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Trump and the city. Un tipo di Antropocene

Autore


Sara Baranzoni - Paolo Vignola

Universidad de las Artes di Guayaquil (Ecuador)

SARA BARANZONI Phd in Studi teatrali, è docente della Escuela de Artes Escénicas presso la Universidad de las Artes di Guayaquil (Ecuador) e coordinatrice del progetto europeo Horizon 2020 – Marie Curie "Real Smart Cities" 2018-2020. PAOLO VIGNOLA PhD in Filosofia, è docente della Escuela de Literatura presso la Universidad de las Artes di Guayaquil (Ecuador) e coordinatore del progetto europeo Horizon 2020 – Marie Curie "Real Smart Cities" 2018-2020.

Indice


1. Introduzione

2. Antropocene e Capitalocene

3. Entropocene e nichilismo

4. L’alga di Trump  

5. Trumpocene, breve schizzo di un concetto

6. L’Antropocene urbano

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Trump and the city. A model of Anthropocene


The Anthropocene, as defective concept, is an ambiguous notion questioning not only a type of humanity, but also geopolitical inequalities, economic issues and social relations. Beyond all the possibilities of redefinition, related to its origins, causes and consequences, we propose here to take into account the politics of Donald Trump as a symptom, one that take place in the city as the theatre of an Urban Anthropocene.

  1. Introduzione

Antropocene: l’era geologica in cui l’attività umana è diventata il principale e catastrofico fattore di trasformazione della biosfera. Come è ormai prassi consolidata nella letteratura relativa, occorre ricordare che dal punto di vista strettamente geologico, ossia il campo scientifico a cui fa riferimento il suffisso “-cene” (dal greco Kainos, nuovo), l’Antropocene, termine coniato dal chimico ambientale Paul Crutzen nel 2000 per indicare la supposta era geologica successiva all’Olocene, è una nozione controversa e ancora in attesa di una sua validazione[1]. Correlativo a tale mancanza di certificazione scientifica, vi è poi il problema legato all’origine cronologica dell’Antropocene, di cui sono state presentate quattro ipotesi maggiori: la grande accelerazione industriale successiva alla Seconda Guerra Mondiale, la prima rivoluzione industriale, la colonizzazione europea delle Americhe, la nascita delle prime civiltà sedentarie che seguono l’avvento dell’agricoltura[2]. In tal senso, si può affermare che l’Antropocene sia innanzitutto un concetto difettoso, poiché implica un difetto tanto di origine quanto di disciplina, nel senso che il suo conio rappresenta l’invasione di uno spazio lasciato vuoto dalle scienze geologiche, e in effetti tale spazio è stato occupato e fatto crescere non tanto dalla chimica ambientale, quanto dalle scienze sociali e umane.

Dal punto di vista di queste ultime, il difetto di origine diviene interessante, in quanto l’Antropocene, allertando sulla catastrofe antropogenica in corso, pone in questione il fine o i fini dell’uomo – il suo telos – a partire dalla possibile fine di quest’ultimo, ma senza avere una certezza sull’origine: anche l’origine, dunque, sembrerebbe destinata a rimanere possibile. È però proprio a partire da tale indecisione rispetto al passato, e dall’incertezza rispetto al futuro, che questo anthropos dell’Antropocene si fa interessante: ogni tentativo di attribuire un’origine all’Antropocene modifica inesorabilmente la stessa idea di anthropos e, in tal senso, mette in discussione l’argomento per cui il significato dell’Antropocene, passando dalle scienze dure a quelle umane, avrebbe il limite di indicare una umanità generale e astratta, rea di aver avvelenato la Terra e di stare ultimando il crimine.

Sicuramente, a una prima lettura il termine Antropocene è per lo meno ambiguo e fuorviante, troppo ingenuo – forse persino in odore di complicità – rispetto alle disuguaglianze geopolitiche, alle cause dell’inquinamento, alla divisione industriale del lavoro, tanto per elencare l’ovvio. Tuttavia, ciascuna delle possibili origini dell’Antropocene ci parla di un tipo di umanità, o più precisamente di un tipo maggioritario di umanità – nel senso che Deleuze e Guattari attribuiscono al maggioritario[3] – che incarna le cause dell’epoca antropocenica. Sta al pensiero critico leggere – ossia smascherare – i tratti di tale umanità maggioritaria, origine per origine: sedentaria, cittadina, rinascimentale, illuminista, colonizzatrice, capitalista industriale, o capitalista avanzata, globalizzata, ecc. L’umanità esiste solamente nei tipi, in senso nietzschiano, che si appropriano del suo significato, lo trasformano e lo rendono surrettiziamente universale. In tal senso, la tipologia dell’anthropos dell’Antropocene, il suo mascheramento, è il risultato, l’effetto, dei discorsi performativi che stabiliscono quale umanità debba risultare maggioritaria, debba cioè incarnare la norma e svolgere il ruolo dell’umanità. Probabilmente questo tipo di lettura rischia però di risultare troppo astratta, se non la si ancora a un’origine specifica di quello che ancora per una volta chiamiamo Antropocene. Per tale ragione, decidiamo di prendere come spunto la prospettiva del sociologo statunitense Jason W. Moore, il quale ha coniato come alternativa il termine «Capitalocene». Sarà dunque dall’umanità capitalista che prenderà le mosse la nostra tipologia antropocenica.

