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Antonino Pennisi – L’errore di Platone. Biopolitica, linguaggio e diritti civili in tempo di crisi [il Mulino, Bologna 2014, pp. 297, € 28]


È bene sin da subito esser chiari su un punto e fugare, perciò, qualsiasi dubbio: sebbene l’autore, nonostante il manifesto richiamo nel titolo, già dalle prime battute tenga a sottolineare che il suo nuovo lavoro non sia un testo su Platone, tant’è che ne «prende solo spunto» (p. 7), in realtà il filosofo ateniese, a tratti in modo esplicito a tratti in modo implicito, è una presenza costante, in particolar modo nella prima parte.Presenza continua in pagine decisamente dense e stimolanti in cui il dato strutturale è, indiscutibilmente, quello in ragione del quale le scienze cognitive sono chiamate a dare un contributo significativo a questioni bio-politiche. Il volume è, infatti, fondamentalmente «costruito attorno a due speranze di lettura. Una prettamente scientifica, che vuol descrivere la produttività teorica delle ricerche etologiche sul campo condotte negli ultimi decenni contro il riduzionismo della prima sociobiologia. L’altra di ispirazione etico-pratica che vorrebbe contribuire a trarre dalla biopolitica di orientamento naturalistico un’istanza militante per le giovani generazioni coinvolte nella terribile crisi che da molti anni attanaglia ormai i sistemi economici e politici occidentali» (p. 8).Ma si diceva di Platone, del suo essere, in special guisa nella pars destruens del testo, ovvero quella che sottende le «due speranze» succitate, presenza ricorrente. Pennisi ritiene infatti che la filosofia politica, dall’antichità ai giorni nostri, sia stata fortemente caratterizzata da un errore teorico chiaramente riferibile a Platone, errore in conseguenza del quale «è possibile ingegnerizzare la governabilità politica delle menti e dei corpi degli aggregati umani» (p. 11). Ora questo errore, quello che è possibile decifrare e, indi, assumere nei termini di vero e proprio mito dell’ingegneria sociale, «ha portato a conseguenze nefaste» in ragione delle quali la vittima è stato addirittura «tutto il corpo sociale nel suo complesso, se non l’intera specie umana» (p. 11).E perciò, a partire proprio da La Repubblica – in questo solco da criticare, opera prima e riferimento persistente per ogni ingegneria politica e sociale nella Tradizione Occidentale – si è innestata, e via via affermata, quella convinzione, col tempo divenuta vero e proprio dogma metafisico e bio-politico inattaccabile, in virtù della quale è possibile indirizzare l’azione politica in modo tale da gettare le basi per una società perfetta, chiusa, rigidamente organizzata sul piano socio-economico, guidata da coloro i quali, per le proprie peculiarità intellettive (e genetiche), hanno un accesso diretto alla Verità (nel caso di Platone, come si sa, proprio I Filosofi). Un tal tipo di prospettiva, oltre a essere profondamente intellettualistica e antropocentrica, non ha tenuto e non tiene conto della miriade di varianti ecologiche e naturali, nel senso che si presenta come un modello ideale, fuori spazio-tempo e contesto inteso nel senso più ampio possibile, da imporre a una realtà assolutamente multiforme.E quindi, all’idealista così concepito Platone, “Giuda di Socrate”, per dirla con la formula contenuta in una celebre recensione di Gilbert Ryle alla lettura popperiana del filosofo ateniese, quindi vero e proprio sacerdote della Verità in alcun modo prosecutore della “scepsi” del maestro, è da contrapporre, nei termini speculativamente costitutivi di Pennisi, l’«Aristotele darwinista». Ovvero l’Aristotele a qualche titolo precursore, non tanto delle teorie evoluzionistiche, ma di una visione di specie sostanzialmente orizzontalistica e, proprio in ragione di ciò, tale di rivelare una forma sorprendente di attualità che consiste «non solamente nell’appellarsi alla ricerca delle origini – strada percorsa quasi obbligatoriamente dagli approcci naturalistici di tutti i tempi per sfuggire all’antropocentrismo – ma nel collocare al centro dell’universo politico la riproduzione e la gestione del potere nella loro dimensione involontaria e istintiva per la