Il postmoderno sembra aver perso quella centralità all’interno del dibattito filosofico che aveva acquisito nella seconda metà del XX secolo e mantenuto fino agli inizi del XXI. Lo ha perso perché ha rivelato la sua modernità o perché la modernità ha rivelato la sua incompiutezza, mostrando perciò di essere essa stessa postmoderna; o forse perché la dissoluzione del tempo storico e degli spazi geografici da parte delle nuove tecnologie mediatiche, che schiacciano dimensioni esistenziali e orizzonti interpretativi sul presente, hanno superato i concetti stessi di modernità e postmodernità. Sono questioni, e non le sole, sulle quali si interroga il libro curato da Gabriella Baptist, Andrea Bonavoglia e Aldo Meccariello.La ricerca di una de-finizione, anche e proprio nel senso letterale di de-terminazione del postmoderno, apre la raccolta di saggi. Massimo Piermarini (Postmoderno e postmodernismo: Lyotard, Baudrillard, Deleuze), confrontandosi con una ormai vasta letteratura sul’argomento, sottolinea il fallimento del postmoderno come nuovo canone ermeneutico rispetto alla modernità, nel cui alveo sostanzialmente è tornato. Il postmoderno declinato come ipermodernità porta a maturare «la convinzione che la postmodernità si presenti semmai come la realizzazione estremizzata (e caotica) delle contraddizioni intrinseche della Modernità, non come ciò che le revoca e le liquida». Il postmoderno che ha presentato la provvisorietà, l’indeterminatezza come categorie dell’emancipazione è naufragato dinanzi «alla durezza dei conflitti e delle contraddizioni del mondo». Anche il postmoderno è diventato metanarrazione del potere neocoloniale della finanza globalizzata, strutturata come una filosofia della storia che origina proprio dalla “fine della storia”, intesa come restaurazione dell’Eden capitalistico che avrebbe superato definitivamente la nozione di conflitto. Confrontandosi con un classico dell’argomento, quale Lyotard, il saggio di Piermarini lumeggia – proprio nel senso ermeneutico del termine – un’“ideologia” postmoderna, intenzionata a trasformare i valori del successo e della scienza tecnologizzata nel vettore direzionale del procedere umano. Sarebbe quindi il riemergere subculturale dell’idea di progresso e il riapparire dei confitti a svelare il carattere tutto moderno del postmoderno e a costituirne il tramonto, più che l’eclisse. Un tramonto che porta a sfumare gli stessi confini temporali del postmoderno, che Lyotard colloca alla fine del XVIII secolo, così come alla fine degli anni cinquanta o negli anni ottanta con la rivoluzione digitale che smaterializza progressivamente il lavoro, la società e i confini di sovranità degli Stati nazionali. Oscillazione sulla linea del tempo, figlia del rifiuto della Storia a vantaggio delle storie, tipica del postmoderno, e madre, allo stesso tempo, dell’inevitabilità della collocazione su di un piano sovrastorico che impedisce di considerare il postmoderno un’epoca. Con Baudrillard, poi, il postmoderno si caratterizza per l’abbandono del cogito cartesiano a favore del «dominio del demone-oggetto» che si espande al punto da costituire un’iperrealtà che trascende la realtà stessa e la sopravanza di senso.Sembra quindi possibile, e necessaria, un’archeologia della modernità alla quale si dedica Paolo Vernaglione (Per un’archeologia del presente). Archeologia rimanda a un discorso sui principi che Vernaglione individua nella dimensione lineare del tempo moderno e nel suo uso pratico «in cui la trascendenza tramuta nell’immanenza dell’eterno presente nella cosiddetta postmodernità». Una postmodernità la quale, negando coerentemente l’avvenire, sfratta l’uomo dalla storia, dichiarandola conclusa. Fine della storia, esaurimento delle grandi narrazioni, pensiero debole, hanno finito per legittimare lo status quo: è il paradosso della postmodernità che nata sancendo la fine delle ideologie, finisce per essere legittimazione ideologica dei nuovi poteri. L’Autore dichiara la postmodernità «un’impostura» perché ha nascosto, dietro la frattura operata e dichiarata del tempo storico, la sua continuità e inerenza con il presente, operando un confronto tra le tre diverse tracce della modernità