 

  1. Antropocene e Capitalocene

Secondo Moore, il concetto “Antropocene” cela in realtà almeno un paio di errori strategici. Il primo sarebbe relativo all’origine della datazione, che l’interpretazione prevalente attribuisce alla prima rivoluzione industriale. Per Moore, «collocare le origini del mondo moderno nella macchina a vapore e nelle miniere di carbone significa dare la priorità alla dismissione delle stesse macchine e miniere (e delle loro incarnazioni del XXI secolo)»[4].

Al contrario,

collocare le origini del mondo moderno nell’ascesa della civiltà capitalista a partire dal 1450, con le sue audaci strategie di conquista globale, mercificazione infinita e razionalizzazione implacabile, significa dare precedenza ai rapporti di potere, sapere e capitale che hanno prodotto – ed ora stanno distruggendo – il mondo moderno come l’abbiamo conosciuto. Chiudi una miniera di carbone e potrai attenuare il riscaldamento globale per un giorno; interrompi i rapporti che costituiscono la miniera di carbone e potrai fermarlo una volta per tutte[5].

 

Tale approccio rispetto all’origine dell’Antropocene permette dunque di ripensare le relazioni tra ecologia ed economia al di là e prima del problema dell’industrializzazione. Il secondo errore si situerebbe invece nella confusione tra le cause del cambio climatico, secondo Moore di carattere squisitamente economico e politico, e gli effetti, chiaramente e in primo luogo ambientali. Nel concetto di Antropocene si celerebbe inoltre un malinteso filosofico rispetto al rapporto natura/società, nonché una impostura politica, quella di attribuire all’umanità in generale e al suo consumo delle risorse la causa dell’imminente catastrofe ambientale[6]. La risposta di Moore è perentoria e consiste nel politicizzare radicalmente l’origine dell’Antropocene: «Il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto – l’Anthropos – bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è capitalogenico»[7].

In quest’ottica, per ciò che concerne quindi l’origine e il rapporto cause/effetti, il concetto di Antropocene difetta di una «prospettiva storico-relazionale» che spieghi lo sviluppo, a partire dal lungo XVI secolo, «delle relazioni che permisero l’era dell’umanità come agente geologico qualche tempo dopo il 1800»[8]. Per Moore si tratta «[del]le relazioni di potere, (ri)produzione e ricchezza nella rete della vita»[9], sviluppatesi a partire dalla violenta colonizzazione delle Americhe e senza le quali sarebbero state impossibili le rivoluzioni industriali, con tutto ciò che ne conseguirà in termini “antropocenici”. L’articolazione storica di tali relazioni – di natura epistemica, tecnologica, sociale, politica ed economica – forma una rete con la biosfera, e in tal senso si può allora parlare in termini di ecologia.

Il concetto di «rete della vita» è secondo Moore la chiave per leggere i rapporti natura/cultura in senso non opposizionale, superando così l’ingenuità filosofica della prospettiva mainstream sull’Antropocene. Il Capitalocene, allora, è da intendersi non come un’opposizione all’ecologia, bensì precisamente come una «ecologia dominante»[10], definita da un insieme di nuovi rapporti sociali inaugurati dalla colonizzazione delle Americhe come accumulazione originaria e affermazione dell’economia delle frontiere: materie prime e forza lavoro praticamente gratis. Così, «l’infinita accumulazione del Capitale e l’infinita appropriazione della Terra costituiscono, su scala globale, un unico processo»[11]. In altre parole, secondo il sociologo statunitense, la rete della vita, come articolazione di elementi eterogenei che determinano la biosfera, a partire dalla colonizzazione delle Americhe si vede piegata, tendenzialmente e in varie parti del globo, alla logica di accumulazione del capitale, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista ecologico. Così, se il Capitalocene è «l’Età del Capitale-nella-natura»[12] da intendersi come «un inedito regime di governance dell’ambiente globale», tale concetto indica anche «il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro» e, assieme, il “lavoro” come «un processo geo-ecologico molteplice e multi-specista»[13].