conservazione della specie» (p. 19). In altri termini, se «nella filosofia politica aristotelica […] si trova già ben delineato il profilo biologico che ispira ogni scelta sociale degli animali umani e che diverrà poi un ramo di quella scienza che oggi chiamiamo “etologia cognitiva”» (p. 18), tant’è che “ho ànthropos phỳsei politikòn zòon”, in questa recisa contrapposizione a Platone, lo Stagirita avrebbe tracciato «il primo manifesto del naturalismo biopolitico» in cui, chiaramente, «campeggia la ricerca etologica degli universali che accomunano l’animale uomo agli altri animali e quella delle ragioni che, al contrario, lo diversificano da qualsiasi altra specie» (p. 19).Come che sia, è fuor di discussione che Pennisi, più o meno dichiaratamente, lasci intendere che la già richiamata critica popperiana della filosofia di Platone sia del tutto fondata, nella misura in cui è stata in grado di far risaltare la totale chiusura del suo universo teorico-politico, al centro del quale vi è la figura, invadente e inquietante, di un «ingegnere sociale» che pianifica ogni cosa senza prendere in considerazione, finanche violandole e sconvolgendole, le effettive dinamiche della natura.Ragion per cui, nella ricchezza delle analisi condotte dall’autore, è d’uopo quantomeno soffermarsi, per evidenziarne i limiti e le compromissioni strutturali profonde, sul “chi” di questo ingegnere sociale.L’ingegnere sociale, questo calco ideale quindi, che da Platone in poi, si è impresso con sempre maggior vigore nelle carni della nostra Tradizione, è colui il quale non si pone alcun interrogativo sulle tendenze storiche o sul destino dell’uomo. Crede, difatti, «che l’uomo sia l’artefice del proprio destino»: in rispondenza e congruenza con i nostri scopi, perciò, noi possiamo condizionare e/o «cambiare la storia dell’uomo precisamente come abbiamo cambiato la faccia della terra». L’ingegnere sociale, dunque, non crede che questi fini ci siano imposti dal nostro background storico o dalle tendenze della storia, dalla nostra provenienza ferina e naturale ma che, al contrario, essi «siano scelti o finanche creati da noi stessi, precisamente come creiamo nuovi pensieri o nuove opere d’arte o nuove case o un nuovo macchinario». E dunque, in opposizione «con lo storicista che crede che un’intelligente azione politica sia possibile solo se prima si sia compresa la direzione del futuro corso della storia, l’ingegnere sociale crede che una base scientifica della politica sia una cosa assolutamente diversa: essa deve consistere nell’informazione fattibile necessaria per la costruzione o il cambiamento delle istituzioni sociali in conformità con le nostre aspirazioni e finalità. Una scienza siffatta dovrebbe dirci quali misure dobbiamo prendere se intendiamo, per esempio, evitare le depressioni economiche, o anche provocare tali depressioni; oppure se intendiamo rendere più equilibrata, oppure meno equilibrata, la distribuzione della ricchezza. In altre parole, l’ingegnere sociale considera come base scientifica della politica una specie di tecnologia sociale […] in opposizione allo storicista che la considera come una scienza delle tendenze storiche» (K. Popper, La società aperta e i suoi nemici [1966], pp. 44-45, cit. in Pennisi, p. 15).In relazione a questa concezione popperiana di Platone come plasmatore del mito dell’ingegnere sociale e da Pennisi, appunto, vigorosamente rilanciata, va quantomeno sottolineato, nonostante le “scuse anticipate” nei confronti degli «storici e i filologi della filosofia» (p. 8), che essa affonda in una sostanziale destoricizzazione dell’opera del filosofo greco che evita, dunque, da un lato, di analizzare adeguatamente il contesto nel quale va collocata la proposta politica inaugurata tanto da La Repubblica quanto dalle Leggi; dall’altro, tale da evidenziare una trattazione alquanto leggera di tutta una serie di problematiche di grande rilevanza concernenti l’opera di Platone che, per la complessità delle sue intrinseche caratteristiche, certamente sfugge all’accusa di dogmatismo idealistico e addirittura totalitario ante litteram. A tale riguardo va rilevato che il cosiddetto “ultimo Platone” – ma in realtà è un