L’alterità s’incista così nel corpo, ma non è mai un parassita:è la voce del padre che continua a parlare al mondo attraverso il proprio figlio,in una sequenza mai uguale a se stessa
Roberto Marchesini, Alterità. L’identità come relazione
EA: Eleonora Adorni
RM: Roberto Marchesini
EA: Un pensiero che vive nell’accoglienza dell’alterità. Così si potrebbe definire l’approccio filosofico di Roberto Marchesini che, con il volume Alterità appena pubblicato da Mucchi, offre una ricognizione a volo radente su uno dei temi centrali della nostra contemporaneità. E la vecchia concezione dell’identità forte – il castello inespugnabile del cogito cartesiano – che implode minato alle sue fondamenta da un esercito, pacifico ma perturbante, di alterità non-umane. Dalla filosofia alla cronaca dei giorni nostri: non si può non pensare a chi oggi dichiara di voler alzare muri per arginare flussi di individui, per impedire le contaminazioni con lo straniero, senza rendersi conto che, come scrive Marchesini, l’alterità alberga già dentro di noi, nel cuore pulsante della nostra identità.
RM: Bisogna proprio partire dal concetto di identità per parlare di alterità poiché si tratta di un discorso che ci riguarda in maniera diretta, da vicino. Siamo abituati molto spesso a focalizzare il cuore di un’identità approcciandola dall’interno e in maniera essenzialistica come se presentasse dei predicati propri e che la riguardano in modo diretto; si crede che l’identità debba in qualche modo preservare questa integrità, un nucleo centrale auto-riferito e autentico. In tale lettura, cerchiamo sempre di capire l’identità di qualcuno facendo riferimento a ciò che gli è proprio e, in un certo senso, è già presente in maniera originale in lui. Una prospettiva falsata dove tutta la relazione che il soggetto ha con il mondo è una relazione epidermica, superficiale, che si genera dalla dialettica tra il cercare di preservarsi e ripulirsi – scoprire ciò che è proprio del Sé – e il continuo utilizzo del mondo in modo orbitale, esterno, strumentale. Prospettiva che sta dentro al cogito cartesiano, ovvero all’idea che il soggetto si riconosce nel momento che si rispecchia, una sorta di introspezione narcisistica del sé. Il cogito in questo senso è un atto solipsistico che mette tra parentesi la realtà.
EA: Ed è proprio per smantellare Cartesio che proponi il passaggio da un cogito ergo sum a un dialogo ergo sum: sono proprio poiché vivo in relazione. Come già affermato da Bachtin, da Todorov, da Bateson – solo per citare alcuni autori i cui echi ricorrono spesso nelle tue pagine – l’essere umano non è titolare di nessuna sovranità sul proprio territorio, anzi, è costantemente posizionato su una soglia, la famosa Hestia protagonista di uno dei tuoi primi volumi (Il concetto di soglia, 1996), che nel renderlo dipendente dall’altro-da-sé, ne permette il suo stesso divenire.
RM: È proprio in questo senso che parlo di un’ontologia relazionale. Che cosa significa? Innanzitutto pensare l’identità come frutto di processi relazionali e condivisivi. Si tratta di due aspetti differenti e per me cruciali per cui proverò a spiegarmi meglio. Per illustrare cosa intendo per aspetti condivisivi è utile riportare alla mente il classico esempio dell’evoluzionismo. Ho sempre notato una certa fatica nel comprendere questo punto poiché le persone restano arroccate alla loro posizione esistenzialistica. In una visione condivisa, un predicato non nasce con o per la specie, ma è qualcosa che sta all’interno di un continuum; le cure parentali, l’amore materno, l’empatia, solo per prendere alcuni esempi, non nascono con l’essere umano ma sono predicati che si sono sviluppati molto prima di lui. Potremmo dire che oggi troviamo lo stesso predicato condiviso tra tutti i primati perché non è qualcosa proprio di homo Sapiens, ma qualcosa che l’essere umano riceve e condivide con altre specie. L’aspetto condivisivo fa sì che non abbia senso fare una collezione predicativa che specifichi distinguendo, ma la collezione predicativa è una somiglianza di famiglia, ovvero una somiglianza di tratti, che l’essere umano condivide con altre specie. È uno sforzo inutile andare a cercare determinati caratteri nell’uomo e pensare che questi siano a lui esclusivi, sono caratteri che nascono con altre specie e noi le riceviamo in dono.
