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Emanuele Banfi (a cura di) – Sull’origine del linguaggio e delle lingue storico-naturali. Un confronto tra linguisti e non linguisti [Bulzoni, Roma 2013, pp. 258, € 30]


Questo testo presenta gli Atti di un Convegno Interannuale, organizzato dalla Società di Linguistica Italiana (SLI). Il Convegno si è tenuto presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca il 24 e il 25 giugno 2012 e la posta in gioco è particolarmente interessante. I Convegni Interannuali della SLI presentano un tema e invitano linguisti e non linguisti a confrontarsi su di esso, in maniera tale da mettere non soltanto in contatto discipline differenti ma anche impostazioni metodologiche e epistemologiche, insomma opzioni teoriche, assolutamente differenti, in dialogo. Il tema del Convegno Interannuale del 2012 riguardava una delle questioni più articolate e più complesse sulle quali linguisti e non linguisti potevano confrontarsi, cioè l’origine del linguaggio verbale umano e l’origine delle lingue storico-sociali. In campo, dunque, non vi è soltanto il problema complesso di ritrovare l’origine della facoltà di linguaggio ma anche di chiarirne il nesso con la nascita e l’evoluzione delle lingue che concretamente si sono sviluppate (e continuano a svilupparsi) nel cammino storico dell’uomo. Il problema epistemologico di fondo non può che essere quello della relazione natura/cultura, laddove per natura occorre intendere i nuovi orizzonti che soprattutto le neuroscienze applicate sembrano poter aprire sulla questione dell’origine del linguaggio verbale umano e per cultura l’idea, sostenuta ad esempio da Federico Albano Leoni (pp. 49-77), che non esista alcuna relazione tra la struttura della lingua e la struttura biologica del parlante umano. Negli ultimi anni, indubbiamente, si è assistito a uno schiacciamento della dialettica sul versante della natura, le neuroscienze sembrano infatti promettere spiegazioni in numerosi ambiti, e così questo Convegno, partendo dal famoso diktat della Société de Linguistique de Paris del 1866, propone una discussione proprio a partire dalla dialettica natura/cultura intorno a due punti fondamentali: «definire quanto, allo stato delle nostre conoscenze, non è naturalizzabile nelle lingue, non è riconducibile immediatamente a stati neurali univocamente determinati, e va invece attribuito a una cognizione collettiva e sedimentata, storicamente determinata e in perenne movimento» e «capire quale contributo, a questo proposito, possono dare al dibattito tipologi, morfologi, sintatticisti e, ancora, discutere qual è il contributo che può venire dai dati su cui operano i linguisti storici» (p. 7).Chiaramente è impresa improba riuscire a discutere la ricchezza degli interventi che sono stati proposti, ci prefiggiamo allora il compito più modesto di rendere conto di una serie di problemi e posizioni, nonché di possibili soluzioni, che sono stati proposti intorno a questo tema che sembra mettere in discussione e problematizzare l’intero senso dell’avventura umana sulla terra.Potremo cominciare a discutere i saggi che maggiormente pongono a tema le questioni epistemologiche di questo incontro tra linguisti (che potrebbero essere presentati come i difensori a spada tratta di una prospettiva discontinuista e antinaturalista) e non linguisti (che potrebbero essere presentati come i nuovi paladini del naturalismo a tutti costi a partire, soprattutto, dalle neuroscienze cognitive).Queste forme di semplificazione sono immediatamente analizzate dal primo contributo del volume, quello di Lia Formigari (pp. 13-22), che pone l’attenzione proprio sul diktat della Société de Linguistique de Paris, mostrando come, al di là degli eccessi, quel divieto possa essere produttivo in quanto aiuterebbe ancora oggi a mettere in discussione naturalismi troppo spinti e poco critici: la conclusione è che «resta da evitare nel contempo la doppia tentazione ontologista insita nel naturalismo: per un verso di considerare le condizioni astratte dei fenomeni come condizioni incondizionate, per l’altro di considerarne le realizzazioni storico-empiriche come enti di natura» (p. 21). Lo stesso Telmo Pievani (pp. 153-168) ritiene