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Byung-Chul Han – La società della stanchezza [tr. it. di Federica Buongiorno nottetempo, Milano 2012, pp. 88, € 7]

Le ultime righe di questo breve saggio riassumono il senso complessivo dell’apocalisse annunciata (che potrebbe rovesciarsi dialetticamente nella sua unica e possibile cura): «la società che si sta approssimando potrebbe anche esser detta società della stanchezza» (p. 74). La casa editrice “nottetempo” sta procedendo alla pubblicazione di tutte le ultime opere del filosofo di origine coreane, le quali, se lette tutte insieme, si presentano come una delle descrizioni più accurate della nostra contemporaneità. Byung-Chul Han è convinto che stiamo assistendo a un cambio di paradigma che assomiglia a una soglia epocale se non addirittura definitiva: nei libri di questo autore si respira un’aria particolare, la prosa saggistica molto stringente e contratta conduce a un immaginario che toglie il respiro, una sorta di dimensione destinale dalla quale sembra oramai impossibile poter uscire.

Per comprendere il lavoro teorico che svolge Byung-Chul Han occorre attraversare i passaggi fondamentali di questo libro (molti dei quali sono ricorrenti anche in quelli successivi) per cercare di cogliere la soglia che ci consegna a un tempo definitivo. Nella Premessa alla sesta edizione tedesca (inserita all’interno di questa edizione italiana), l’uomo contemporaneo è paragonato a un Prometeo stanco: se il mito che lo riguarda è sempre stato a fondamento, sin dal Protagora di Platone, di un’immagine proficua e attiva dell’essere umano, lo sguardo che lancia il filosofo di origine coreane è sulla stanchezza che accompagnerebbe la performatività in catene dell’eroe, il cui alter ego sarebbe l’aquila che divora il fegato: la società contemporanea è la società dell’autosfruttamento, dell’autodivorazione, una società in cui tutto si gioca (anche e soprattutto la relazione di sfruttamento) all’interno di ogni singolo (e solitario) individuo.

I passaggi del ragionamento di Byung-Chul Han sono, come già si è detto, molto stringenti: innanzitutto, si definisce il passaggio di paradigma che dominerebbe l’organizzazione della contemporaneità da un dimensione immunologica a una neuronale. La dimensione immunologica, che avrebbe dominato il secolo XX, si basa su una netta distinzione tra amico e nemico, interno ed esterno, proprio ed estraneo e ha una precisa “ontologia”: l’Altro (nemico, esterno, estraneo) è un qualcosa che si inserisce all’interno del Medesimo e può assurgere a potenza negativa, a pericolo costante, e così le società necessitano di una “immunizzazione” contro la proliferazione; il paradigma immunologico si fonda su una “dialettica della negatività”: «ciò che è immunologicamente altro è il Negativo che irrompe nel Proprio e cerca di negarlo. Il Proprio soccombe a questa negatività, se a sua volta non riesce a negarla. L’autoaffermazione immunologica del Proprio si compie, dunque, come negazione della negazione. Il Proprio si afferma nell’Altro, negandone la negatività. Anche la profilassi immunologica, ossia la vaccinazione, segue la dialettica della negatività. Nel Proprio vengono introdotti solo dei frammenti dell’Altro, così da provocare la reazione immunitaria. La negazione della negazione avviene in questo caso senza pericolo di vita, poiché la reazione immunitaria non si confronta con l’Altro in sé» (p. 13). Questo paradigma, però, non sarebbe più efficace nella descrizione del mondo globalizzato della contemporaneità: l’immunologia, come criterio di verità, necessita di una topologia specifica, fatta di barriere, confini, recinti e muri, mentre si assisterebbe a un abbattimento proprio di questa dimensione come conseguenza determinante della globalizzazione (il testo, su questo punto, sembra essere già un po’ datato, dal momento che si assiste a un “ritorno” del “confine”). In questo senso si colgono immediatamente le critiche a Esposito e Foucault che attraversano le prime parti del testo e che si sostanziano nell’idea che questi autori non avrebbero colto davvero l’essenza della contemporaneità: a un paradigma di carattere immunologico farebbe da contraltare la dimensione del potere disciplinare (descritto da Foucault attraverso la topologia della prigione, scuola, caserma, fabbrica) che si caratterizzerebbe per la sua dimensione di negatività, nella misura in cui si realizzerebbe nella realtà negativa del divieto – la critica è la seguente: quando la riflessione di Foucault e Esposito si è realizzata, questi paradigmi erano, nei fatti, già superati (da sottolineare, comunque, la profonda incomprensione da parte di Byung-Chul Han del dispositivo disciplinare foucaltiano, che non è affatto negativo, ma positivo, che non nega, ma produce). Ulteriore caratteristica che descriverebbe l’errore di percezione e comprensione sarebbe quello della vita activa di arendtiana memoria, e anche su questo punto le critiche del filosofo coreano sono molto nette: ammesso che sia stato vero che l’uomo del XX secolo fosse ridotto a un animal laborans, questo non è più vero nella società contemporanea, in quanto il suo “lavorare” non lo annulla più nell’anonimato della specie, ma anzi lo soggettiva come l’Io della propria azione – l’uomo contemporaneo è l’uomo della prestazione, è l’uomo dell’azione e dell’iperattività; a essere inapplicabile alla contemporaneità – e, per certi versi, a essere davvero pericoloso – è proprio il dispositivo della vita activa e dell’azione come elemento davvero caratterizzante l’essere-nel-mondo: la Arendt «non coglie il fatto che proprio la perdita della facoltà contemplativa, che dipende non da ultimo dall’assolutizzazione della vita attiva, è corresponsabile dell’isteria e della nevrosi della moderna società dell’azione» (p. 46). Insomma, la filosofa tedesca sarebbe stata suo malgrado la profetessa del disastro contemporaneo.