EA: Il famoso “Dono di Epimeteo” come l’hai chiamato in diverse occasioni. È l’apertura ai contenuti non-umani (donati, secondo il mito, da Epimeteo agli animali) che ha permesso all’essere umano di adattarsi proficuamente al percorso evolutivo che ha compiuto. Il ruolo dell’alterità animale, in questo sentiero, è stato fondamentale poiché capace di gettare un ponte coniugativo al partner umano, ibridandone i suoi predicati.
RM: Questo è un aspetto interessante di quella che io chiamo ontologia relazionale, perché in qualche modo prende in considerazione il fatto che le dicotomie disgiuntive siano fallaci, in questo continuum non più fatto di sfumature categoriali. Si tratta di compresenza del predicato in più specie, non una sfumatura quindi, né un aspetto quantitativo, ma lo stesso predicato si presenta in più soggetti. Se pretendo di cercare l’uomo attraverso percorsi disgiuntivi con l’alterità, sarò destinato a non incontrarlo mai. Così facendo si arriva al paradosso di chiamare in modi differenti la stessa cosa, negli animali la chiamo pulsione, nell’essere umano lo chiamo desiderio e potrei fare molti esempi come questo. L’altro aspetto è che il predicato non è presente ab origine e quindi totalmente svincolato, il predicato si costruisce nella relazione con l’altro, c’è quindi una dialettica relazionale che lo fa emergere. È molto importante tener presente che il punto di costruzione delle qualità predicative non è più l’interno dell’identità ma le sue aree coniugative, le soglie di interscambio. Non abbiamo più un’epidermide, un involucro che contiene e preserva ma un insieme di soglie che facilitano lo scambio e questo è un passaggio notevole. In un certo senso, quando io costruisco una qualità, la realizzo sulla base dell’altro non sulla base di una disgiunzione: l’ontologia relazionale è una ontologia che parte da presupposti totalmente diversi da quelli propri di una visione disgiuntive, ovvero l’idea che i predicati si realizzano in totale autarchia.
EA: Uno slittamento significativo che investe anche l’antropologia da sempre viziata da una sorta di auto-referenzialità, un’antropologia antropocentrica che si sta solo oggi timidamente aprendo al non-umano, pensiamo ai contributi di Eduardo Kohn e Viveiros de Castro. Se “I frutti puri impazziscono” per citare il titolo nonché monito del famoso libro di James Clifford, l’ibridazione è sempre stata considerata ad appannaggio esclusivo della specie homo. L’uomo – scrive Clifford Geertz – è un animale impigliato nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto….
RM: Il secondo aspetto importante infatti è a fronte di ciò, ridefinire la dimensione dell’antropo-poiesi, ovvero la dimensione del divenire umano. In questa visione c’è da mettere in discussione un’antropologia basata sull’enucleazione dell’uomo dal mondo dove l’essere umano utilizza il mondo ma non si contamina con il mondo. Non c’è nessun aspetto predicativo dell’essere umano che è riferibile a qualcosa che l’esterno gli dà e questo è il punto debole della scienza antropologica che cerca disperatamente di trovare il bandolo di una matassa che è destinato a non trovare se rimane invischiato in una visione solipsistica. Non lo può trovare pensando né l’essere umano come un’entità in grado autarchicamente di esprimere cultura quasi fosse un evento emanativo né, dall’altra parte, pensando alla cultura come a qualcosa che vada a compensare una mancanza. Se fosse vero che la cultura è una stampella per sopperire un handicap originario, come spiegare ad esempio la creatività? Il punto fondamentale è iniziare a pensare che il processo culturale è un dialogo con il mondo esterno, con le alterità ambientali, vegetali, con gli animali non-umani. Iniziare a pensare la cultura come un farsi altro, cioè un oltrepassarsi che scaturisce da un processo di affiliazione con l’alterità. A questo punto l’altro diventa una sorta di mia controparte, luogo in cui io mi ibrido, in cui mi proietto, l’altro come un’alterità che io ospito. Per tornare al concetto di affiliazione, generalmente potremmo affermare che esistono due forme di affiliazione, a) la proiezione nell’altro e b) l’essere posseduti dell’altro. Dal mio punto di vista, l’antropo-poiesi va letta come una tendenza dell’essere umano ad accogliere l’altro proprio in virtù di alcune sue caratteristiche filogenetiche come la forte tendenza mimetica e di cura che sta ad esempio, alla base del modo di giocare di bambini. Siamo animali che imitano e che hanno una forte tendenza agonistica con il mondo esterno; questa competitività insieme a una forte propensione all’invidia – intesa in senso positivo, naturalmente – portano l’essere umano all’emulazione, al voler essere come ciò che osserva. Queste caratteristiche rappresentano dei volani, non di cultura in sé ma di ibridazione e la cultura, dal mio punto di vista, nasce appunto dall’ibridazione.
