Chiunque si assuma, con chiara consapevolezza, il compito di riassumere in poche pagine vaste questioni filosofiche sa quanto sia difficile trovare quell’aurea mediocritas fra eccessiva semplificazione e argomentazioni troppo complesse. L’interessante volumetto di Eleonora Severini, a giudizio di chi scrive, riesce ottimamente a raggiungere questo obiettivo non scontato, per un tema, il rapporto fra etica ed evoluzionismo, di cui in questa contingenza storica è più che mai necessaria un’esposizione agile ed essenziale, ad uso anche dei non specialisti.
L’indirizzo metodologico del testo è molto preciso: esso si inscrive «all’interno di quella tradizione di riflessione filosofica sull’etica di impostazione analitica» che molto deve alla distinzione di George E. Moore fra livello descrittivo e livello normativo, la cui confusione genera la fallacia naturalistica (p. 9). Più specificamente, l’approccio scelto è un naturalismo non riduzionista, «per cui la scienza viene riconosciuta come un interlocutore privilegiato ma non esclusivo della riflessione filosofica» (p. 11). Vengono esposte innanzitutto (cap. I) le diverse posizioni di Charles Darwin, di Herbert Spencer e di Thomas Henry Huxley circa il tema in oggetto, a sottolineare «come quella tra etica ed evoluzionismo si sia da subito presentata come una relazione complessa» (p. 13). Dopodiché (cap. II) vengono accuratamente descritte le tesi neodarwiniane sull’etica, specialmente quelle della sociobiologia e della psicologia evoluzionistica, che vengono successivamente (cap. III) sottoposte a critica empirica ed epistemologica e confrontate ai più recenti sviluppi dell’evoluzionismo, di stampo più “pluralista” e debitori dell’apporto di discipline come le neuroscienze e l’etologia. Infine (cap. IV) vengono elencate e descritte le più recenti formulazioni del dibattito, che si muove fra i due poli apparenti del rifiuto del darwinismo o del rifiuto dell’etica. La tesi di Severini è che una terza via è non solo possibile ma preferibile, e consiste nel riconoscere che la teoria di Darwin, così come ogni conoscenza scientifica sul mondo, può essere istruttiva per l’etica, ma che da essa non può essere ricavato tout court il contenuto della nostra morale (a meno di non commettere la fallacia naturalistica). In altre parole, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale può aiutarci a comprendere, in una prospettiva naturalistica (che non equivale necessariamente al riduzionismo), come sorge il sentimento morale; ma non perché noi possediamo un certo catalogo di norme etiche piuttosto che un altro.
Si tratta di una soluzione che tiene conto in maniera adeguata di quanto già Darwin aveva osservato circa la genesi di quello che egli definisce “senso morale”, collocandosi dunque «in continuità con la spiegazione sentimentalista dell’etica di Hume e Smith» (p. 26), diversa sia dal contrattualismo di derivazione hobbesiana (ibid.), sia da quelle spiegazioni innatiste della sociobiologia, che postulano l’altruismo come il risultato di un calcolo razionale (ma inconscio) dell’individuo, codificato nei suoi geni, come nel celebre modello del “Dilemma del prigioniero” (cfr. pp. 39-52). Come opportunamente osserva Severini, «occorre sottolineare che, nella sua trattazione dell’etica, Darwin non commette alcuna fallacia naturalistica. Alcuni degli evoluzionisti che hanno cercato di sviluppare dei sistemi etici hanno commesso questo tipo di errore, indebolendo di gran lunga le loro teorie e compromettendo in maniera profonda la relazione tra etica ed evoluzionismo. Darwin, invece, non ha mai avanzato alcuna proposta normativa sostantiva, limitandosi a un obiettivo più “modesto”: spiegare la genesi dell’etica» (p. 28).
Non è la prima volta che la filosofia italiana si concentra sul rapporto fra evoluzionismo ed etica: basti pensare ai fondamentali studi in proposito condotti da Eugenio Lecaldano, Antonello La Vergata e Simone Pollo, solo per citare alcuni fra i riferimenti principali dell’Autrice. Tuttavia, questo libro tiene conto della bibliografia più recente e permette anche al lettore non specialista di orientarsi (in ossequio al titolo della collana, “Bussole”, in cui il volume compare) in un argomento in cui permangono ancora tanti, troppi, pregiudizi. A cominciare dall’ambigua espressione “darwinismo sociale”, che per lungo tempo ha costituito un capitolo importante della storia dei rapporti fra filosofia morale e teoria dell’evoluzione, e che, come precisa Severini, poco o nulla ha a che fare con la persona di Darwin: essa infatti «compare per la prima volta nel 1880 e venne coniata al fine di indicare alcuni usi impropri del darwinismo. Il principale obiettivo polemico verso cui venne rivolta erano, in generale, tutte quelle applicazioni sociali della teoria darwiniana dalle ricadute conservatrici e, in particolare, […] l’opera di Spencer», le cui tesi «si basavano sull’argomento che, così come in natura vige la legge dell’eliminazione del più debole a vantaggio del più forte, la stessa legge vale anche per la società» (pp. 33-34). Desta stupore e amarezza il constatare personalmente che le tesi spenceriane vengono tutt’oggi riprese (sovente attribuendole, erroneamente, a Darwin), da individui probabilmente ignari del contesto storico-culturale in cui sono sorte (e che Severini espone nel dettaglio: pp. 28-34), per giustificare il carattere necessario, ineludibile e positivo della “sopravvivenza del più adatto” fra gli imprenditori che si trovano a fare i conti con le disastrose conseguenze economiche della pandemia da Sars-Cov-2. Anche questo è un elemento che fa riflettere sull’importanza della divulgazione scientifica in generale, e dell’urgenza del testo in esame in particolare.