Se, dunque, il paradigma immunologico proprio del XX secolo giocava tutto sulla distinzione Medesimo/Altro in senso conflittuale, se era caratterizzato da un’organizzazione disciplinare tesa a rendere docili i corpi degli uomini ai ritmi produttivi, se puntava tutto su un’attività lavorativa alienante e spersonalizzante, se il suo rifiuto rischiava di caratterizzarsi sempre come l’annullamento patologico del “preferirei di no” di Bartleby lo scrivano (sulla cui analisi Byung-Chul Han si sofferma, criticando profondamente l’interpretazione onto-teologica agambeniana), è almeno altrettanto vero che il paradigma neuronale, che invece caratterizzerebbe la contemporaneità, assume le caratteristiche di una vera e propria apocalisse che sembrerebbe far rimpiangere il paradigma precedente (una delle ambiguità di Byung-Chul Han sta proprio in questo: a tratti – ma non sempre: di qui l’ambiguità – sembra pensare al mondo della “negatività”, della “disciplina” e delle “barriere” come a un paradiso perduto).

Ecco, allora, come funzionerebbe il paradigma neuronale (in cui sarebbero scomparse le “divisioni” immunitarie tra Medesimo e Altro, le barriere e i confini in senso topologico, si sarebbe passati dal dovere del potere disciplinare al poter-fare della società della prestazione, si sarebbe portata alle estreme conseguenze il – per Byung-Chul Han – malevolo augurio arendtiano di una vita davvero activa): innanzitutto, alla dialettica della negatività si sostituirebbe una dialettica della positività – «le malattie neuronali del XXI secolo [sono] da ricondurre a un eccesso di positività. La violenza non nasce solo dalla negatività, ma anche dalla positività, non solo dall’Altro o dall’Estraneo, ma anche dall’Eguale […] la violenza della positività, derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione, non è più “virale” […] esaurimento, affaticamento e soffocamento non sono, in rapporto all’eccesso, reazioni immunologiche. Sono tutte manifestazioni di una violenza neuronale […] la violenza della positività non presuppone alcuna ostilità. Si sviluppa proprio in una società permissiva e pacificata […] la positivizzazione del mondo consente la nascita di nuove forme di violenza […] la violenza neuronale non è originata da una negatività estranea al sistema. Essa stessa è piuttosto una violenza sistemica, vale a dire immanente al sistema. Tanto la depressione come anche l’ADHD o il BD si riferiscono a un eccesso di positività» (pp. 7-20).

