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La naturalezza della cultura

Autore


Renato Musto

Università degli Studi di Napoli Federico II

ha appena lasciato l’Università di Napoli Federico II dove, come Ordinario di Fisica Teorica ha lavorato in Teoria dei Campi e di Stringa. Ha pubblicato diversi articoli sulla storia delle idee e sui rapporti tra scienza e cultura

Indice


  1. Natura e Cultura
  2. La cultura nel mondo animale
  3. Oltre i geni
  4. La cultura come nicchia ecologica

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S&F_n. 04_2010


Questo articolo deve molto alle idee anticipatrici di Eliana Minicozzi. Umberto di Porzio mi ha guidato sugli aspetti biologici, ma non sempre sono riuscito a seguirlo. Vincenzo De Luise mi ha dato un affettuoso ed efficiente aiuto nel reperimento del materiale bibliografico


Are birds free from the chains of skyway?

                        Bob Dylan- Ballad in Plain D

 

  1. Natura e Cultura

La storia naturale della specie umana è costituita da uno stretto intreccio tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. In passato, queste due componenti del processo evolutivo sono state studiate, per lo più, indipendentemente l’una dall’altra, realizzando, attraverso diverse discipline, una conoscenza ricca e articolata. Ma i risultati ottenuti, con tecniche e metodi diversi, all’interno degli studi umanistici o delle scienze naturali, due tradizioni culturali ancora anacronisticamente separate, sono perfino apparsi d’ostacolo ai tentativi di ottenere una ricostruzione unitaria degli eventi umani. La pericolosa idea di Darwin[1] dell’evoluzione per selezione naturale è risultata, dapprima, estranea al mondo della cultura che pareva trovare, nell’evoluzione lamarckiana, con la possibile eredità dei caratteri acquisiti, forme di trasmissione alle generazioni successive più simili alle proprie.

Quest’articolo non vuole ripercorrere l’intenso e interessante dibattito sull’evoluzione genetica e culturale o discutere i diversi modelli che sono stati proposti per un loro confronto[2]. Piuttosto riprende un punto di vista, sviluppato negli ultimi decenni, che guarda agli aspetti biologici, ecologici e culturali come fattori essenziali in un unico processo evolutivo[3] e cerca di analizzare, nella vita degli individui e nella storia della specie, quei momenti in cui questi diversi aspetti convergono e i modi in cui si mescolano e si integrano. In questa prospettiva naturalistica i fenomeni culturali appaiono emergere, come risultato della selezione naturale, già nel mondo animale, negando il pregiudizio della cultura come un fatto puramente umano. Ad esempio, come vedremo, recenti esperimenti indicano il carattere complesso, neurologico, sociale e culturale del canto degli uccelli. L’analogia più volte proposta con il linguaggio umano mostra il ripetersi di processi indipendenti di evoluzione per adattamento in cui concorrono, in modi simili, elementi biologici e culturali.

L’estesa conoscenza del genoma umano oggi disponibile e gli sviluppi della bioinformatica, che permettono la datazione sia pure approssimata di rilevanti mutazioni, ha portato a più precise indicazioni sul ruolo dei fattori culturali nel processo evolutivo. Il caso più noto è quello della permanenza della capacità di digerire il lattosio, presente solo in popolazioni di origine europea e mediterranea. La spiegazione risultata più probabile è che questo sia dovuto all’adattamento evolutivo seguito all’antica pratica dell’allevamento del bestiame[4]. Ma più generale, e concettualmente importante, è l’evidenza di una crescita, eccezionalmente rapida, di mutazioni adattative in corrispondenza alla forte espansione umana degli ultimi 50.000 anni, legata anche a fattori culturali. Questo smentisce l’idea, spesso proposta, di una separazione degli eventi umani in una sorta di preistoria naturale, regno della necessità, dominata dalla lenta evoluzione darwiniana e in una storia, propriamente umana, in cui la cultura permette un’indipendente e rapida evoluzione lamarckiana.

