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Emanuele Severino – La tendenza fondamentale del nostro tempo [Adelphi, Milano 1988, pp. 185, € 23]


Sono pochi i pensatori in grado di condizionare la mentalità di un’epoca, di orientarne giudizi e pregiudizi. Emanuele Severino è senz’altro uno di questi. Da più di cinquant’anni i suoi libri sono come dei “segnavia” lungo la strada del pensiero filosofico italiano e basta forse il nome di qualche suo allievo un po’ più esposto (suo malgrado?) al sistema mediatico per testare l’impatto e l’influenza delle sue idee. Massimo Cacciari e Umberto Galimberti, tanto per fare qualche esempio, sono due severiniani di ferro e, ognuno a suo modo, ne perpetuano l’impareggiabile lezione. Galimberti, in particolare, rinnova ogni volta che se ne presenta l’occasione il punto di vista del maestro a proposito di quella che Severino, e prima di lui Martin Heidegger, ama definire l’età del “dominio della tecnica”. Cosa bisogna intendere con questa altisonante espressione? Che viviamo in un’epoca in cui la tecnologia è talmente pervasiva da plasmare non solo il nostro lavoro e le nostre abitudini, ma anche i nostri sogni e i nostri desideri? Se così fosse davvero non si capirebbe l’acutezza dell’analisi filosofica. C’è forse bisogno di una particolare teoresi per rendersi conto che viviamo nella civiltà delle macchine? E infatti vivere nell’età del “dominio della tecnica” significa qualcosa di più profondo. Significa vivere nell’età in cui la volontà di potenza mostra il suo vero volto. Significa vivere nel tempo in cui si disvela la potenza che da sempre, o perlomeno da Platone in poi, anima la cultura occidentale. Significa vivere nell’età in cui tutti gli scopi dell’uomo diventano i mezzi di un unico scopo che tutti li ingloba: l’indefinito potenziamento della tecnica. La tecnica, infatti, non è uno strumento di cui l’uomo dispone, ma, dice Severino, è esattamente il contrario. Che lo si voglia o no, questa è La tendenza fondamentale del nostro tempo. Pubblicato più di venti anni fa, recentemente ristampato da Adelphi nella nuova serie della collana “Saggi”, questo è forse uno dei lavori più rappresentativi di Severino, soprattutto per la riflessione sulla tecnica, sui rapporti tra scienza e filosofia, tra tradizione filosofica e modernità tecno-scientifica, tra etica e ricerca. Come tutti i grandi libri, il volume adelphiano non risente affatto del tempo che passa, anzi rileggerlo è un’operazione salutare per afferrare le linee essenziali di un pensiero profondo e, cosa non secondaria, per cogliere con la giusta consapevolezza il livello spesso tutt’altro che incoraggiante di chi oggi continua a riprodurne qualche tecnofobica eco.  

«Gli strumenti di cui l’uomo dispone – scrive Severino – hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di queste società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti. Già gli antichi sapevano che se lo scopo della ricchezza è di vivere bene, può però anche accadere che come scopo della vita ci si proponga la ricchezza. In questo modo la ricchezza, che inizialmente funziona come mezzo, strumento, diventa scopo, fine» (p. 38). La tecnica, come la ricchezza per l’uomo dissennato, perde dunque per l’uomo del XX e del XXI secolo la sua natura “strumentale” e diventa lo scopo di ogni suo agire. Ogni progetto, ogni politica, ogni speranza, dice il filosofo bresciano, può oggi acquistare un senso solo al cospetto dell’“Apparato tecnico-scientifico”, vale a dire dell’integrazione tra campi tutti i campi del sapere in nome della scienza e della tecnologia. «Capitalismo e socialismo reali (e anche il cristianesimo e la democrazia liberale) intendono certamente assegnare i propri scopi all’Apparato: e da parte sua la scienza dichiara ancora di non poter essere che neutrale rispetto ai propri fini. Ma l’efficacia dell’Apparato non è determinata dal fine assegnatogli. Qualunque possa essere il fine assegnato dall’esterno all’Apparato, quest’ultimo possiede di per sé stesso un fine supremo: quello di riprodursi e di accrescere indefinitamente la propria capacità di realizzare fini» (p. 40). La tendenza del nostro tempo è quella per cui la tecnica non è più chiamata a servire l’ideologia del profitto, dell’amore cristiano, della società degli eguali, e così via, ma è quella per cui l’organizzazione ideologica della tecnica lascia sempre di più il passo alla sua organizzazione scientifico-tecnologica. L’Apparato, suggerisce Severino, diventa la forma suprema dell’agire; di più: diventa la forma entro cui ogni azione umana appare possibile e sensata. Ciò perché l’Apparato assume contorni “gloriosi”: «Dire che l’Apparato scientifico-tecnologico subordina a sé tutte le forme di potenza apparse lungo la storia dell’uomo, significa dunque dire che la potenza della scienza ottiene un riconoscimento sociale che non è più ottenuto dalla magia, dalla religione, dalla politica, ecc. Ma anche per la scienza moderna la potenza sul mondo esiste solo se la totalità dei gruppi umani riconosce l’esistenza di tale potenza. La scienza è inseparabile dalla propria “gloria”» (p. 76).

