S&F_scienzaefilosofia.it

Alberto Giovanni Biuso – Animalia [Villaggio Maori Edizioni, Catania 2020]

L’articolazione del rapporto umano-animale, all’interno della tradizione filosofica occidentale, ha coordinate ben precise: il semplice atto di enucleare l’identità dell’umano, “umanizzare” l’umano, se si vuole, esclude da tale sfera tutto ciò che umano non è, creando un solco irricomponibile tra umano e non umano e costruendo anche ad arte la categoria di animale, come opposta, separata e (generalmente) negativamente connotata. L’umano, in altre parole, può costruire la sua identità solo distinguendosi nettamente dall’animalità, e conseguentemente rifiutandola; può cioè dirsi umano in quanto diverso dagli animali. L’animale diventa così orizzonte del “negativo”, specchio oscuro che riflette l’identità umana stessa nella sua versione più distorta, mostruosa o bestiale: l’animale è ciò che l’umano non dovrebbe mai essere o diventare, è la proiezione di paure, bisogni o desideri non ammessi nella sfera umana. L’animalità, così definita, diventa una categoria diametralmente opposta a quella di umano: l’umano e l’animale sono i due poli del vivente, l’uno libero, dotato di linguaggio e statuto morale, l’altro incatenato alle ferree leggi meccaniche della necessità, muto e deterministicamente imbrigliato in un’esistenza guidata unicamente da istinti e pulsioni. La coppia concettuale humanitas/animalitas, coppia costruita come una vera e propria antinomia, rappresenta uno degli elementi fondanti della narrazione umanistica occidentale: tra i due poli esiste anche una specifica tensione separativa di tipo valoriale, che rende l’umano superiore proprio perché si è affrancato dallo stato di natura (proprio degli animali, che ne sono ancora immersi perché impossibilitati a disancorarsene) grazie allo scarto culturale. L’umano corre sempre il rischio di ripiombare nell’animalità, di tornare a comportarsi cioè come una bestia: l’apparato morale, e, più generalmente, la cornice culturale di cui esso si dota, servirebbero proprio a scongiurare tale possibilità, sempre concreta. Lo scarto ontologico con gli animali è dunque davvero insanabile: differenti per essenza, e qualitativamente inferiori, gli animali possono essere semplicemente utilizzabili dall’umano per i suoi scopi, assoggettati, sfruttati e macellati senza pietà, dunque, dal momento che non esiste spazio per principi etici che possano riguardarli.

Lo “scandalo” del darwinismo è tale proprio perché mette brutalmente a nudo che tale diversità sia una costruzione senza alcun fondamento scientifico: non solo la separazione tra umani e animali è artificiosa e arbitraria, quasi immaginaria, ma, addirittura, con Darwin l’umano stesso è un animale tra gli animali, uno specifico sottogruppo di primati tra gli altri, messo in forma dalle medesime leggi evolutive di selezione naturale e lotta per l’esistenza che hanno generato tutte le altre forme di vita, dai batteri agli insetti, dai rettili agli uccelli, dai pesci ai mammiferi. L’animale umano, dunque, non si differenzia dagli altri animali non umani per alcuna essenza particolare, e la sua unicità è costruita, semplicemente, a partire da una tendenza narcisistica; un’illusione prospettica che permetterebbe di auto-posizionarsi su un piano di superiorità assoluta sulla totalità degli esseri viventi che abitano il pianeta. Questo dispositivo prende il nome di antropocentrismo: la convinzione che all’umano e solo all’umano spetti una posizione di rilievo all’interno del vivente tutto. L’errore, secondo le recenti analisi filosofiche, starebbe innanzitutto nel non riconoscere tale dispositivo in atto come ciò che effettivamente è, e cioè una costruzione arbitraria, e tutto sommato eccessivamente consolatoria, in grado di curvare ogni asserzione, anche scientifica; in secondo luogo, tale paradigma impedisce, di fatto, qualunque accesso a interpretazioni coniugative con l’alterità animale, nascondendo anche, colpevolmente, la relazione ininterrotta che l’animale umano intrattiene e ha sempre intrattenuto con gli altri animali. Tale costruzione, autoreferenziale e autocelebratoria, rappresenta la ragione della propria singolare superiorità, e ha comportato l’auto-definizione dell’umano come il padrone indiscusso dell’esistente, della natura, del vivente tutto, il frutto più maturo e la vetta più alta dell’evoluzione. I risultati o, se si vuole, i risvolti pratici di tale visione sono ormai sotto gli occhi di tutti: per citarne solo alcuni, la perdita di biodiversità dovuta allo sfruttamento e all’inquinamento di acque e terreno, le oscillazioni climatiche provocate dall’abuso dei combustibili fossili, i danni permanenti provocati a flora e fauna da parte dell’industria agroalimentare, la deforestazione sistematica, l’allevamento intensivo di animali non umani per il consumo umano, l’estinzione, su scala globale, di centinaia di specie causata direttamente da attività umane, devono, almeno in parte, la loro messa in essere alla convinzione, in qualche modo “intuitiva” e senza appello, che l’umano, in quanto creatura speciale nell’ambito del vivente, sia in diritto di disporre come crede di ogni risorsa naturale, e di ogni forma di vita non umana, per prolungare, facilitare o semplicemente rallegrare la propria esistenza. «Animale è dunque una parola pensata per il dominio, è un concetto/suono includente ed escludente. Includente tutto ciò che vivendo soffre ma non è umano e che, se ne deduce, può pertanto diventare strumento, sacrificio, cibo, vittima del signore umano. Escludente dal proprio perimetro semantico una sola specie, la nostra. Animale è un significante al quale non corrisponde un’accezione biologica ma un significato politico» (p. 125).

