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Caterina Zanfi – Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 [Quodlibet Studio, Macerata 2013, pp. 336, € 26]


Il saggio Bergson e la filosofia tedesca. 1907-1932, permette di penetrare all’interno di alcuni dei laboratori più fecondi della filosofia del XX secolo: non soltanto l’intento dell’autrice è quello di restituire l’intensità di un dibattito, forse un po’ sottovalutato, tra il filosofo della vita Henri Bergson e la Lebensphilosophie tedesca, ma il saggio permette anche di rilevare alcuni passaggi fondamentali della filosofia contemporanea, laddove il criterio di definizione della modernità incontra le problematizzazioni dello statuto della nozione di vita nella sua intensità epistemologica, filosofica e politica. Il saggio presenta un duplice movimento: da un lato si cerca di ricostruire come la penetrazione del bergsonismo in Germania, negli anni che precedono la Grande Guerra, abbia prodotto effetti evidenti nello stesso sviluppo di quella tradizione culturale (soprattutto, ma non solo, negli ambienti antikantiani), dall’altro si evocano gli “effetti di ritorno” che tale ricezione, spesso parziale ma sempre feconda di potenzialità, ha avuto sulla filosofia di Bergson, soprattutto nella fase che lo ha condotto ad allargare la sua grande “intuizione” ontologica, contenuta ne L’Évolution créatrice, alle questioni di carattere morale e politico dell’ultima grande opera apparsa nel 1932, Les deux sources de la morale et de la religion. Come suggerisce la stessa Zanfi: «la relazione presente tra la filosofia bergsoniana e la versione che ne danno gli interpreti tedeschi di inizio Novecento impone di rivolgere l’attenzione al di sotto del senso forzato della parola, verso il pensiero, e dunque conduce ad una comprensione più affilata tanto della filosofia di Bergson quanto dello stesso paesaggio filosofico tedesco» (p. 11). Bergson compare sulla scena filosofica tedesca di inizio XX secolo nel bel mezzo della polarizzazione conflittuale tra Nietzsche e Kant, tra vita e intelletto, tra scienza idiografica e scienze nomotetiche, e le interpretazioni “creative” che sorgono sulla sua riflessione, pur restituendo un “Bergson meticcio”, permettono di definire non soltanto le differenze culturali tra Francia e Germania, ma anche la piattaforma di “problemi comuni” che attraversa una fase storico-filosofica determinante per la tradizione occidentale.Quest’opera di geostoria della filosofia è organizzata in cinque capitoli che rappresentano altrettante tappe della relazione tra il bergsonismo e la cultura tedesca: la complessità della filosofia tedesca dei primi decenni del Novecento è resa attraverso la definizione di quattro luoghi e di quattro tradizioni di pensiero che, in un modo o nell’altro e attraverso impostazioni differenti, si sono confrontati con il bergsonismo e che, nel periodo tra il 1907 e il 1914, hanno avuto anche dei contatti diretti con il filosofo francese. La soglia è data proprio dall’anno 1914, quando, allo scoppio della Grande Guerra e delle ostilità tra francesi e tedeschi, si riaccende in senso ideologico la sfida tra le due culture e le due civiltà: Bergson prende apertamente e pubblicamente una posizione ultranazionalista che porterà alla fine dei rapporti con i suoi “colleghi” al di là del Reno. Le quattro tradizioni filosofiche tedesche che vengono analizzate richiamano quattro luoghi: Jena, Berlino, Heidelberg e Gottinga.La prima tappa della ricezione della riflessione di Bergson in Germania si deve proprio alla “scuola” di Jena, segnata da un profondo antikantismo e dalla proposta di una riforma della cultura tedesca in chiave neoidealista da parte di Eucken. In questo senso, la filosofia di Bergson viene interpretata in chiave antikantiana e, dalla puntuale analisi della storia editoriale delle prime traduzioni in tedesco presso l’editore Diederichs, si scopre come siano stati propri gli allievi di Eucken a spingere per la penetrazione del bergsonismo in Germania. Come nota la Zanfi, dall’analisi delle parole tedesche utilizzate per la traduzione di termini e concetti bergsoniani, si coglie l’impostazione antikantiana della ricezione jenese. Attraverso la definizione di alcuni aspetti della riflessione di Eucken e mediante il confronto con teologi del calibro di von Hügel e Troeltsch si scopre come Bergson venga interpretato prevalentemente mediante la lente del pensiero religioso e mistico. Ma il doppio movimento cui si accennava porta anche alla considerazione per la quale «l’attivismo del Geistesleben non sembra irrilevante per l’apertura di Bergson alle tematiche morali che si affermano a partire dalla conferenza La conscience et la vie del 1911» (p. 274).Sempre in chiave