EA: Nel momento dell’incontro tra uomo e alterità non-umane, queste ultime divengono volani di “senso di carenza”, vere e proprie epifanie di cultura che facilitano quegli spostamenti di soglia che sono il vero movens della antropopoiesi. Insomma, la cultura è frutto della relazione con il non-umane e a testimonianza di ciò porti numerosi esempi etnografici: la danza Masai come introiezione delle coreografie del corteggiamento delle gru coronate, il make-up con la felinizzazone degli occhi eletto a canone di bellezza, la musica, l’architettura, la tecnologia…
RM: C’è un esempio che faccio spesso e che ben definisce cosa intendo: nel momento in cui vedo un uccello volare, in virtù degli aspetti mimetici di cui parlavo prima, sento in me una forte tendenza imitativa che mi porta a introiettare la possibilità del volo. È come se in quel momento avessi un’annunciazione, la consapevolezza che esistono nuove dimensioni esistenziali. Ho chiamato questo fenomeno “epifania animale” ed è il momento in cui il fenomeno non è più altro-da-me ma qualcosa che mi riguarda, che sento dentro, ovvero diviene un altro-con-me, un altro-in-me. Si tratta di passaggi successivi di questo processo ibridativo che fa sì che a quel punto si apra una nuova dimensione, quella del volo. Dopodiché è solo questione di tempo il cercare una tecnica, l’essere umano può impiegare pochi giorni o migliaia di anni come testimoniato dalla storia del volo da Icaro ai fratelli Wright, però il punto fondamentale è che l’uomo inizia a sognare di volare ben prima di capire come poterlo fare. La tensione verso il volo viene molto prima della capacità di volare e in questo senso la cultura diviene tensionalità. Questo “andare verso” non ha niente a che fare con un fenotipo esteso come pensa la sociobiologia né con la compensazione di una carenza come vorrebbe l’antropologia filosofica, è semplicemente una forza, il che vuol dire che c’è un dialogo con qualcuno ed è questo il punto di riferimento di questa tensionalità.
EA: Per tornare alla contemporaneità, che ruolo hanno oggi le alterità e che futuro le attende?
RM: Le alterità vanno riconsiderate sotto il profilo di un dialogo che non è linguistico, io parlo infatti di “contributo referenziale” o di “dialettica referenziale”, di “ibridazione”. Vanno considerate come partner di un processo che va rivalutato e come non oggetti. La tendenza a un’ontologia solipsistica o riflessiva ha banalizzato e annichilito le alterità, le ha trasformate in oggetti da fruire. La tendenza in molte culture extra-occidentali è considerare l’alterità, questa va rispettata e riconosciuta, anche se magari non necessariamente tutelata – l’animale può essere ucciso, l’albero può essere abbattuto, il fiume può essere anche scavalcato da un ponte – ma nonostante questo, c’è una riconoscimento di un’alterità. Nella cultura occidentale tale riconoscimento è venuto completamente meno, svuotando la portata referenziale dell’alterità e trasformandola in mera proiezione. E quando parlo di proiezione parlo di diversi fenomeni che non riguardano solo l’antropomorfismo, gli animali domestici non vengono trasformati semplicemente in bambini, vengono trasformati in entità puerili. In questo senso, non è vero che cani e gatti diventano bambini reali, sono “pueromorfi” e come tali vengono trattati. La proiettività è il fatto che l’alterità viene comunque investita da un predicato che mi riguarda e viene a perdersi il carattere di rivelazione… quando vedo il volo degli uccelli qualcosa si rivela mentre qui non c’è nessuna rivelazione perché sono io che attribuisco all’altro qualcosa che gli è estraneo e lo trasformo a mio piacimento, che sia un supereroe o un bambolotto vi è poca differenza. Il secondo passaggio invece è la reificazione, fenomeno che ha molti punti in comune con la proiezione; l’alterità come soggetto inerte, come macchina, un’entità esclusivamente valutabile sotto il valore performativo che mi può dare. La società occidentale a mio avviso è gravemente malata di reificazione, a essersi affermata non è la visione sciamanica o quella degli aborigeni australiani per fare due esempi di culture in cui l’altro viene riconosciuto, ma una cultura che si sta globalizzando sempre di più e sta distruggendo il pianeta proprio perché non ha nessun attenzione verso i contenuti di alterità.
11_2016