La società della stanchezza sarebbe dunque caratterizzata da un cedimento e da un rifiuto nei confronti dell’iperattività che la società della prestazione e della performance richiederebbe agli individui per realizzare se stessi: la depressione e i disturbi come l’ADHD e il BD sarebbero il sintomo di una patologia epocale, fondata sulla responsabilità individuale, sull’angoscia della libertà, sulla depressione della flessibilità. All’eccesso di attenzione e positività che richiede la società della prestazione andrebbe contrapposta la “noia profonda” come negazione della vita (iper)activa contemporanea; alla “potenza positiva” cioè la potenza di fare qualcosa (e di dover sempre fare qualcosa) andrebbe contrapposta la potenza di non fare cioè la potenza di dire di no – alla potenza positiva della percezione (l’obbligo contemporaneo di un’esposizione continua e senza difese a impulsi e stimoli percettivi e comunicativi) andrebbe contrapposta la negatività del non-percepire e del non-fare, come tratto fondamentale della meditazione e della vita contemplativa.

La società della stanchezza, dunque, è la conseguenza e, forse, la salvezza per una società dell’iperattività e della prestazione: la stanchezza è sia una conseguenza dell’iperattività, sia una possibile potenza di sospensione dell’azione, produttrice di un mondo differente, laddove la stanchezza non sia più individualizzata, ma una stanchezza che riconcilia, che produce “comunità”; analizzando un testo di Handke, Byung-Chul Han parla di religione immanente della stanchezza, come quella potenza che «annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele. In essa si risveglia un particolare ritmo che conduce a un’armonia, a una prossimità, a una vicinanza priva d’ogni vincolo famigliare, funzionale» (p. 74).

Il problema di questo libro (e di altri libri) di Byung-Chul Han sta nell’eccesso di tipizzazione delle riflessioni altrui e nella volontà di raccontare in maniera definitiva le caratteristiche di un paradigma che si sarebbe realizzato a partire da una frattura decisiva e che avrebbe del tutto trasformato il mondo: a nostro avviso, il vero problema è che la società della prestazione (dialettica della positività) convive con la società disciplinare (dialettica della negatività) – così come convivono forme disciplinari di lavoro (come la “vecchia” fabbrica) e forme prestazionali; che si è sempre presi nelle maglie di una potenza disciplinante che organizza tempi e spazi della vita comune, nello stesso tempo in cui c’è una richiesta di libertà di movimento, indipendenza, positività, autoimprenditoralità e flessibilità; si tratta insomma di dispositivi che si aggiungono e assommano, non che si sostituiscono, e se è vero che le patologie del nostro tempo sono quelle neuronali (usando il linguaggio del filosofo di origini coreane), è almeno altrettanto vero che le patologie del mondo immunitario non sono ancora scomparse. All’ansia di prestazione si aggiunge sempre la paura dell’Altro, alla potenza dell’Eguale che appiattisce, si aggiunge sempre la costruzione della paura e della sicurezza sulle “vecchie” categorie amico/nemico – e la nostra contemporaneità politica lo racconta perfettamente. Infine, è la proposta finale a sembrare in un certo senso inafferrabile: un «cordiale disarmo dell’io» (p. 6), fondato su un recupero della noia profonda, della potenza negativa del non-fare e di una stanchezza produttrice di comunità (ma in che modo?), non sembra essere all’altezza del compito. Il timore è che questo “disarmo” rappresenti davvero un deporre definitivamente le armi, nella disperata ricerca di una salvezza tanto inafferrabile quanto non davvero ricercata.

Delio Salottolo

S&F_n. 20_2018

 

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