e conseguentemente della postmodernità. Nell’etica del discorso di Habermas e nel pensiero debole di Rovatti e Vattimo, Vernaglione individua apologie della conservazione, dispositivi culturali di normalizzazione, riconoscendo vitalità e persistenza solo a quella che definisce “filosofia critica”, lettura eretica di Marx, forse proprio perché non è diventata «senso comune corrente», perché «pensiero critico, minoritario e pericoloso, perché analitico e conflittuale» e perciò silenziato nel momento di ristrutturazione del capitalismo e del tramonto dei movimenti operai. Per uscire dagli equivoci strumentali del postmoderno, l’Autore pensa a un’antropologia della morte dell’uomo che non abbia più l’uomo e la sua natura al centro dei suoi interessi a vantaggio di una dimensione dell’esistenza che si collochi «nella prospettiva di un produttivo “ritorno” alla storia naturale, non più funzionale al modello della performance, della produzione come valore in sé e di conseguenza alla creazione di una trascendenza fondata sulla potenza sovrumana e di contro di un corpo che dissolve il senso del limite. Congegni che fanno dell’uomo, secondo la definizione di Foucault, un «essere allotropo empirico-trascendentale». Superare l’equivocità della modernità comporta anche de-totalizzare il discorso, aggirare l’eccesso di parola, la generalizzazione dell’informazione, il silenzio a cui si riduce il soggetto sotto lo strepito dell’io, funzionale a «rendere vigente la legge, rimuovere il piacere per il desiderio, annullare la morte nelle politiche della vita», che fanno sì che nella realtà tutto sia compiuto.Nel suo saggio, Antonio Stefano Caridi (Bruno Latour e i modi d’esistenza del moderno), identifica nello svuotamento del mito dell’emancipazione l’origine del dibattito sul postmoderno. La condizione postmoderna – descritta da Lyotard – come fine delle grandi narrazioni e della visione teleologica della storia, viene ripercorsa da Caridi sulla falsariga dell’analisi etnografica di Bruno Latour: una linea che consente di sottoporre a critica la modernità come orizzonte di trasformazione obbligata di tutte le culture. Concepire, infatti, la realtà non come datità, ma come costruzione del soggetto nella sua relazione con entità diverse – umane e non umane – visualizza un mondo come «network di elementi ibridi tra loro associati». La modernità si pone al crocevia di una realtà ontologicamente distinta tra una natura come sistema costante di condizioni e una società come caleidoscopio differenziato da cui originano molteplici direzioni di sviluppo. Modernizzazione e occidentalizzazione diventano sintagmi equivalenti nell’indicare il percorso evolutivo della civiltà contemporanea, ma proprio il mito dell’universalità della categoria del moderno viene contestata dall’emergere del pensiero postmoderno, che ha buon gioco nello sfruttare la crisi della modernità minacciata da diverse articolazioni di modernità e dalla crisi dello statuto del sapere tecnoscientifico che ne era grammatica e sintassi. È venuta meno, cioè, l’illusione nel potere soteriologico della modernità e sono emerse controfinalità che ne mettono a rischio i vantaggi: Caridi parla di una «modernità riflessiva» che eviti l’autodistruzione, evitando però rifiuti apocalittici. Sulla scia dell’apparente paradosso latouriano del non essere mai stati moderni, viene sviluppato un ragionamento che colloca la modernità nella distinzione tra natura e società, che trovano nella rappresentanza un punto d’unione: rappresentanza di soggetti umani, come di soggetti non umani. La tecnoscienza si è posta come modello paradigmatico della civiltà moderna non è in virtù del suo carattere prometeico, quanto della sua capacità di ampliare il diametro della sua rappresentanza nella creazione e mobilitazione di «una gamma crescente di ibridi». Esattamente quanto Latour si propone nella decostruzione delle categorie identitarie con cui i moderni si sono tradizionalmente definiti – natura e società – con il conseguente rigetto della distinzione tra fatti e valori, tra critica e traduzione, tra natura e cultura. L’avvento aurorale della postmodernità ha ipertrofizzato queste differenze, ha abbattuto