La dimensione “gloriosa” della scienza è tuttavia solo il portato di una preliminare ermeneutica dell’essere. Alla base della volontà di potenza di cui l’Apparato si farebbe latore c’è un’ulteriore e più essenziale volontà, vale a dire una volontà interpretante, «ossia la volontà che decide che una certa configurazione del mondo sia la potenza, il dominio, il successo della scienza e delle altre forze che si contendono il mondo. La scienza – precisa Severino –  vuole il dominio , non solo nel senso più familiare che il dominio è lo scopo che la scienza vuole realizzare, ma anche in un senso estremamente più radicale e più nascosto: nel senso appunto che è la stessa volontà di potenza a volere che il dato al quale conduce l’agire scientifico sia la realizzazione degli scopi che tale agire si propone» (p. 78). Per dirla in altri termini, la scienza non solo aspirerebbe al dominio dell’ente ma deciderebbe al contempo in cosa effettivamente tale dominio consista. Per questo il tempo che viviamo è «il tempo che ha fede nella potenza della scienza», perché è il tempo animato da un’etica strutturata dalla scienza, un’etica cioè voluta dalla scienza (i più si illudono invece di pensare l’etica della scienza come se il genitivo in questione potesse essere inteso in senso soggettivo), un’etica cioè al cui fondamento non c’è nient’altro che la volontà di dare al mondo il senso voluto dall’Apparato.

La riflessione di Severino tocca a questo punto quello che è forse il nucleo centrale non solo del testo ma della sua intera impresa filosofica, vale a dire la questione dell’essere e del divenire, degli enti e del niente. «La riflessione greca sul senso dell’essere e del niente, cioè l’ontologia, è lo spessore che dà significato al linguaggio e alla pratica della scienza» (p. 84). Come è noto, secondo il filosofo la riflessione greca sarebbe all’origine del Nichilismo, anzi, all’origine «dell’Occidente come storia del Nichilismo» (un intero saggio del volume, tra i più utili, è dedicato all’analisi di questa storia: pp. 167-185) ci sarebbe la fede (greca) nell’esistenza del divenire del mondo: «La volontà di potenza dell’Occidente, che culmina nella volontà di potenza dell’Apparato scientifico-tecnologico, raggiunge la radicalità estrema, perché è il senso greco del divenire a raggiungere la radicalità estrema» (ibid.).

A questo punto sembrerebbe non esserci davvero nulla di nuovo a segnare il nostro tempo, se non una forma più radicale di fede (nel divenire) rispetto alle civiltà che ci hanno preceduto. E invece non è così, perché a differenza dei sistemi etici tradizionali, in ogni modo impegnati a stabilire dei confini, anche se soltanto illusori, all’inesorabile divenire delle cose, l’etica del nostro tempo, l’etica della scienza è pura e semplice negazione di ogni immutabilità. La scienza è infatti la «volontà di accrescere indefinitamente la propria potenza, ossia la propria capacità di trasformare qualsiasi ordinamento del mondo» (p. 85). Questo progetto è il progetto cui tutti noi siamo legati dal doppio filo del platonismo e della conseguente credenza dell’oscillazione tra essere e niente. Un’etica che aspiri davvero a fare i conti con il cuore pulsante della civiltà tecnologica deve allora fare i conti con l’anima nichilistica che lo abita. Solo se si riesce a superare l’«alienazione estrema» per cui gli enti sarebbero niente, si può, secondo Severino, cominciare a pensare davvero un’etica della scienza in cui non sia l’etica ad “appartenere” alla scienza ma sia la scienza ad “appartenere” all’etica. Bisogna dunque uscire dalla «follia del nichilismo», andare al di là di questa fede e afferrare la «verità dell’eternità di ogni ente – di ogni cosa, gesto, istante, sfumatura, situazione. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell’ente è il comparire e lo sparire dell’eterno. […] Anche il più irrilevante e umbratile degli enti è eterno, come eterna è la stessa follia estrema del nichilismo. […] E tuttavia è possibile che l’Occidente tramonti ed entri nell’apparire un sentiero diverso da quello lungo il quale l’Occidente cammina» (p. 185).

Si condivida o meno, la lettura severiniana della tecnica apre lo sguardo sui presupposti di un’intera tradizione filosofica. Purtroppo risulta difficile non registrare come oggi ci sia chi traduce i fondamentali del pensiero severiniano in inutili quanto mediatici strali contro internet e le e-mail, rei di averci fatto perdere il tempo della riflessione e della scrittura; contro i bancomat e i distributori automatici, rei di averci fatto perdere il contatto umano (sia detto per inciso: forse fare la fila in banca aiuta la socializzazione?); e contro tutte le “diavolerie” tecnologiche. Insomma, è difficile far finta di non vedere che oggi purtroppo c’è chi su Severino ha edificato una tecnofobica retorica del “bel tempo che fu”. 

Cristian Fuschetto

S&F_n. 3_2010

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