Migliori conoscenze biologiche confermano l’importanza dei fattori culturali nella co-evoluzione della specie umana e della sua nicchia ecologica. Non si tratta solo della cultura materiale che, creando forme di protezione e difesa, modifica l’ambiente e la sua pressione selettiva. La cultura in generale, come vedremo guardando al rapporto tra la madre e l’infante, dove già emerge nei suoi tratti essenziali, è un elemento costitutivo di questa nicchia, indispensabile per lo sviluppo del cervello umano.

 

  1. La cultura nel mondo animale

L’idea di un’origine naturale della cultura richiede che forme culturali siano presenti all’interno del mondo animale[5]. Questa possibilità dipende strettamente da che cosa si intende con il termine cultura. Limitandolo a forme sofisticate di elaborazione e trasmissione simbolica, come la scrittura, si escluderebbe non solo il mondo animale ma anche, come gli studi culturali riconoscono, gran parte della cultura umana, creando un’arbitraria cesura nella nostra storia[6]. Senza entrare in una definizione formale, considereremo cultura un insieme di comportamenti e tradizioni di una specie, che presentano variazioni locali e sono socialmente trasmessi e appresi per imitazione o emulazione.

Decenni di lavoro sul campo hanno documentato, nel caso dei primati, la comunicazione con la prole, molteplici tradizioni e comportamenti sociali e l’uso di numerosi strumenti, bastoni, punte, pietre, etc., per fini diversi, come cogliere frutta o catturare insetti[7]. Studi sulle differenti tecniche, usate da gruppi di scimpanzé per aprire vari tipi di noci, mostrano che le variazioni geografiche non possono essere spiegate solo da ragioni ambientali e richiedono forme d’imitazione e di trasmissione culturale e soprattutto un periodo determinato di apprendimento[8]. La conoscenza della cultura materiale presente nel mondo animale si va ampliando, oltre il caso dei primati e degli stessi mammiferi, lasciandoci il dolore di capire quanto i compagni di vita su questo pianeta abbiano in comune con la nostra specie che li sta distruggendo. Qui, per mostrare quanto si possa imparare dal mondo animale sul rapporto natura-cultura, ci riferiremo a un fenomeno accuratamente studiato, il canto degli uccelli.

Da tempo è stata notata una corrispondenza tra il canto degli uccelli e il linguaggio umano, tanto da far chiamare dialetti le variazioni geografiche del canto di una specie. Si tratta solo di un’analogia, giacché gli uccelli si sono separati dalla linea evolutiva alla quale apparteniamo circa 300 milioni di anni fa, escludendo la possibilità che i caratteri simili vengano da un antenato comune. Proprio questo rende la corrispondenza interessante in quanto ci parla di ripetuti processi di evoluzione per adattamento in cui concorrono, in modi simili, elementi biologici e culturali.

Gli uccelli imparano le loro canzoni attraverso l’imitazione del canto di un tutore, un adulto della propria specie. La mancanza di modelli da imitare non impedisce a un uccello di cantare, ma la sua canzone è meno ricca e nettamente distinguibile da quella sviluppata normalmente. Dopo un periodo di produzione di suoni sconnessi, simile alla fase della lallazione nei bambini, vi è il periodo in cui gli uccelli si esercitano e provano a produrre una canzone che si mantiene plastica e variabile, fino a che corrisponde al modello e si cristallizza in una forma stereotipata. Paragonato ai processi culturali umani questo apprendimento potrebbe essere visto come il trasferimento, dal tutore agli uccellini che imparano, di un contenuto simbolico, la sequenza di note o lo spettro sonoro della canzone. Ma nel processo reale, molto più complesso e ancora non del tutto chiaro, gli elementi biologici, sociali e culturali si trovano inscindibilmente legati. Esperimenti condotti su giovani maschi di cinciallegre hanno mostrato che, all’inizio del periodo di apprendimento, in un sito cerebrale dove convergono l’informazione uditiva e una rappresentazione dell’attività canora, si manifesta un elevato livello di ricambio dei bottoni sinaptici seguito da un loro rapido accumulo, ingrossamento e stabilizzazione dopo l’ascolto della canzone del tutore.