Recuperando una visione dell’essere umano nella sua dimensione biologica, al contrario, considerando cioè l’animale umano per quello che è, e cioè un animale tra gli animali, è possibile aprirsi alla costruzione di nuovi orizzonti interpretativi dell’umano sull’umano stesso, di coniare cioè un’antropologia che sia anche un’etologia. È esattamente attorno a questo snodo, tra scienze biologiche e filosofia, che si muove il saggio di Alberto Giovanni Biuso – Animalia. Un saggio agevole e di facile consultazione, ricco di spunti e di suggestioni multidisciplinari interne al “problema” dell’animalità in tutte le sue declinazioni particolari. Il progressivo distacco dell’umano dalla sua matrice biologica, tradizionalmente vituperata come scomodo retaggio nella scala naturae che culmina con la trasfigurazione degli umani in “angeli” o “dei”, viene operato attraverso la sfera culturale: la morale, la tecnica, l’arte o la filosofia, promuovono, in accordo, la negazione delle origini di Homo sapiens come primate, come nient’altro che un animale, favorendo di contro una visione in cui l’umano percepisce se stesso come qualcosa di, ormai, completamente separato dalle sue alterità, dal mondo esterno e dalla natura. Questo scenario produrrebbe perciò una divaricazione definitiva tra natura e cultura, polarizzando anche questi due concetti in una relazione antinomica; d’altro canto, l’apposizione di dualismi, e l’articolazione di coppie oppositive è, grossomodo, una delle modalità proprie del procedere delle analisi tipiche della narrazione occidentale. Si tratta però, come Biuso ben argomenta in queste pagine, di una falsa dicotomia, e, nuovamente, di un’illusione: la separazione e la differenza tra “innato” e “appreso”, tra geni e ambiente è anch’essa arbitraria. L’umano è invece immerso in una complessa matrice naturalculturale, è cioè dipendente da entrambe le dimensioni, che sono un tutt’uno e che forniscono la base della sua esperienza sempre in divenire, e sempre in relazione con l’altro da sé. L’umano è cioè sempre e innanzitutto un animale, per quanto possa sforzarsi di negarlo, attraverso la sicumera delle sue elaborate costruzioni linguistico-concettuali; la sua specifica filogenesi, il suo “allevamento” come essere materiale messo in forma dall’evoluzione e sempre imbrigliato nel qui e ora della temporalità e delle relazioni, specie-specifiche ed eterospecifiche, conterrebbe già al suo interno l’urgenza della fondazione di una nuova eto‑antropologia. L’abbandono definitivo di una visione eccezionalista dell’umano all’interno del vivente rappresenterebbe una novità, sia per le scienze biologiche sia per le humanities, entrambe viziate alla base dal paradigma antropocentrico: strappare all’umano il piedistallo ontologico costruito da se stesso, e a beneficio solo di se stesso, significa posizionare Homo sapiens, finalmente, su un piano di orizzontalità con gli altri animali. Solo in tal modo è possibile prendere atto che, come Biuso rileva, «il pianeta può vivere senza l’umano, l’umano non può vivere senza il pianeta», e che «forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnofilie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie» (pp. 161-162).

Stefano Palumbo

07_2021

Print Friendly, PDF & Email