fondamentale il dialogo tra linguisti e non linguisti, non tanto perché possa essere immediatamente superabile la dialettica natura/cultura, quanto perché il confronto tra posizioni tanto differenti permette di cogliere i limiti epistemologici intrinseci a entrambe le opzioni teoriche. Insomma, per Telmo Pievani, bisogna sempre usare la massima cautela per quanto riguarda l’“esportazione” di modelli biologici in altre discipline. In questo senso, forse, potrebbe essere letto anche il contributo di Annibale Elia (pp. 69-85), il quale ha analizzato alcuni dati neuroscientifici riguardanti i fenomeni sintattici e semantici in una prospettiva di apertura e non chiusura nei rapporti tra linguisti e non linguisti. Certo, la sua posizione è quella evolutiva e continuista per eccellenza: «le evidenze che abbiamo presentato rendono, indubbiamente, più credibile l’ipotesi di uno sviluppo graduale della facoltà di linguaggio come una delle possibili conseguenze dello stato di prematuranza biologica generale del neonato e del suo progressivo divenire soggetto culturale senza alcun disegno preordinato e in assenza di un salto evolutivo» (p. 83).È chiaro, comunque, che la stessa interrogazione sull’origine del linguaggio verbale umano e sull’esportazione di modelli biologici all’interno della linguistica, abbia le sue radici in primo luogo nell’evoluzionismo darwiniano e nelle stesse riflessioni di Charles Darwin e in secondo luogo nelle forme contemporanee di ri-problematizzazione della questione dell’evoluzione che si è avuta con S. J. Gould e E. S. Vrba attraverso la nozione di exaptation.Stefano Gensini (pp. 23-48), allora, attraverso uno studio a tratti “filologico”, ricostruisce la riflessione di Darwin sulla questione dell’origine del linguaggio verbale umano mettendone in rilievo le fonti teoriche in studiosi della sua epoca o precedenti. E così, dopo aver messo in rilievo la posizione fondamentale di Darwin, e cioè che la stessa formazione del linguaggio verbale abbia portato a un riassetto completo delle capacità cognitive umane, Gensini cerca di rendere conto di quale sia stata la complessità della posizione di Darwin: «l’idea conclusiva di Darwin è che a questo dispositivo “metà istinto e metà arte” che è il linguaggio siano dovuti i passi giganteschi fatti dalla mente umana nella sua lunga storia. Affiora nelle pagini finali del libro l’ipotesi che l’uso continuato del linguaggio si sia ripercosso sull’organizzazione del cervello, con un effetto ereditario che a sua volta contribuì all’ampliamento del linguaggio» (p. 45). La conclusione è che la riflessione di Darwin, ripensata a partire dagli schemi della scienza cognitiva successiva, sia ancora attuale e abbia ancora qualcosa da dire sul problema. Diversamente lavora Antonino Pennisi (pp. 169-183) che analizza per quanto riguarda la possibilità stessa dell’articolazione linguistica tutta una serie di dati morfologici come il tratto vocale sopralaringeo, le questioni riguardanti la corteccia uditiva fino ai problemi connessi alla rifunzionalizzazione dell’area di Broca. In questo senso, sempre all’interno dell’alveo della teoria evoluzionistica, possiamo leggere le conclusioni del suo studio: «non sarebbe forse per noi una grande sorpresa accorgerci che solo due posizioni delle diverse migliaia possibili combinazioni dei due parametri possano risultare capaci di far produrre alla macchina i suoni articolati comuni al sapiens e all’uomo moderno, e a nessun’altra specie animale? Sapremmo, in quel momento, perché, pur avendo percorso un tratto comune lunghissimo della nostra evoluzione assieme agli altri primati, a un certo punto abbiamo imboccato una diversa strada “tecnologica” e, quindi, cognitiva» (p. 181).Sulla nozione di exaptation, invece, prendono le mosse i contributi di Irene Berra e Emanuele Serrelli (pp. 197-216) e di Fabio Di Vincenzo e Giorgio Manzi (pp. 217-247). Secondo Irene Berra e Emanuele Serrelli la nozione di exaptation è più utile di quella di adattamento per riuscire a comprendere la relazione tra strutture e funzioni e in più permetterebbe un’apertura maggiore al dialogo tra neuroscienziati e linguisti. Dopo un’attenta analisi della questione della cooptazione funzionale, lo