i ponti che ancora consentivano ai moderni ambigui attraversamenti di fronte. Solo l’assoluta separazione tra natura e cultura, tra un oggetto ridotto a fatto scientifico e un soggetto logorroico in quanto privo di un oggetto a cui ancorare il discorso, consente di parlare di postmodernità. Natura e società, invece, sono sovrastrutture artificiali, risultato delle connessioni ogni volta individuate tra soggetti e oggetti: una natura pura e incontaminata non esiste. Una via d’uscita è indicata da Latour nell’actor-network theory, ovvero nell’analisi della catena di mediatori umani e non umani che rendono visibile il tracciato delle reti di associazione che conducono alla conoscenza del fenomeno stesso, «senza il ricorso a specifiche istanze trascendenti, come la natura o la società». La modernità, per Latorur, è un’invenzione della cultura occidentale per prendere le distanze dal suo passato e dalle altre culture, ma in realtà il manifesto d’emancipazione con il quale definiva il suo programma non è mai stato attuato. Ecco perché non siamo mai stati moderni.Giuseppe Patella (Il postmoderno è morto! Lunga vita al postmoderno) parte dalla constatazione della fine della vulgata postmodernista per osservare come la metabolizzazione del lutto non sia ancora stata compiuta poiché ci si aggira ancora tra le rovine del postmoderno; macerie che «sono del resto entrate a far parte della struttura stessa del vivere contemporaneo», nel quale si è ormai assorbita l’«estetizzazione diffusa», la spettacolarizzazione dell’esistenza, il continuo e accelerato cambiamento delle coordinate spazio-temporali, la leggerezza e superficialità della logica comunicativa dei media. L’Autore sottolinea come la discussione sul postmoderno, e a ritroso sul moderno, abbia coinvolto le voci più peculiari del dibattito culturale e siano valse a individuare le coordinate e a decifrare i segni più caratteristici del nostro tempo: spaesamento, fine del mito del progresso specie di quello scientifico, superamento della linearità storica, ma anche fallimento del progetto emancipativo illuministico, tipico della modernità secondo Habermas. Patella si chiede dove si possa trovare allora l’ubi consistam del postmoderno, dal momento che esso ha delegittimato e reso improponibile qualsiasi metanarrazione capace di racchiudere dentro un orizzonte di senso i diversi settori della conoscenza; e questo in virtù della crisi che esso ha causato e rivendicato della stessa dimensione legittimante. Attraverso la lezione di Lyotard – «di gran lunga la più seria e convincente» – l’Autore colloca il centro del postmoderno nelle giustificazioni parziali, reversibili, differenziate e determinate; lo colloca nella fiducia nella capacità inventiva e sperimentale della conoscenza, non compresa nella sua versione tecnocratica o mercatistica, ma posta in quell’orizzonte «critico, demistificante e riflessivo del pensiero, che scommette sulla sua capacità di aprire sempre nuove possibilità» e di tollerare l’indeterminato e l’incommensurabile, il senza-forma, il sublime in senso kantiano. Cosicché il saggio può concludere rivelando il rischio che nelle critiche al postmoderno possa annidarsi il bisogno di una lettura semplicistica, meramente descrittiva del reale, che abbandoni ogni istanza critica ed emancipativa. Il rischio che la dichiarata conclusione delle grandi narrazioni, sia di tipo profetico-teologiche che dialettico-ermeneutiche, conduca a «tradurre in surrogati mondani il depositum fidei di ascendenza biblica» è avvertito da Orlando Franceschelli (Modernità e naturalismo: oltre la secolarizzazione e il postmoderno) che propone un’emancipazione da ogni prospettiva teologico-metafisca – anche quella larvatus prodeo – in nome di un naturalismo filosofico che permetta di superare l’esito nichilistico della postmodernità senza ricadere in una modernità incapace di superare la tradizione platonico-cristiana. Quella che l’Autore chiama «secolarizzazione-traduzione» è impegnata a garantire all’uomo moderno i vantaggi e i privilegi che gli assegnava la dottrina teologica, traducendo concettualmente in una narrazione storico-mondana l’eredità biblica. L’alternativa tra il permanere