Questi risultati suggeriscono che l’apprendimento di un comportamento avviene quando l’esperienza vissuta nel processo di addestramento è capace di stabilizzare e rafforzare le sinapsi dei neuroni che controllano quel comportamento[9].

In breve, quando l’esperienza struttura i circuiti neuronali del cervello.

Per apprendere il canto l’uccello deve essere capace di memorizzare il modello e di confrontare continuamente con esso la propria produzione sonora. Infatti, sempre nel caso delle cinciallegre, è stata mostrata la presenza nel cervello degli uccelli di strutture neuronali che rispondono allo stesso modo all’ascolto del modello e alla propria produzione della canzone, simili ai neuroni specchio che nei primati rispondono allo stesso modo al compimento di un’azione alla sua visione[10]. Il compito del cervello di un giovane maschio di cinciallegra è ancora più gravoso. Non solo deve distinguere il canto del tutore dal paesaggio sonoro in cui è immerso, ma anche ascoltare i fratellini nel nido. Infatti è stato mostrato[11] che uccellini di una stessa nidiata seguono, nei loro tentativi di eseguire lo stesso modello, traiettorie sonore tutte diverse tra di loro, che si collocano tra due possibilità estreme. La prima consiste nell’apprendimento di una canzone sillaba per sillaba, la seconda si basa sull’imitazione della melodia nel suo insieme. L’apprendimento canoro non risponde a un programma univocamente definito ma si determina in uno spazio di diverse strategie strutturato da fattori biologici, culturali e sociali.

Il carattere complesso dei fenomeni naturali che emerge da questa breve presentazione dell’apprendimento nel mondo degli uccelli può essere ritrovato in numerosi aspetti dell’esecuzione del loro canto. Gli esempi di comportamenti animali in cui si ritrovano all’opera fattori ambientali, culturali e sociali potrebbero moltiplicarsi, ma il loro significato si coglie pienamente solo in relazione alle novità che hanno reso più ricco e articolato il meccanismo darwiniano dell’evoluzione per selezione naturale.

 

  1. Oltre i geni

La rivoluzione molecolare che ha trasformato la biologia a partire dalla metà dello scorso secolo con la scoperta del DNA aveva creato la speranza di giungere a una visione semplice e trasparente del processo di evoluzione naturale in termini di evoluzione genetica. La molteplicità dei caratteri per cui gli organismi differiscono, anatomia, fisiologia, sviluppo cerebrale, comportamenti, etc., rende difficile e fortemente soggettivo l’identificazione di una distanza evolutiva tra due specie. La genetica sembrava poter offrire un criterio oggettivo, semplice e quantitativo, per misurare questa distanza, confrontando le proteine e gli acidi nucleici delle due specie.

Nel 1975 Mary-Claire King e A. C. Wilson, in un fondamentale articolo[12], effettuando il confronto tra l’uomo e il suo più prossimo cugino, lo scimpanzé, hanno mostrato che questa ipotesi porta a un paradosso. Le sequenze di proteine studiate risultavano praticamente le stesse tra le due specie, indicando una minima distanza evolutiva al livello genetico, ben diversamente dalla enorme distanza evolutiva al livello degli organismi, testimoniata dalle differenze fisiche, mentali e comportamentali.

La soluzione al problema suggerita dagli autori, anticipando la direzione in cui la ricerca si è mossa, indicava nelle trasformazioni dei meccanismi di espressione genica i fattori che permetteranno di spiegare l’evoluzione delle caratteristiche degli organismi. È stata la fine di una visione meccanicistica dei geni come semplici stampi e dell’illusoria riduzione dell’evoluzione naturale all’analisi dei loro cambiamenti quantitativi. Lo studio dell’intricata molteplicità delle specie in evoluzione viene legata alla complessità dei meccanismi di espressione e regolazione genica, ancora non del tutto compresi, e alla loro interazione con i più diversi fattori ambientali.