Vari sono i vantaggi della proposta di Moore, accolta positivamente e rilanciata da diversi altri studiosi e pensatori, come Donna Haraway che a suo modo ha utilizzato il termine praticamente in contemporanea[14]. Tra questi vantaggi, vi è indubbiamente la critica radicale della colonizzazione e dell’oblio sistematico che sembra colpire la maggioranza degli scholar dell’Antropocene rispetto al ventaglio di conseguenze climatiche, biologiche e tecnologiche indotte da essa. Allo stesso modo, è possibile riscontrare almeno due problemi o limiti, il cui superamento permetterebbe a nostro avviso un ampliamento dello spettro sintomatologico dell’Antropocene ad altri elementi della biosfera e un’analisi incisiva del ruolo delle tecnologie digitali in questa epoca.

Innanzitutto, far coincidere il fattore antropocenico con la nascita del capitalismo e le condizioni del suo sviluppo rischia di smarrire per strada alcuni elementi extracapitalisti di massima rilevanza, di cui la tecnica come estensione inorganica della vita umana rappresenta forse il motore generale che ha permesso l’antropizzazione dello spazio (agricoltura, urbanismo, architettura) così come del tempo (scrittura, supporti di memoria, istituzioni, ecc.). Secondariamente, l’analisi del Capitalocene, focalizzata nella genealogia dell’economia/ecologia mondo, sembra quasi esclusivamente orientata al passato, non contempla cioè né l’impatto cognitivo, affettivo ed epistemico, né la dimensione algoritmica del capitalismo contemporaneo. 

Per tali ragioni, riteniamo opportuno un arricchimento della prospettiva di Moore, tanto dal punto di vista tecnologico, quanto da quello ecologico; proveremo a realizzarlo con l’aiuto di Bernard Stiegler, per ciò che concerne la tecnica, e di Félix Guattari con Le [sue] tre ecologie.

 

  1. Entropocene e nichilismo

Stiegler, che ormai da diversi anni lavora sull’Antropocene, condivide le tesi di fondo del Capitalocene di Moore, ma le ricomprende all’interno della propria ottica organologica e farmacologica (da pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso), in cui la tecnica, con il fattore entropico che la accompagna, così come inversamente con il suo apporto neghentropico, diviene il perno della questione, e il capitalismo il sistema che ha incrinato drammaticamente l’equilibrio tra questi due poli, arrivando così alla proposta di una nuova denominazione: Entropocene[15]. Il punto di partenza della diagnosi stiegleriana è la convergenza di due tendenze entropiche di carattere mondiale, relative alla distruzione delle diversità: se la globalizzazione tardocapitalista sta annichilendo la biodiversità con l’inquinamento e la devastazione degli habitat, le tecnologie del capitalismo cognitivo producono un’omogeneizzazione culturale globale mediante la sincronizzazione cognitiva, percettiva e affettiva, la quale conduce a una forma di proletarizzazione generalizzata, da intendersi essenzialmente come perdita delle forme di sapere che reggono tanto la vita individuale quanto quella sociale: saper-vivere, saper-fare, saper teorizzare[16].

In tal senso, l’originalità della lettura stiegleriana dell’Antropocene consiste nel porre il problema dell’ecologia ambientale in relazione con le critiche più avanzate delle «società di controllo» contemporanee, i cui concetti emblematici sono la «governamentalità algoritmica» di Antoinette Rouvroy e Thomas Berns[17], come controllo e anticipazione computazionali dei comportamenti attraverso l’analisi dei Big Data e la performatività degli algoritmi, e il «capitalismo 24/7» coniato da Jonathan Crary per descrivere lo sfruttamento delle facoltà psicofisiologiche degli individui, 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana[18]. Entrambi i concetti segnalano per Stiegler una sorta di sistematico annichilimento tanto delle facoltà critiche e affettive, quanto di quella protensionale, fino all’incapacità da parte degli individui di proiettare, ossia di immaginare, sognare e inventare un futuro collettivo e alternativo allo status quo. Questa è la realtà psichica e sociale dell’Antropocene che si riflette nell’emergere di una società o meglio «dis-società automatica»[19], sotto forma di una tendenziale desertificazione dell’immaginazione, sia essa politica, estetica o culturale, che accompagna il livellamento o la scomparsa di ogni genere di differenze, da quelle biologiche a quelle culturali e noetiche. In questo sistematico fenomeno di annichilamento generalizzato, Stiegler intravede il compiersi del nichilismo nietzschiano, relativo al livellamento delle differenze e alla volontà del nulla: «il livellamento dell’uomo europeo…»[20].