nella tradizione platonico-cristiana, sia pure nella sua traduzione secolare, o fuoriuscirne per affrontare la traversata del deserto del nichilismo viene superata, secondo Franceschelli, dal pluralismo delle visioni dell’uomo, della storia e della modernità che è l’eredità da conservare del moderno. Un naturalismo, che restando nella modernità, può essere non anti-religioso, con il conseguente rischio dell’annichilimento e del silenzio dei valori, ma post-religioso, affrancato cioè da ogni nostalgia per il sacro, come dalla ricerca di surrogati mondani della Gerusalemme celeste; e proprio per questo «capace di praticare anche con i portatori di prospettive filosofiche o di esperienze religiose ispirate al trinomio Dio-uomo-mondo, un costruttivo “dialogo della plausibilità”».Il saggio di Andrea Bonavoglia (La funzione della forma. Architetture moderne e postmoderne del Novecento da Loos a Gehry) è un ripercorrere sintetico l’itinerario architettonico del XX secolo attraverso il razionalismo di Loos e la figura di Gehry, da cui filtra un Movimento Moderno che si propone obiettivi di pulizia stilistica e di essenzialità sintetica al fine «di rigenerare una coscienza urbanistica e per distruggere le convenzioni stilistiche e formali precedenti». Il postmoderno architettonico è uno stile che decreta la morte del moderno, accusato di superficialità e scarsa comprensione della storia, almeno in due architetti: Rob Krier e Aldo Rossi. Di contro all’essenzialità moderna, «il postmoderno gioca con l’eclettismo, si imbeve di disinvolte citazioni classiche, di libertà compositiva, di irrazionalità, di fantasia» e il moderno era animato da una volontà ricompositiva figlia delle distruzioni delle due guerre mondiali, il postmoderno non teme di “giocare” con le rovine, come dimostrano i Magazzini Best. La forma, nel postmoderno, non è più l’aspetto visivo complessivo ed esteriore, ma «rappresenta spesso una sorta di maschera della funzione, della quale accentua i contenuti, li sottolinea, li enfatizza o minimizza, ma cerca di non confonderli». Il postmoderno, avverte l’Autore, spezzando la relazione tra forma e progettazione, e anzi subordinando questa a quella, cade nel bizzarro, nello stravagante, che ne segna la conclusione, nel senso della realizzazione, della compiutezza. Ed è proprio la fine dell’architettura postmoderna che può determinare quel cortocircuito «in grado di ridare energia e qualità alla ricerca architettonica».Apparentemente intermezzo, il saggio di Roberto Caracci (Le figure dell’“abitare” in Kafka. La casa come bunker e come rifugio poroso) apre alle considerazioni sull’abitare, nei racconti di Kafka, come rifugio o prigione, nell’alternarsi di claustrofilia e claustrofobia. Abitare come habere e continuare a habere, quindi «possedere uno spazio come abito» è un’ulteriore metafora del postmoderno come spazio definibile all’interno del quale “abitare”, trovando rifugio dalla fine del moderno o rinserrandosi nel bunker claustrofobico che nella definizione si irrigidisce, perdendo così porosità e arredando l’anticamera della morte di senso che altro non è che «rifugio senza scambi col nemico e senza pori».Il saggio successivo di Antonino Infranca (Il Trans-Moderno al di là del Moderno e del Post-Moderno) appare proprio come una risposta al postmoderno come alternativa tra rifugio e bunker. Moderno e postmoderno abitano la stessa casa e l’Autore interpreta il postmoderno come fase successiva, in atto, del moderno, ed entrambi come interpretazioni di quei fatti a cui il pensiero contemporaneo sta tornando a rivolgersi. Per Infranca, «la Modernità nasce quando l’Europa si confronta per la prima volta con il primo e radicale Altro della storia dell’Occidente» e quindi trova origine – che hegelianamente si configura come rivelazione del cominciamento, del fondamento – nella de-civilizzazione dei popoli amerindi, nella rivelazione che mille e cinquecento anni di cristianesimo non avevano in realtà mutato l’antropologia aggressiva e predatoria maturata in lunghi secoli di povertà. La modernità, nell’interpretazione dell’Autore, completa il processo di metamorfosi del cristianesimo da religione dell’amore a religione