Contro il “darwinismo” sociale di Spencer si levò, nel 1893, la voce di protesta del più acceso fra i sostenitori di Darwin, Thomas Henry Huxley, che a partire dalla stessa premessa di Spencer (la constatazione della “lotta per l’esistenza”) ricavò una conclusione diametralmente opposta. Ammesso che si possa trovare un indirizzo morale a partire dall’osservazione della natura, ciò deve avvenire per via negationis: il progresso morale è incompatibile con le leggi dell’evoluzione darwiniana; pertanto dobbiamo immaginare l’uomo che, unico fra gli esseri senzienti, nell’ambito della natura selvaggia si ricava un “giardino dell’etica”, il quale «si configura come un “artificio” che contrasta la condizione naturale e selvaggia dell’esistenza umana» (p. 36). La posizione di Huxley, con l’affermazione decisa dell’autonomia dell’etica rispetto alle scienze empiriche, condizionerà profondamente il dibattito sui rapporti fra etica e darwinismo, influenzando la critica di George E. Moore verso le spiegazioni naturalistiche dell’etica.
Severini dedica ampio spazio ai successivi sviluppi del neodarwinismo, segnatamente ai programmi di ricerca della sociobiologia e della psicologia evoluzionistica, individuandone correttamente i punti di debolezza epistemologica nel riduzionismo e nell’adattazionismo, con la prima che spiega l’altruismo in termini di schemi di comportamento che incrementano la fitness codificati nei geni e la seconda che giunge a considerare l’etica come un “modulo mentale” specifico, selezionato per risolvere i problemi di adattamento propri di quel particolare contesto ambientale che è la comunità sociale (pp. 52-59). Infatti, osserva l’Autrice, se alla sociobiologia, intesa come lo studio del comportamento sociale sulla base della teoria neodarwiniana, va riconosciuto l’indubbio merito di aver risollevato in termini scientifici la questione dopo decenni di eclissi (Severini, 2020, pp. 38-39), va ricordato che essa «è stata uno dei programmi di ricerca più incendiari emersi negli ultimi decenni nel mondo scientifico» (p. 41), soggetto a critiche sia di natura ideologica sia più strettamente epistemologiche. In particolare, la visione «genocentrica» dell’evoluzione (p. 50), introdotta da George C. Williams e divulgata da Richard Dawkins negli anni Settanta con il famoso saggio Il gene egoista (1976), è un buon esempio del riduzionismo invalso nel neodarwinismo della prima ora e nella sociobiologia in particolare; un atteggiamento avanzato da quegli «“ultradarwinisti dal grilletto facile”, pronti a sparare a qualsiasi oggetto in movimento se minaccia (quella che loro pensano che sia) l’ortodossia evoluzionistica» (T. Pievani, Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto? Einaudi, Torino 2014, p. 26). In primo luogo, «a livello esplicativo, la sociobiologia semplifica i fattori in gioco nelle spiegazioni evolutive riconducendoli all’azione della sola selezione naturale; a livello dell’analisi, la sociobiologia sostanzialmente si limita al solo piano genetico» (Severini, 2020, p. 51). In secondo luogo, come affermano Gould e Lewontin nel loro celebre articolo sui “pennacchi” di San Marco, il riduzionismo del programma adattazionista, di cui la sociobiologia degli anni Settanta fa largo uso, si esprime in «atomizzazioni indebite» degli organismi, per cui «troppo spesso il programma adattazionista ci dona una biologia di parti e di geni, ma non dell’organismo» (S.J. Gould & R.C. Lewontin, I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss [1979], trad. it. di M. Ferraguti, Einaudi, Torino 2001, pp. 7, 26; disponibile su http://pikaia.eu/wp-content/uploads/2017/01/gould-lewontin.pdf). L’articolo sugli spandrels è giustamente definito da Severini «una svolta importante nella storia del pensiero biologico» (Severini, 2020, p. 69): contestando il pregiudizio per cui ogni carattere (atomizzazione) sia selezionato per ricoprire la funzione attuale nel miglior modo possibile (ottimizzazione), ed evidenziando il ruolo dei vincoli (filetici, ontogenetici, strutturali) nell’evoluzione degli organismi, Gould e colleghi hanno contribuito in maniera decisiva alla formazione di quel “pluralismo darwiniano” che, in quanto foriero di nuovi sviluppi disciplinari come l’evo-devo e l’evo-eco-devo, appare così importante anche per la riflessione su etica ed evoluzionismo (pp. 68-80).