L’informazione senza precedenti posseduta oggi sul genoma umano, le attuali tecniche genetiche e gli sviluppi della bioinformatica, che permettono di considerare l’espressione di migliaia di geni allo stesso tempo, hanno compiuto importanti passi in questa direzione, anche se il passaggio dal livello molecolare a quello del fenotipo rimane spesso arduo. Un importante progresso è la capacità di costruire datazioni, anche se affette da largo errore, per i periodi di comparsa di mutazioni rilevanti. Sono state studiate trasformazioni di lungo periodo, come nel caso della storia evolutiva del gusto dell’amaro, un importante segnale di allerta contro l’uso dei cibi tossici e velenosi cui è associato. Si osserva che, al livello genico, questo meccanismo di protezione risulta meno efficiente nell’uomo rispetto ad altri mammiferi. Mentre i topi presentano un gruppo di 33 geni che vengono espressi in ogni ricettore del gusto amaro (più 3 pseudogeni che hanno perso la capacità di esprimersi) all’uomo rimangono 25 geni e 8 pseudogeni. La datazione permette di collegare questa trasformazione a fattori culturali[13]. L’allentarsi della pressione selettiva esercitata da tossici e veleni è stata connessa a cambiamenti della dieta alimentare avvenuti in due lontani periodi. Nel primo, circa due milioni di anni fa i nostri antenati sarebbero diventati meno erbivori grazie a miglioramenti delle tecniche di caccia; nel secondo (circa 800.000 anni fa) l’uso del fuoco li avrebbe protetti da fenomeni di putrefazione. È significativo che l’allentarsi del controllo genetico si sia verificato anche per gli altri sensi, in particolare per l’olfatto, i cui geni hanno perduto la capacità di esprimersi in una percentuale maggiore che per gli altri mammiferi. Di contro, in un confronto tra le capacità di esprimersi di geni omologhi dell’uomo e dello scimpanzé, le differenze più notevoli risultano nel caso del cervello rispetto agli altri organi. I geni umani risultano di regola avere una maggiore capacità di espressione e molti di questi possono essere collegati a una più elevata attività neuronale[14]. Già da questi pochi accenni emerge che l’evoluzione culturale della specie umana si accompagna a quella biologica andando nella direzione di una diminuzione dei vincoli genetici e una crescente dipendenza dai comportamenti trasmessi e appresi socialmente.

Importanti sono le implicazioni concettuali delle analisi che mostrano come la forte crescita della popolazione umana degli ultimi 50.000 anni, legata ad avvenimenti ecologici e culturali, sia stata accompagnata da una corrispondente crescita, eccezionalmente rapida, di mutazioni genetiche adattative[15]. Questi risultati tendono a negare una discontinuità tra evoluzione genetica e culturale e a favorire l’idea di un processo evolutivo unico, visto come un intreccio di elementi biologici, ecologici e culturali[16]. Ritorna come naturale oggetto di studio il complesso fenomeno della diffusione della rivoluzione agricola in Europa, negli ultimi 10.000 anni, fino a raggiungere un’uniforme presenza dalla Grecia alle isole britanniche. Per seguire le tracce dei pioneristici e fondamentali lavori sull’argomento[17], e rianalizzarne le conclusioni, è necessario confrontare i nuovi risultati della genetica e della bioinformatica con le informazioni linguistiche sulle popolazioni insieme ai dati provenienti dalle tracce lasciate dagli agricoltori del Neolitico, cocci, attrezzi, materiali vegetali, etc. Quando a questo quadro si aggiungono le ricerche sulle possibili connessioni tra le pratiche dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame e le malattie epidemiche, si capiscono le difficoltà a ottenere un quadro condiviso e unificato[18]. Ma solo dal necessario incontro tra saperi e formazioni culturali diverse potrà venire una storia degli esseri umani, lungo la loro progressiva espansione in regioni differenti in clima e risorse, che ha richiesto nuove risposte genetiche, comportamentali e culturali, estendendo il ruolo del loro bagaglio tecnologico e della loro attrezzatura mentale.