del dominio e del denaro, iniziata con l’alleanza col potere imperiale romano e conclusasi nel capitalismo che, grazie all’oro del Nuovo Mondo, inizia un nuovo modo di produzione. Il rifiuto dell’umanità dell’Altro comporta il rifiuto della propria – poiché la vita è una, come insegnava lo Hegel de Lo spirito del cristianesimo e il suo destino – e lo scacco dei valori morali e religiosi che il Medioevo cristiano aveva elaborato. Ne consegue «la secolarizzazione e la laicizzazione della vita quotidiana, la separazione della politica dalla religione e dell’economia dalla morale: tutti elementi fondamentali della Modernità». Il postmoderno non eccede da questa posizione di dominio perché considera ancora l’Altro in funzione di qualcosa, cioè vuole condurre l’Altro a quello che Infranca chiama il Centro, il cosiddetto Occidente sviluppato più il Giappone; vuole l’Altro uguale a sé, rivelandosi incapace di accettare l’alterità dell’Altro. L’Autore scorge nella filosofia della liberazione, in specie di Enrique Dussel, la vera fuoriuscita dal moderno, in quanto non vuole includere l’Altro nel Centro, ma rifiuta la logica della dicotomia Centro-Periferia e quindi la logica di dominio e sopraffazione. L’integrazione è ancora iscritta nella forma dei vari genocidi culturali; è una diversa declinazione del paradigma del dominio. «Il sacrosanto esercizio del diritto di critica, a questo punto, scatena la violenza armata delle vittime», ma questa violenza nega la vita in se stessi in quanto la nega nell’Altro, cosicché «tutte e due le parti hanno perso l’occasione di incontrarsi». La demolizione postmoderna delle narrazioni è rimasta all’interno della narrazione occidentale: con la sua “retorica” dei diritti umani che sono elaborazione della storia dell’Occidente e vengono invece spacciati come assoluti. Solo il trans-moderno, inteso come «civilizzazione nata dal dialogo tra periferie», può costituire una nuova interpretazione del moderno perché non è interna, ma esterna a quel Centro dove il moderno trova la possibilità di abitare nella postmodernità.Chiude il volume il saggio di Aldo Meccariello (Postille provvisorie non-scientifiche), per il quale il postmoderno si legittima proprio come nuovo abitare della modernità poiché le fondamenta di questa casa sono comuni: Keine Metaphysik mehr, come dicevano i positivisti tedeschi. Tanto il moderno quanto il postmoderno si propongono la liberazione «dalle ipoteche metafisiche e ontologiche precedenti, ossia dal peso di un’autorità trascendente»; se il postmoderno mette in discussione «l’orientamento teorico rappresentativo del moderno», pure ne condivide l’assunto critico, nel senso della continua messa in discussione del passato e della tradizione. Se il postmoderno rifiuta l’idea di un tempo condiviso tipico della modernità, «rivendicando per sé viceversa un’idea di tempo reversibile, discontinuo e frammentario», pure continua ad abitare la casa del tempo, per parafrasare Heidegger. Per questo la crisi contemporanea del tempo, divenuto “buco nero” che assorbe ogni percezione e desostanzializza tutto ciò che viene attratto dalla sua forza gravitazionale, diventa anche la crisi del postmoderno che si rivela «un segmento o un’espansione della modernità perché recupera alcuni temi classici all’interno di una struttura indebolita e antifondativa, come quella di verità e di conseguenza del discorso metafisico che posizione lo sguardo sulla finitezza-contingenza della nostra condizione». Per Meccariello, moderno e postmoderno si rivelano fragili contenitori dello stesso contenuto, sia pure proposto in visioni plurali. La crisi del soggetto, la fine dell’autocoscienza – per citare Ugo Spirito, misconosciuto anticipatore del postmoderno – hanno significato la crisi della modernità che sulla potenza costruttiva e liberatrice del cogito si fondava; ma nel momento in cui «la crisi è diventata oggi una situazione permanente e non più un momento superato dall’incertezza», anche il postmoderno ha perduto la possibilità di interpretare la crisi come nuovo inizio. E l’Autore può concludere che «ogni attraversamento della soglia di un’epoca sembra perciò puramente illusoria».
Rodolfo Sideri
03_2016