studio analizza tutta una serie di evidenze attraverso le quali sarebbe possibile applicare il modello evolutivo della exaptation ai fatti linguistici e all’origine stessa della facoltà di linguaggio. L’ipotesi da cui parte e con cui si conclude il saggio è che «il linguaggio articolato, come molti altri caratteri complessi, sia l’ennesimo esempio di bricolage evolutivo, e che studiarlo in quest’ottica possa ancora dare molti risultati» (p. 199). Di Vincenzo e Manzi, invece, sempre a partire dal meccanismo della exaptation, hanno proposto la tesi secondo la quale la dimensione linguistica e la dimensione imitativa (dunque sociale) siano strettamente correlate e che, proprio a partire da premesse proprie dell’apprendimento imitativo e sociale analizzate in chiave funzionale e neurofisiologica, si potrebbe giungere a spiegare l’origine del linguaggio verbale umano.Altra questione trattata nel Convegno e nel volume è quella del possibile parallelismo tra il meccanismo di evoluzione della specie e quello dell’evoluzione delle lingue storico-sociali, se sia insomma possibile utilizzare il modello evoluzionistico anche nell’analizzare i processi di trasformazione delle lingue storico-sociali. Marco Mancini (pp. 105-142) nega assolutamente questa possibilità: «l’ipotesi “darwiniana” di una perfetta correlazione sostanziale fra genealogia linguistica e genealogia bio-antropologica si è rivelata un’illusione, come tutti gli approcci “generalizzanti” […] le vicende storiche delle lingue sono enormemente più disturbate di quanto ritengono alcuni biologi […] appaiono insomma molto più complicate di quelle proprie dell’evoluzione della specie nel mondo naturale» (p. 135). Più moderata e possibilista risulta invece la posizione di Lorenzo Renzi (pp. 185-195): «la questione del perché delle analogie notate tra lingua e biologia è di difficile soluzione. La risposta più prudente, e forse più assennata, è che le affinità siano i riflessi in domini diversi del fatto che in tutti i due casi si tratta del tema del cambiamento […] le somiglianze sarebbero quindi formali. Ma formali non vuol dire illusorie» (p. 194).La discussione sul ruolo delle neuroscienze in ambito linguistico viene portata avanti da Andrea Moro (pp. 143-151), il cui contributo è particolarmente interessante in quanto delinea, attraverso un gioco di parole con il termine exaptation, la nozione di kataptation, «la permanenza di un tratto, una volta utile, in assenza di qualsiasi funzione» (p. 150). Il punto di partenza di Andrea Moro è quello di una sfida ancora più elevata (lanciata sempre dalle neuroscienze) e che consiste nel «capire se non solo il linguaggio, ma il formato in cui il linguaggio si esprime, cioè le regole di tipo grammaticale che lo caratterizzano, dipendono in qualche modo da attività selettive del cervello» (p. 143). Si tratterebbe, in poche parole, di cercare e di trovare la base neurofisiologica della Grammatica Universale di Chomsky.Linguisti come Paolo Ramat e Tullio De Mauro affrontano il problema da un’altra prospettiva. Paolo Ramat (pp. 87-104), attraverso un punto di vista prettamente tipologico, analizza la nozione di “evoluzione” all’interno delle lingue storico-sociali, confrontandosi criticamente con le teorie che vogliono che a un maggior grado di complessità corrisponda un più alto livello di evoluzione. Tullio De Mauro (pp. 249-258), invece, analizza in primo luogo la ricchezza delle semiotiche non soltanto umane ma anche animali, mostrando come molte di esse siano assolutamente “inaspettate”. Allo stesso modo anche nelle vicende storico-culturali umane si verificano e si producono “lingue inaspettate”, soggette a fattori contingenti, per cui, secondo le parole di Tullio De Mauro, «la vicenda linguistica si sviluppa o involve sempre come una navigatio dubia et incerta conforme però alle capacità altamente adattive e creative del genere umano, alle sue capacità di fare e di essere storia» (p. 256).Insomma, un volume interessante e che, grazie alla ricchezza delle posizioni proposte, riesce a fotografare lo stato attuale della riflessione sull’origine del linguaggio verbale umano.

Delio Salottolo

S&F_n. 10_2013

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