 

  1. Cultura come nicchia ecologica

Non è solo la specie umana a trasformare l’ambiente circostante e a modificare la pressione selettiva. La rete del ragno, le dighe dei castori, i termitai sono solo alcuni degli innumerevoli segni delle attività ingegneresche con cui le altre specie intervengono sull’ambiente modificando i processi di selezione naturale[19]. La costruzione di nicchie, come nidi, buche, tane[20], rende l’ambiente locale più adatto all’organismo che le realizza e alle generazioni dei suoi discendenti, che così

ereditano dai loro antenati non solo i geni ma anche le forme di pressione selettiva naturale che sono state modificate dall’ancestrale attività di costruzione di nicchie[21].

Da queste osservazioni deriva una visione dell’evoluzione per selezione naturale molto diversa da quella tradizionale. Gli organismi non solo si evolvono sotto la pressione selettiva dell’ambiente, ma attraverso le loro molteplici attività alterano e orientano l’azione che l’ambiente esercita su di loro. Il farsi di una specie non può allora essere visto, se non in modo approssimato, come un’evoluzione sotto pressioni ambientali fisse, piuttosto emerge da una storia congiunta in cui la selezione naturale si esplica in un ambiente che gli organismi tendono, almeno localmente, a plasmare ed adattare a sé. Questo punto di vista dinamico, o se si vuole ecologico, per cui un organismo non è pensabile se non immerso nel suo ambiente e l’ambiente non è pensabile senza gli organismi che lo popolano è essenziale per capire l’evoluzione umana. Infatti, lungo la storia evolutiva e in particolare con il crescente ruolo della trasmissione culturale, il legame tra individui e ambiente non solo permane ma cresce in complessità.

La specie umana non è pensabile senza una nicchia di protezione, non puramente fisica. La sua storia evolutiva, lunga milioni di anni, con l’affermarsi del bipeditismo, la modifica delle pelvi femminili, lo sviluppo del cervello e del volume cranico, ha portato alla nascita di figli non completamente maturi, che richiedono un lungo periodo di dipendenza e di cura. Alla nascita il cervello umano non è completo e il suo sviluppo generale richiede tutta l’infanzia[22]. La mielinizzazione degli assoni, essenziale per una buona trasmissione del segnale lungo le fibre nervose, avviene nella prima infanzia e continua fino alla seconda decade di vita. Il processo di proliferazione e di organizzazione delle sinapsi cresce rapidamente dopo la nascita. È il periodo di massima plasticità della corteccia cerebrale che appare legata un continuo, spontaneo proliferare dei bottoni sinaptici che possono scomparire o crescere in dimensioni e stabilizzarsi in risposta agli stimoli sensoriali. Esperimenti condotti sugli uccelli[23] e studi che mostrano la possibilità di rafforzare singoli specifici bottoni sinaptici[24] collegano il loro stabilizzarsi all’apprendimento che segue ripetute esperienze percettive. Quindi la nicchia di protezione che accoglie l’infante è anche l’ambiente che forma, entro i vincoli posti dalla genetica, i circuiti neuronali alla base di attività complesse.

