conduce a un paradosso. Se Dio è l’essere da vedere, da contemplare, la luce in quanto ciò che permette la visibilità stessa, l’esistenza delle cose, ma se la visibilità si ha attraverso gli occhi e ciò di cui si nutrono gli occhi e l’animo peccatore degli uomini non è altro che nulla, allora la visione, il guardare contiene in sé un paradosso ineludibile, che si può guardare veramente soltanto quando si è morti, quando la visibilità stessa obbedirà a regole totalmente differenti e la visione non sarà altro che una metafora senza referente.Questo libro si legge allo stesso modo con facilità e con difficoltà. Presuppone letture su più livelli e la stessa scrittura, sempre sul filo tra saggistica e letteratura, mette alla prova il lettore. A tratti si rimane semplicemente suggestionati e affascinati da un grande prosatore moderno, il pensiero si lascia trascinare dalle immagini (di parole) perché le suggestioni sono veramente efficaci, plasmano il pensiero mentre vengono assorbite dalla lettura. C’è il racconto del sogno di La solitudine a due dove una folla di immagini intricate come un rebus sono esistite, esistono ed esisteranno nella realtà perché «tutte le nostre estreme solitudini d’immagini sono l’organo stesso che ci permette di stare in contatto con la comunità […] il massimo vertice della nostra solitudine immaginaria sarebbe allora, né più né meno, il massimo vertice della nostra condizione comune, in ciò che sceglie per noi la figura del destino» (p. 30). Della stessa tipologia, seppur diversissimo, è Ritornanza di una forma che si apre con una descrizione di una passeggiata natalizia all’interno di un mercato di figurine nei pressi di piazza Navona a Roma; in questo luogo Didi-Huberman racconta di sentirsi attratto da un elemento di presepe napoletano e si sente attratto da quella «massa oblunga, indefinibile, immobile […] di un cattivo gusto estremo» (p. 44) perché, attraverso quella che con Warburg può essere definita Nachleben, sopravvivenza delle forme, vi riconosce un ex voto viscerale etrusco del III secolo a. C. Anche questo è il racconto di uno stupore: «sembra proprio che sia la stessa forma ad essere transitata, persistita, “ritornata” sotto i miei occhi stupefatti» (p. 45). La ricchezza di questa raccolta è grande: c’è l’eremita Filoteo il Sinaita, L’uomo che inventò il verbo “fotografare” (pp. 53-59), che avrebbe voluto perdersi nella luce e che trascorreva le giornate al sole torrido del deserto, aspettando il momento in cui Dio si fosse impresso in lui come un sigillo, photeinographestai. E poi c’è il sangue della merlettaia di Vermeer, le macchie d’inchiostro di Victor Hugo e le xilografie tedesche del XV sec., e poi ancora Beato Angelico, una tomba romana, il “cubo” di Giacometti e la topografia esasperata del film Shoah di Lanzmann.Sono scritti che vanno presi per quello che sono, accidentali come le cose che raccontano, come le immagini che studiano e producono: «davanti a queste cose fortuite – cose di passaggio, ma apparenti – siamo improvvisamente colti dall’irragionevole desiderio di abbandonare tutto e rivolgerci, senza perdere un attimo, al loro potere di fascinazione» (p. 12), ma l’accidente rappresenta sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che accade ma che sarebbe potuto anche non accadere, qualcosa di impermanente e il pensiero, in scritti a questo punto necessariamente brevi, necessariamente intimi, necessariamente facili e complessi allo stesso tempo, deve adattarsi «all’oggetto apparente così come l’insetto chiamato fasmide si adatta alla foresta in cui penetra» (p. 13). In poche parole: l’accidentale è sempre un esercizio di differenza, anzi più propriamente un esercizio di dissomiglianza.

Delio Salottolo

S&F_n. 9_2013

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