discorso sostanzialmente riferibile al corpus platonico nella sua interezza – ha dato prova di una grande capacità autocritica e auto-revisionale nonché di una visione aperta e dinamica della verità, che non viene vista come un qualcosa di afferrabile una volta per tutte. Risulta, e proprio per questa ragione capitale, meno netto l’argomento dell’attribuzione a Platone della primogenitura dell’errore in precedenza analizzato tanto più se il tutto, poi, si estrinseca a partire da un superato schema critico facente perno in una contrapposizione teoretica tra Platone e Aristotele.Ciò detto, non è possibile sorvolare e, indi, non riconoscere meriti notevoli al testo di Pennisi che è in grado di proporre, e coraggiosamente da un punto di vista meramente speculativo, una bio-politica nuova e naturalistica, abile a riconoscere alle scienze cognitive e alla biologia evoluzionistica darwiniana e post-darwiniana il giusto peso. Nel percorrere nuovi sentieri di analisi politica in senso ampio, Pennisi sapientemente mette in rilievo aspetti che, troppo spesso, sono stati frettolosamente accantonati quando non addirittura ignorati. Primo tra tutti, il ruolo fondamentale ricoperto dagli studi demografici, dall’esame dei flussi migratori alla dimensione bio-geografica in generale, nella valutazione del contesto socio-politico anche attuale. Da questo punto di vista, è da sottolineare che il modo in cui Pennisi avanza la sua proposta di analisi della crisi economica e politica in cui ci troviamo a livello globale, è significativo per più di un motivo: anzitutto, perché – e finalmente si dovrebbe aggiungere – polverizza ogni possibilità di forme di trattazione della realtà sociale in quanto tale come un «corpo morto» e, perciò, inabili a offrire concrete eventualità di progettare scenari futuri sulla base dei dati ecologici in nostro possesso.Ma, senza ombra di dubbio, la parte più stimolante del lavoro di Pennisi è quella riguardante l’approfondito studio delle «relazioni sociali speciali» tra gli uomini e tra gli animali non umani, nonché la relativa accurata disamina dell’«origine del linguaggio» che, di là dal suo «esito adattivo […] probabilmente infausto» (p. 21) tanto che si configura quale vero e proprio «acceleratore dei processi di estinzione della specie» (p. 22), ha costituito (e costituisce) la base per una (allo stato) fitness complessiva ineguagliata.Da questa parte dell’articolato ragionamento emerge con assoluta chiarezza e solidità argomentativa non solo la volontà di trattare affinità e differenze tra universo umano e universo animale in modo non più antropocentrico, ma anche la perizia con cui è maneggiata la vasta messe di studi scientifici concernenti l’organizzazione sociale degli animali non umani e sul ruolo, positivo e negativo al tempo stesso, che il linguaggio, esito di un lungo processo di exaptation, ha avuto nella storia della specie Homo.In special guisa, per questi ultimi elementi accennati e che planano, come pure si diceva in apertura, in una “nuova idea di biopolitica”, una biopolitica appunto naturalistica, in cui non solo s’appanna ma tramonta del tutto quella originaria foucaultiana, e che nel testo occupano di sé in particolar modo il capitolo su Biopolitica e linguaggio (pp. 157-211), l’originale lavoro di Pennisi merita molto più che una semplice segnalazione o educato invito alla lettura ma, nel cono d’ombra di un propositivo rilancio di una innovata e innovante antropologia politica, il riconoscimento del ruolo di riuscito condensatore di nuovi motivi tematici nonché di propiziatore per inedite direttrici di ricerca a venire. Tanto più se le conclusive Sette ricette naturalistiche per uscire dalla crisi (pp. 247-257), più che come “epilogo semiserio”, davvero condensano i motivi tangibili di «una biopolitica a scanso di equivoci» che è degna, di fatto, di «essere riconosciuta come un referente privilegiato» per una produttiva «libertà sociale» che è nient’altro che il portato di quella «libera capacità di intrecciare relazioni di varia natura e specie» con il multiverso dell’alterità da parte di Homo (p. 248).

Gianluca Giannini

04_2014

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