Per l’infante l’elemento essenziale di questo ambiente è la madre (o chi la sostituisce) e nell’iniziale interazione tra il figlio e la madre va cercato uno snodo essenziale del rapporto tra sviluppo biologico e cultura. È uno straordinario medium di comunicazione, una relazione emotiva che fluisce con continuità dai momenti del nutrimento e del piacere a esso associato a progressive forme di apprendimento. La madre, aderendo alle spontanee capacità reattive dell’infante avvia un fitto colloquio, fatto di espressioni del volto, di gesti, di parole che offre come modelli da imitare e che adegua ad ogni nuovo segno di risposta. Il linguaggio con cui si rivolge al figlio, fortemente semplificato, ricco di musicalità, con tipici profili melodici ed evidenti accentuazioni prosodiche è universalmente riconoscibile, qualunque sia la lingua usata, tanto da meritare in inglese un suo nome, motherese (mammese). Il carattere musicale di questa comunicazione non si limita agli aspetti vocali. I bambini sembrano capaci di sincronizzare i loro movimenti con i ritmi materni, imparano meglio da gesti e parole fusi in un gioco ritmico e musicale e si servono delle capacità comunicative della musica prima di quelle linguistiche. In questa prima fase di sviluppo, caratterizzata da intense esperienze libidiche e da un’elevata plasticità cerebrale, i modelli culturali si iscrivono nel corpo e nel cervello dei piccoli della specie. Questi ne emergono naturalmente dotati di una propria gestualità e capaci di seguire forme specifiche di quelle tecniche del corpo di cui Marcel Mauss[25] indicava il carattere sociale, riconoscendo che non esiste un modo naturale di camminare o di sedersi. È un’affermazione giusta nel senso che il modo in cui si compiono questi atti quotidiani non è biologicamente determinato. Ma la separazione tra biologico e culturale appare oggi artificiosa, perché entrambi gli elementi entrano nell’evoluzione naturale della specie e nel processo formativo da cui emerge l’individuo. Da questo complesso intreccio di fattori genetici, ambientali e culturali vengono le espressioni familiari, i modi di camminare, o, per fare un altro esempio, le inclinazioni alimentari che sono legate alla dieta materna durante la gestazione e l’allattamento o all’eventuale tipo di latte sostitutivo usato[26].

Non solo la cultura del corpo o quella del cibo appaiono radicate in questo periodo di sviluppo dei circuiti cerebrali ma anche forme di cultura che vengono considerate più alte. Il bambino, già reattivo ai suoni nella fase fetale, attraverso l’ascolto del mammese e le espressioni materne a esso associate seleziona i meccanismi motori e le vocalizzazioni tipici della propria lingua. Analogamente per la musica. Universalmente presente nella cura parentale, nei ritmi del mammese e nelle ninne nanne, la musica assorbita dal bambino ha i caratteri ritmici, melodici e armonici propri del panorama musicale in cui cresce. È difficile per noi, abituati all’ascolto della world music e alla retorica della musica come linguaggio senza frontiere, ricordare come sia specifico il linguaggio musicale appreso nell’infanzia[27].

L’evidenza che l’apprendimento viene da un’esperienza capace di stabilizzare e rafforzare le sinapsi dei neuroni che controllano il comportamento appreso permette di capire come musica, linguaggio e altre forme culturali siano elementi centrali della nicchia ecologica della specie umana perché essenziali per lo sviluppo del suo cervello. E, insieme, ci mostra quanto le molteplici espressioni culturali siano radicate nelle esperienze locali di formazione.

Oltre ai singoli linguaggi, vi sono aspetti generali della cultura che vengono trasmessi nei processi di base della formazione umana. Da essi la cultura emerge come un medium in cui comportamenti e contenuti pre-esistenti vivono solo se fatti comuni dagli individui partecipanti, che, in questa interazione, si ridefiniscono. Così, i modelli comportamentali, come un’attenzione comunitaria per la madre e l’infante o il loro isolamento, i ritmi delle sollecitazioni e delle risposte, i livelli d’integrazione tra espressioni vocali e corporali, etc., tutti dettati da una cultura ma aperte a variazioni individuali, costituiscono momenti essenziali attraverso cui quella cultura si trasmette e viene variata nei comportamenti personali. 