antikantiana, Bergson penetra nell’ambiente di Berlino dove gli incontri e i confronti con la filosofia di Simmel e la riflessione del circolo del poeta Stefan George sono particolarmente fecondi. Nella capitale tedesca, il bergsonismo viene apprezzato soprattutto per alcuni temi, come quello dell’intuizione da opporre all’intellettualismo kantiano, e viene interpretato in maniera apertamente estetizzante e spiritualista. La Zanfi ritiene che, nella riflessione di Simmel, il pungolo bergsoniano sia stato fondamentale soprattutto come punto d’appoggio per una certa critica del kantismo, anche se occorre sottolineare come resti una distanza critica incolmabile tra i due pensatori, messa in luce e rivendicata dallo stesso Simmel in un articolo del 1914: l’impossibilità di una convergenza è data dall’assenza di ogni dimensione di “negatività” e di “tragicità” nel rapporto tra vita e forme nella riflessione bergsoniana, piegata tutta verso una metafisica della pienezza e della piena positività. Soprattutto attraverso la mediazione di Jankélévitch, Bergson è venuto probabilmente a conoscenza delle critiche simmeliane e alcuni aspetti di finitezza e passività o di limitazione della libertà contenuti nell’opera del 1932 sembrano provenire proprio da queste critiche.La ricezione nella città di Heidelberg, dove la tradizione filosofica è dominata dalle questioni dello storicismo, è influenzata dall’accoglienza della riflessione bergsoniana negli ambienti della Lebensphilosophie. In questo senso, si cerca di “evincere” una filosofia della storia dalla questione della durata: Driesch e Troeltsh intravedono un possibile storicismo bergsoniano come dimensione di continuità tra storia naturale e storia umana. A questo tipo di interpretazione si oppone lo stesso Bergson, che, in una conferenza del 1913, si pronuncia sulla questione in termini decisamente windelbandiani, ribadendo di fatto la distinzione tra scienze nomotetiche e scienza idiografica. Paradossalmente, l’antikantiano Bergson sembra avvicinarsi alle posizioni dei neokantiani. Sugli effetti di ritorno del confronto con la tradizione heidelbergiana, l’autrice suggerisce che la legge di duplice frenesia, contenuta ne Les deux sources de la morale et de la religion, possa aver rappresentato una risposta di Bergson alla maniera attraverso la quale si voleva ricondurre la sua riflessione sulla storia ai binari propri del dibattito tedesco.C’è, infine, la scuola fenomenologica di Gottinga. L’analisi del bergsonismo, a opera degli allievi di Husserl (tra cui un giovanissimo Koyré), è di carattere psicologista. Si inserisce all’interno di questo dibattito la critica di Scheler allo psicologismo e biologismo tipico delle varie forme che ha assunto la filosofia della vita – compresa quella bergsoniana – le quali, nonostante abbiano avuto una funzione fondamentale nella critica al meccanicismo spersonalizzante della modernità, non sono comunque riuscite a costruire una reale alternativa. Scheler inserisce a pieno titolo Bergson come uno dei critici della Zivilisation, e l’interpretazione duale della tecnica nel filosofo tedesco verrà approfondita all’interno dell’opera del 1932 dallo stesso Bergson.L’ultima tappa di questo atlante geostorico si incentra sulla questione della Grande Guerra, attraverso la ricostruzione dei dibattiti pubblici e delle prese di posizione del filosofo francese. Per la Zanfi, «la guerra ha importanza non solo come sfondo politico, ma anche come tema filosofico; l’esperienza della demonizzazione del nemico […] costituisce un importante riferimento […] per le descrizioni della società chiusa e dell’istinto guerriero ne Les deux sources» (p. 279). L’interesse che questo saggio suscita deriva proprio dalla capacità di cogliere la plasticità di una riflessione filosofica nella sua relazione non soltanto con le fonti ma anche con il più vasto ambito della vita sociale e politica di una determinata epoca.L’opera, dunque, si presenta ricca di spunti di riflessione e, al di là del nostro tentativo di rendere la ricchezza di riferimenti di questo saggio importante, la complessità della relazione tra Henri Bergson e la filosofia tedesca, soprattutto sul versante della Lebensphilosophie, restituisce non soltanto un dibattito degno di nota, ma pone al centro della riflessione contemporanea il tema della vita. La questione della determinazione di questa nozione, il posizionamento epistemologico della biologia tra le scienze moderne e le conseguenze etico-politiche che ne derivano, rappresentano uno dei fili conduttori per la comprensione del Moderno e questo saggio aggiunge un tassello importante a questa costellazione di pensiero.

Delio Salottolo

S&F_n. 13_2015

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