Piuttosto che metafisico, il nichilismo stiegleriano che contraddistingue l’Antropocene-Capitalocene contemporaneo è organologico, da intendersi cioè come il risultato di un rapporto entropico tra gli organi psico-fisiologici, gli organi artificiali e le organizzazioni sociali, ossia i tre tipi di organi la cui interazione rende conto delle trasformazioni di una società almeno sin dagli albori della civiltà. Come quello nietzschiano, però, il nichilismo di Stiegler chiama a una trasvalutazione dei valori che hanno condotto fino ai bordi della catastrofe, e tale trasvalutazione richiede un ripensamento radicale del sistema tecnico digitale, ossia una trasformazione farmacologica del veleno in rimedio:

Dobbiamo pensare l’Antropocene con Nietzsche, come l’era geologica che consiste nella svalutazione di tutti i valori, nel senso che è nell’Antropocene […] che il compito di ogni sapere noetico diviene la trasvalutazione dei valori. […] È con Nietzsche che, dopo l’evento dell’Antropocene, dobbiamo pensare l’avvento del Negantropocene, e ciò deve essere pensato come la trasvalutazione del divenire nell’avvenire[21].

 

Al netto della proposta tecno-politica per «uscire dall’Antropocene»[22], è interessante segnalare che i tre organi che compongono la vita sociale possono dunque essere oggetto di tre generi diversi di ecologie, complementari all’ecologia ambientale: un’ecologia mentale, un’ecologia dei media e più in generale della tecnica, e un’ecologia sociale. Gli organi psicofisiologici, tecnici e sociali sarebbero perciò, assieme all’ambiente nel quale si sviluppano, gli elementi di un’ecologia generale, che Stiegler ha elaborato anche in dialogo con lo studioso guattariano Erich Hörl[23]. Ed è del resto proprio attraverso le tre ecologie di Guattari che risulta possibile articolare Stiegler con Moore, in vista di una variazione strategica e circostanziale del Capitalocene.

 

4. L’alga di Trump

Gli indizi segnalati da Guattari nel mostrare la triplice crisi ecologica, ossia ambientale, mentale e sociale, sono oggi, a trent’anni dall’uscita di Le tre ecologie, non solo presenti ma perfino esacerbati: cambio climatico devastante e sempre più direzionato verso la fatalità irrimediabile, sfilacciamento dei legami sociali, omogeneizzazione del pensiero e delle emozioni, conservatorismo repressivo tanto a livello individuale che istituzionale. A tali sintomi del disagio multiecologico sono poi da aggiungere tutti quelli causati dalle diverse microrivoluzioni digitali, ai tempi di Guattari appena immaginabili, e i cui effetti a lungo termine non sono ancora calcolabili, anche se sembrano allontanarsi inesorabilmente da quella dimensione post-mediatica che il pensatore francese preconizzava, vedendo in essa una grande opportunità emancipatrice, se non rivoluzionaria. Ora, sebbene tali aspetti tecnologici non potessero essere predetti nel dettaglio e negli effetti specifici, colpisce la precisione chirurgica nell’individuare il nome metonimico di tale immensa crisi ecologica, valido fino ai giorni nostri, dove a dire il vero è riuscito a ergersi come simbolo del Capitalocene contemporaneo:

Men che mai la natura può venir separata dalla cultura e bisogna che impariamo a pensare “trasversalmente” le interazioni tra ecosistemi, meccanosfere e universi di riferimento sociali e individuali. Come delle alghe mutanti e mostruose invadono la laguna di Venezia, così gli schermi televisivi sono saturati da una popolazione di immagini e dichiarazioni “degenerate”. Un’altra specie di alga, in questo caso relativa all’ecologia sociale, consiste in quel tipo di libertà di proliferazione che viene lasciata a uomini come Donald Trump, che si impadronisce di interi quartieri di New York, di Atlantic City, ecc., per “ristrutturarli”, aumentarne gli affitti e cacciar via, nella stessa operazione, decine di migliaia di famiglie povere, la più parte delle quali sono condannate a diventare homeless, l’equivalente, in questo caso, dei pesci morti dell’ecologia ambientale. Bisognerebbe anche parlare della deterritorializzazione selvaggia del Terzo Mondo, che colpisce congiuntamente la struttura culturale delle popolazioni, l’habitat. Le difese umanitarie, il clima, ecc.[24].