Attraverso i successi ottenuti nell’interazione culturale le innate capacità imitative dell’infante si sviluppano ed evolvono ponendo la mimesi come forma centrale del comportamento umano. Per intravederne la potenza passiamo dai primi mesi di vita ai diciotto mesi, quando iniziano i giochi basati sulle modalità Facciamo che… Immaginiamo che…[28]. Nell’infante che nutre una bambola con pezzetti di carta cotti in una scatola o guida un tram fatto con una sedia rovesciata c’è molto più che l’evidente imitazione del mondo adulto. L’esplorazione tattile e cognitiva degli oggetti si sviluppa con un procedimento che li manipola, li valuta e li assoggetta a uno scopo. Attraverso il gioco, gli oggetti di natura e i prodotti tecnologici, se egualmente disponibili, entrano letteralmente, senza differenza, a far parte della persona. E questo avviene attraverso una complessa rappresentazione, spesso socialmente partecipata. L’infante che agisce come se stesse nutrendo la bambola o guidando il tram, rappresenta allo stesso tempo la madre che lo nutre o il tramviere in azione. L’identificazione gli garantisce che quei pezzi di carta e la scatola sono potenzialmente cibo e pentola e la sedia un tram e che, se ha la potenza di immaginarlo, il gioco diventerà vero.

Siamo vicini a punti centrali della cultura umana. L’immaginazione basata sul come se anticipa il ragionamento ipotetico essenziale nella scienza e i meccanismi di plurivalenza simbolica propri della rappresentazione artistica[29].

Buona parte dell’analisi svolta è stata qualitativa e intuitiva. Molto ci sarà da imparare dai progressi della neurobiologia nello studio dell’apprendimento e della mimesi, in particolare sul ruolo degli elementi libidici. E ancora di più è necessario capire sui processi di generalizzazione e astrazione. Ma l’autore è convinto che il futuro arricchirà la visione della cultura come un importante fenomeno naturale.


[1] D. C. Dennett, L’Idea pericolosa di Darwin (1995), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1997.

[2] Si veda ad es. W. Durham, Coevolution: Genes, culture and Human Diversity, Stanford University Press, Stanford 1992.

[3] Si veda la recente rassegna K. N. Laland, J. Odling-Smee, S. Myers, How culture shaped the human gene: bringig genetics and human sciences together, in «Nature Reviews Genetics», 11, 2010, pp. 137-148.

[4] C. Holden, R. Mace, Phylogenetic Analysis of the Evolution of Lactose Digestion in Adults, in «Human Biology», 81, 2009, pp. 597-619.

[5] Un passo importante è già in C. Darwin, L' espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali (1872), tr. it. UTET, Torino 1878, che anticipa le ricerche dell’etologia dello scorso secolo.

[6] Questo punto è sottolineato in D. Lord Smail, On Deep History and the Brain, Berkeley University Press, Berkeley 2008.

[7] Per il caso degli scimpanzé e per riferimenti bibliografici: A. Whiten, The second inheritance system of chimpanzees and humans, in «Nature», 437, 2005, pp. 52-55.

[8] D. Biro et al., Cultural innovation and transmission of tool use in wild chimpanzees, in «Anim. Cogn.», 6, 2003, pp. 213–223.

[9] T. F. Roberts, K. A. Tschida, M. E. Klein, R. Mooney, Rapid spine stabilization and synaptic enhancement at the onset of behavioural learning, in «Nature», 463, 2010, pp. 948-995.

[10] G. B. Keller, R. H. R. Hahnloser, Neural processing of auditory feedback during vocal practice in a songbird, in «Nature», 457, 2008, pp. 187-190.

[11] W. C. Liu, T. J. Gardner, F. Nottebohm, Juvenile zebra finches can use multiple strategies to learn the same song, in «Proc Natl Acad Sc. USA», 101, 2004, pp. 18177-18182.

[12] M. C. King, A. C. Wilson, Evolution at Two Levels in Humans and Chimpanzees, in «Science», 4184, 1975, pp. 107-116.

[13] X. Wang, S. D. Thomas, J. Zhang, Relaxation of selective constraint and loss of function in the evolution of human bitter taste receptor genes, in «Hum. Mol. Genet.», 13, 2004, pp. 2671-2678.