Ma il contributo di Gould alla ridefinizione del neodarwinismo forse più importante per una riflessione filosofica scientificamente informata sulle implicazioni dell’evoluzionismo per l’etica risiede nel concetto di contingenza storica: la storia della vita (l’evoluzione biologica), così come la storia sociale (umana) e le biografie individuali, avrebbe potuto svolgersi in un modo diverso da quello effettivo, a causa di una quantità di accidenti particolari che uniti alle tendenze generali generano esiti imprevedibili a priori, ma giustificabili razionalmente a posteriori. Questa idea, ricorrente nei suoi saggi, ha trovato la sua sistematica formulazione ne La vita meravigliosa con il celebre esperimento mentale della “ripetizione del film della vita”: «ogni ripetizione del film condurrebbe l’evoluzione su una via radicalmente diversa da quella intrapresa in realtà. Ma le differenze conseguenti nell’esito non significano che l’evoluzione sia priva di significato, e priva di un ordine significante; la via divergente della ripetizione sarebbe altrettanto interpretabile, altrettanto spiegabile, a posteriori, quanto la via reale. La diversità dei possibili itinerari dimostra però che i risultati finali non possono essere predetti fin dal principio. Ogni passo procede sulla base di precise ragioni, ma non si può specificare un finale sin dal principio, e nessun finale si verificherebbe mai una seconda volta nello stesso modo, poiché ogni via procede passando per migliaia di fasi improbabili» (S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia [1989], trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 20184, pp. 47-48).
Questa nozione ha ripercussioni profonde non solo dal punto di vista scientifico (in quanto si pone in contrasto con una visione banale dell’evoluzione come progresso), ma anche in senso strettamente filosofico ed etico. Non solo l’evoluzione umana non è il culmine di una scala di progresso – siamo piuttosto un «ramoscello secondario di un albero rigoglioso» (ibid., p. 40): il risultato stesso di quell’evoluzione contingente non è il migliore possibile, recando delle imperfezioni che rappresentano il basso continuo della nostra filogenesi (cfr. T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina editore, Milano 2019). Come osserva la stessa Severini: «l’evoluzionismo ci insegna che non vi è motivo di pensare che il modo in cui ci siamo di fatto evoluti sia il migliore tra quelli in cui avremmo potuto evolverci ma che non si sono verificati» (Severini, 2020, p. 128). I più aggiornati dati della paleoantropologia, i quali mostrano la convivenza di diverse specie di Homo fino ad epoca relativamente recente, come giustamente fa notare l’Autrice, rendono il discorso circa i diversi modi di essere umani ben più che mera speculazione (p. 129).
Che fare, dunque? Riconoscere che siamo figli del caso, e che poiché anche il nostro senso morale avrebbe potuto essere diverso da come effettivamente si è sviluppato, dobbiamo necessariamente giungere a posizioni scettiche sull’etica? Severini è di un altro avviso. Sensibile all’insegnamento di Gould, il quale affermava che «siamo figli della storia, e dobbiamo seguire il nostro cammino in questo, che è il più diverso e interessante degli universi concepibili: un universo che è indifferente alla nostra sofferenza, e che ci offre quindi la massima libertà di avere successo, o di fallire, nella via che abbiamo scelto» (S.J. Gould, op. cit., pp. 332-334), l’Autrice afferma che «la consapevolezza della contingenza e la conseguente negazione del realismo morale, invece che costituire un motivo di sconforto, dovrebbero essere viste come un’opportunità» (Severini, 2020, p. 130) e conclude: «In linea con l’insegnamento darwiniano, l’assenza di finalismo e la centralità della contingenza, se, da un lato, mostrano la fragilità e la finitezza del punto di vista umano, dall’altro lato, riconsegnano agli esseri umani il proprio destino, destino che qui va inteso come un orizzonte di possibilità aperto nella dimensione in cui esso non viene limitato “normativamente” dall’esterno ma costruito, per così dire, dall’interno» (ibid.).
Il saggio di Severini ci consegna dunque una consapevolezza del carattere necessario, ma non sufficiente, della scienza per informare l’uomo circa il suo posto del mondo e, dunque, le sue scelte morali: l’etica di impronta naturalistica è riabilitata, evitando la fallacia naturalistica, con buona pace di Moore.
Giovanni Altadonna
S&F_n. 25_2021