 

Quello che sta accadendo oggi con il Trump “maturo” nel campo politico, economico, psico-sociale e culturale è precisamente la questione delle tre ecologie guattariane, in cui si intrecciano il negazionismo sui cambiamenti climatici, l’ascesa del regime della post-verità, il protezionismo libertario, nonché una politica repressiva e razziale dei confini nazionali senza precedenti nella recente storia del capitalismo globale.

Se a ciò si aggiungono i massicci investimenti nell’intelligenza artificiale e le relative nuove forme di accumulazione originaria dei dati rilasciati in rete dagli utenti, così come la dichiarazione dell’attuale Presidente USA secondo cui stiamo entrando in una nuova era energetica ancor più estrattivista e consumista, gli indizi suggeriscono un ulteriore nome per questa fase antropocenica: il Trumpocene, che esprimerebbe il malessere delle tre ecologie di Guattari nel nostro presente.

Ora, l’impatto psicologico e sociologico del capitalismo delle piattaforme e dell’economia dei Big Data, passando per le fake news, le campagne diffamatorie su Twitter e l’ideologia mimetica che vi sta dietro, rappresentano i tratti di una nuova e specifica fase dello psicopotere capitalista, una fase che Stiegler descrive nei termini di un totalitarismo soft. Con l’amministrazione Trump staremmo cioè assistendo al sorgere di un «capitalismo smart basato su una totalizzazione permanente e planetaria, che costituisce un totalitarismo soft intenzionato a sfruttare industrialmente e matematicamente gli impulsi e gli arcaismi mimetici che li sottendono»[25].

 

5. Trumpocene, breve schizzo di un concetto

Per usare un detournement à la Debord: il Trumpocene è l’epoca in cui un capitalista di nome Donald Trump è diventato un fattore determinante tanto nella trasformazione catastrofica del cambio climatico globale, quanto nella ridefinizione della strategia politica mondiale e nelle tattiche di comunicazione social, diventando nietzschianamente un tipo, ossia una matrice psicopolitica riproducibile e riapplicabile in ogni stato del pianeta Terra. Basta ricordare la sequenza di vittorie politiche, praticamente in ogni continente, da parte di personaggi ultrareazionari, e più o meno dichiaratamente menefreghisti rispetto alla questione ecologica – se non direttamente interessati nel continuare con piani estrattivisti, per comprendere che non si tratta di un’onda anomala in un mare relativamente calmo, bensì del Trump-oceano e della sua epoca. È l’epoca trumpocenica e trumpoceanica, in cui fake news, compravendita di Big Data, algoritmi studiati ad hoc per generare risentimento, odio, ignoranza e miseria simbolica rappresentano letteralmente la versione 2.0 della continuazione della politica con altri mezzi. In tal senso, è in effetti proprio adesso, nella tempesta perfetta del Trumpoceano, che il termine «armi di distrazione di massa»[26], acquisisce tutta la sua potenza euristica e sintomatologica.

Esempi emblematici di questa situazione ultrareazionara e postveridica, tanto per la campagna elettorale quanto per l’amministrazione della res publica, sono Bolsonaro in Brasile, Orbán in Ungheria, Salvini in Italia. A essi sono da aggiungere le grandi onde del malumore cavalcate da partiti e movimenti (anti)europei incitanti all’odio verso il diverso che, pur non arrivando a governare, stanno comunque imprimendo il loro segno alle agende politiche di stati come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, attivando proprio quel «conservatorismo repressivo» segnalato da Guattari.

In tal senso, proprio come la tipologia nietzschiana delle forze informa la micropolitica di Deleuze e Guattari, una tipologia nietzschiana dell’Antropocene dovrebbe essere in grado di informare una micropolitica contemporanea, ossia una politica degli investimenti libidinali in seno a un campo sociale. In quest’ottica, è noto che, secondo Deleuze e Guattari, a guidare il carattere reattivo dell’inconscio è il risentimento, in grado di annientare tutti i concatenamenti rivoluzionari del desiderio e di sviluppare fascismi e microfascismi, generando qualsiasi tipo di delirio razziale o nazionalista. Ora, come suggerito da Tom Cohen, sembra anche troppo facile dare il volto di Trump all’Antropocene, nella misura in cui, da una parte, si può pensare al Presidente USA come «un algoritmo di risentimento e retorica di vittimizzazione micro-politica su tutti i fronti» cheriassume «quasi tutte le parodie e le caricature del “malvagio” Anthropos, rapace, estroverso, narcisista e mafioso»[27] nella sua stessa figura; d’altra parte, Trump ha saputo sfruttare e implementare algoritmicamente un processo tremendo e generalizzato di vittimizzazione e auto-vittimizzazione che è alla base di ogni tipo di fascismo contemporaneo, come Stiegler ha mostrato in Pharmacologie du Front National[28].