[14] M. Cáceres, Elevated gene expression levels distinguish human from non-human primate brains, in «Proc. Natl. Acad. Sci. USA», 100, 2003, pp. 13030-13035.

[15] J. Hawks, E. T. Wang, G. M. Cochran, H. C. Harpending, R. K. Moyzis, Recent acceleration of human adaptive evolution, in «Proc. Natl. Acad. Sci. USA», 104, 2007, pp. 20753-20758; B. F. Voight, S. Kudaravalli, X. Wen, J. K.Pritchard, A map of recent positive selection in the human genome, in «PLoS Biol», 4, 2006, pp. 4 e p. 72.

[16] Questo è il punto di vista dell’interessante rassegna A. Varki, D. H. Geschwind, E. E. Eichler, Explaining human uniqueness: genome interactions with environment, behaviour and culture, in «Nature Reviews Genetics», 9, 2008, pp. 749-763.

[17] Si veda ad es. A. J. Ammerman, L. L. Cavalli-Sforza, La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa (1984), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1986; L. L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani (1994), tr. it. Adelphi, Milano 2005.

[18] Si veda ad es. G. J. Armelagos, K. N. Harper, Genomics at the Origins of Agriculture, Part Two, in «Evolutionary Anthropology», 14, 2005, pp. 109–121.

[19] D. Kirsh, Adapting the Enviroment instead then Oneself, in «Adaptative Behavior», 4, 1996, pp. 415-452;

  1. N. Laland, J. Odling-Smee, M. W. Feldman, Niche Construction, biological evolution, and cultural change, in «Behavioral and Brain Sciences», 23, 2000, pp. 131-175.

[20] C. G. Jones, C. G. Lawton, M. Shachak, Positive and negative effects of organism as physical ecosystemengineers, in «Ecology», 78, 1997, pp. 1946-1957.

[21] K. N. Laland, J. Odling-Smee, M. W. Feldman, Niche Construction, biological evolution, and cultural change, in «Behavioral and Brain Sciences», 23, 2000, pp. 131-175.

[22] R. K. Lenroot, J. N. Giedd, Brain development in children and adolescents: Insights from anatomical magnetic resonance imaging, in «Neu. Biob. Rev.», 30, 2006, pp. 718–729.

[23] Oltre a nota 9, B. P. Ölveczky, T. Gardner, A bird’s eye view of neural circuit formation, in «Curr. Opin. Neurobiol.», 21, 2010, pp. 1-8.

[24] H. Kasai et al, Learning rules and persistence of dendritic spines, in «Eur. Jour. Neuroscience», 32, 2010, pp. 241-249.

[25] M. Mauss, Les techniques du corps, comunicazione presentata alla Société de Psychologie il 17 marzo 1934. Prima Pubblicazione in «Journal de Psychologie», XXXII, 3-4, 1936,

http://classiques.uqac.ca/classiques/mauss_marcel/socio_et_anthropo/6_Techniques_corps/Techniques_corps.html.

[26] L. Greco, G. Morini, Lo sviluppo del gusto nel bambino, in «Medico e Bambino», 29, 2010, pp. 509-513.

[27] Sul fenomeno musica e la dialettica tra la sua molteplicità e la sua universalità si veda R. Musto, Musica e Scienza tra Natura e Cultura, in C. Guetti, P. Greco (a cura di),La musica in testa, Mimesis Edizioni, Milano (in corso di stampa).

[28] Questi giochi sono stati connessi alla creatività umana: P. Carruthers, Human Creativity: its cognitive basis, its evolution andits connection with childhood pretence, in «British Jour. For the Philosophy of Science», 53, 2002, pp. 225-249.

[29] Si ricordi ad esempio l’analisi di Erich Auerbach negli Studi su Dante (1929), tr. it. Feltrinelli, Milano 1963, sull’interpretazione della lettura cristiana di protagonisti del Vecchio Testamento che sono se stessi come personaggi storici e, allo stesso tempo, letteralmente figure di Cristo.

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