Dato che il nichilismo a cui abbiamo voluto riferirci, quello di Stiegler, è organologico, sembra a tutti gli effetti possibile leggere il Trumpocene come una tempesta perfetta generata dal cortocircuito simultaneo tanto dei tre livelli organologici quanto delle tre ecologie, e dal loro reciproco dis-aggiustamento: 1) gli organi psico-fisici sono cortocircuitati dal sempre più invasivo disastro tecnologico che inserisce l’esistenza individuale tra la sua raccolta di dati e il regime della post-verità; 2) gli stessi strumenti tecnologici non solo stanno distruggendo la vita sociale, ma stanno anche diventando più rapidi che mai nella loro obsolescenza programmata, sprecando una quantità enorme di sapere (saper-vivere e saper-fare, in particolare); 3) le organizzazioni sociali accelerano la loro decadenza verso la propria scomparsa, venendo sostituite da piattaforme e apparati sociali privatizzati. Nella loro reciproca situazione di malessere e disorientamento totale, i tre livelli organologici non possono che disgiungersi tra loro, e in assenza di una profonda riconsiderazione delle loro relazioni, e di un conseguente tentativo di “cura” del loro disagio, ossia del loro dis-aggiustamento, sarà impossibile fornire una risposta adeguata alla presente crisi ecologica, in senso ampio. Già negli anni ’90, Guattari sosteneva che solo un riorientamento degli obiettivi della produzione e dell’economia, ivi compreso in senso abitativo, avrebbe potuto farci superare la mentalità “trumpiana”[29], ossia quell’insieme di noncuranza, individualismo e vacuità che ha portato al disastro attuale, e di cui l’elezione di “The Donald” a Presidente degli Stati Uniti, potremmo dire oggi, non è che un sintomo[30].

In questo senso, ossia in senso sintomatologico, e a differenza della maggior parte dei “...ceni” che intendono sostituire, criticandolo, l’Antropocene, il sostantivo Trumpocene non pretende elevarsi a causa determinante della crisi ecologica, bensì si ferma alla dimensione metonimica. In quest’ottica, non può e non intende competere con i suoi “parenti”, come Capitalocene, Poleocene, Algoricene, Entropocene, Tecnocene, Misantropocene. Questi ultimi, ciascuno a suo modo, pretendono imporsi polemicamente sul termine Antropocene – e a seguire sugli altri pretendenti – cercando, in un afflato quasi metafisico, o almeno cosmologico, di stabilire il principio di tutti i mali della Terra. Il concetto del Trumpocene, invece di escludere i pretendenti, li compone, li articola, li ridimensiona, ma in qualsiasi caso li evidenzia, li rende palpabili.

Inoltre, last but not least, a differenza dei protagonisti o dei principi degli altri “ceni”, Donald Trump può anche scomparire dalla faccia della Terra, nondimeno il concetto potrebbe restare valido e attuale – proprio per il suo valore metonimico. Se invece il Capitale, o la città [polis], o l’entropia, per esempio, non esistessero più, risulterebbe decisamente problematico ontologicamente, inutile politicamente o fuori luogo concettualmente parlare di Capitalocene, Poliocene, Entropocene per definire l’epoca contemporanea.

 

6. L’Antropocene urbano

Provando a rispondere alle analisi di Guattari, non possiamo che constatare come la crisi economica (e sociale) dell’ultimo decennio, con la sua virulenza trasversale, ha in effetti portato alla luce tutte le contraddizioni che la sua più che efficace “sintomatologia del futuro” aveva già immaginato. Se da un lato questo ha condotto al proliferare dei fautori di un “fusione ecologica” con la natura, e dunque al prevalere del senso di colpa e del desiderio di preservare la stessa “Natura” da qualsiasi tentativoartificiale di salvataggio, spingendo verso il ritorno a una presunta purezza pre-tecnologica, dall’altro si sono moltiplicate le correnti accelerazioniste e prometeiste, che di fronte all’ineluttabilità del cambio climatico fanno appello a politiche «di padronanza massimale sulla società e sul suo ambiente»[31], auspicando soluzioni tecniche che spingano l’Antropocene fino ai suoi limiti, o che, geo-ingegneristicamente, permettano di riformattare il mondo in una maniera più efficiente[32].

Senza propendere per alcuna di queste linee, ma nemmeno per tutte le “geo-ecologie” intermedie che non ripartano da una critica efficace della situazione attuale, pensiamo che l’unica possibilità per essere degni di questa nuova epoca sia di concentrarsi su problemi e situazioni specifiche, o, per così dire, locali. In questo senso, proponiamo di considerare le città come il sintomo e allo stesso tempo il campo diagnostico privilegiato dell’Antropocene, non solo in quanto ambienti a loro volta prodotti antropogenicamente e a misura d’uomo, non solo per la crescita incrementale dell’urbanizzazione, che gli stessi scienziati teorici dell’Antropocene riconoscono tra gli indicatori principali di tale epoca, ma soprattutto in quanto sedi dell’effettuazione delle relazioni ecologiche e organologiche tra i diversi piani che fin qui abbiamo preso in considerazione, e come tale, teatri anatomici della loro crisi, dell’impatto di questa sullo stesso essere umano, e dei conseguenti tentativi di aggiustamento.

In effetti, anche la già citata crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 ha un’origine che potremmo definire “Trumpocenica”: ciò che ne ha causato l’emergenza è infatti una speculazione urbano-finanziaria sostenuta e giustificata da politiche neoliberiste che hanno puntato senza scrupoli al rigonfiamento dei prezzi delle case per guadagnare alle spalle di proprietari e investitori. Il riferimento va alla crisi dei mutui subprime, una crisi generata da un flusso massiccio di investimenti a basso costo, investimenti ingiustificati frutto di un’euforia altrettanto ingiustificata, ma ad alto rischio finanziario in quanto legati a proprietà urbane dal valore artificialmente accresciuto. La conseguente bolla immobiliare, una volta scoppiata, ha generato una consistente insolvenza (e impoverimento) dei mutuatari, e gli interventi di salvataggio pensati ad hoc non hanno fatto che gonfiare i bilanci (e i deficit) pubblici. In generale, le misure per superare economicamente la crisi hanno soltanto messo a dura prova i paesi più fragili allargando la forbice sociale, senza di fatto agire alla radice del problema, vale a dire sulla natura a corto termine degli investimenti e della speculazione[33].

È dunque questa una crisi che viene nettamente dalle città (una crisi di carattere urbano), che da lì è cominciata e che nello stesso sito dovrebbe venire analizzata. Se lo pensiamo bene, così come le città in quanto infrastrutture tecniche incorporano, spazializzano e rispecchiano i comportamenti umani, i loro saperi e le relazioni sociali ed economiche che le hanno co-prodotte, queste possono allo stesso modo divenire l’agente di una possibilità di cambiamento su tutti i livelli, indotta da sperimentazioni urbane adeguatamente comprese, criticate e sviluppate.

In questo senso, sostengono Swilling e Hajer[34], anche una prossima economia dovrà essere definita all’interno del contesto urbano, e nella sua configurazione spaziale: così come ogni volta che si è verificato un cambiamento nell’infrastruttura urbana, si è proceduto verso una transizione economica e sociale, e a una corrispondente accelerazione, dove la tecnologia gioca un ruolo fondamentale e strategico, una nuova economia dovrà essere basata su di una nuova concezione delle risorse energetiche, così come delle tecnologie e delle istituzioni sociali (pensiamo in particolare ai sistemi di welfare) a esse legate. La tecnologia digitale e la computazione generalizzata, in alleanza con il corrispondente sistema neoliberale e consumista, hanno portato alla finanziarizzazione dei rapporti economici, e alla speculazione urbanistica così come la abbiamo brevemente descritta. Gli infausti effetti di tutto ciò, che potremmo identificare come un Antropocene urbano, sono ormai evidenti, e addirittura rischiano di vedersi amplificati dalla quantità di energie e risorse necessarie per sostenere tale situazione. Basti pensare alla quantità insostenibile di calore prodotto dalle banche dati, e al corrispondente spreco di energia per il raffreddamento necessario al loro mantenimento.

Si rende allora evidente la necessità di una ristrutturazione urbana non solo nelle logiche di costruzione di edifici e infrastrutture e di amministrazione delle densità, ma anche nella gestione delle energie, e più in generale, nella loro governamentalità. Ciò non può non essere accompagnato da una profonda conoscenza (e) critica delle forme di governo attuali, siano queste clientelari, corporativistiche, manageriali, pluraliste, populiste o imprenditoriali[35].

In questo senso, la crisi ambientale e quella economica vanno di pari passo, e gli attuali modelli di “smart city”, così come è evidente in quelle attualmente realizzate, Songdo in Corea o Masdar a Abu Dhabi, non fanno altro che ripetere e magnificare i potenziali della governamentalità algoritmica e del corrispondente urbanismo algoritmico, mostrando a tutto il mondo cosa potrebbe succedere nel caso in cui le grandi corporation private assumessero definitivamente il governo di tali realtà.

Alla luce di tutto ciò, si rende necessario pensare ad altri tipi di sperimentazione urbana, in grado di rispondere ai cambiamenti tecnologici e sociali che vanno di pari passo con l’Antropocene, sperimentazioni che rispondano a problemi specifici in modo inclusivo e sostenibile. In questo senso, la città diviene il vero “laboratorio per il futuro”[36], il che, come direbbe farmacologicamente Stiegler, può portarci verso il meglio così come verso il peggio: verso un’assolutizzazione dell’urbanismo algoritmico e della smart city a trazione neoliberale, con la conseguente ideologizzazione della sostenibilità e della produzione in senso green, che di fatto però prolunga la loro dipendenza energetica trasformandole in «entropici buchi neri»[37], o verso un’agenda più inclusiva, eterogenea e “creativa”[38], basata sull’open source – sulla diffusione e creazione a varie scale dei piani regolatori – e sull’apprendimento collaborativo tra le varie realtà, che potrebbero così fondarsi sull’esperienza acquisita in altre città in maniera molto più effettiva[39]. È in questo senso che Swilling e Hajer parlano di un “globally networked urbanism”, capace di stimolare l’inventività di nuove soluzioni a partire dal dialogo e dal confronto con l’altro[40]. Non solo, cioè, attente all’impronta climatica lasciata dal consumo sregolato delle energie, ma che rivitalizzi in primis la noosfera, vale a dire il congiunto di relazioni di sapere ed esperienza che circolano attorno alla città. Solo una nuova attenzione non ideologica nei confronti di tutti questi saperi sarà in grado di trasformare strutturalmente progetti e dispositivi orientandoli a una nuova cura organologica[41], vale a dire, a una nuova co-crescenza (o concrescenza, nel senso di Whitehead[42]) di organi e organizzazioni ben capaci di sostenersi e riattivarsi a vicenda. A questo cambio di paradigma, basato non sullo sfruttamento della conoscenza ma sulla proliferazione di saperi, e alla loro corretta valorizzazione, a cui, se adeguatamente ripensata, potrà contribuire la tecnologia digitale, guardano ormai diverse realtà e progetti scientifici[43]. Eppure, siamo lontani dall’abbandonare l’economia entropica e dissipativa che ha alimentato l’Antropocene e dal mettere in pratica una vera “intelligenza urbana”: il paradigma della resilienza, ossia della rapida reazione alla crisi che punta a ristabilire l’equilibrio senza alterare l’identità originaria, non è sufficiente. È proprio questa identità di fondo, quella del sistema economico-finanziario, con la sua gestione di soggettività e tecnologie, che bisogna andare a minare, con la sua tendenza all’inglobazione massificante di tutte le differenze prodotte nei vari arcipelaghi metropolitani[44].

Così, se la politica di Donald Trump non è una merce il cui valore può essere soppesato indipendentemente dalla storia degli ultimi trent’anni delle democrazie liberali – si tratta, al contrario, del loro miglior prodotto ecologico, una pietra miliare strategica del capitalocene – allo stesso modo, è alla lunga genealogia urbana che bisogna guardare per valutarne e immaginarne i risultati, vale a dire, le condizioni attuali al netto delle proposte più o meno futuristiche che si stanno susseguendo. Per concludere, anche a rischio di ripeterci, è dunque solo dirigendo lo sguardo verso la molteplicità di saperi prodotti nel corso della storia, e in particolare quelli meno immediatamente efficienti, e per questo esclusi dalle logiche urbane mainstream, che questi stessi saperi si potranno riattivare, dando luogo a una possibile città veramente intelligente.


[1] Ormai largamente supportata da dati scientifici, l’ipotesi dell’Antropocene in quanto era geologica e stratigrafica è stata a lungo analizzata dall’Anthropocene Working Group, un team composto da geologi, archeologi e altri scienziati, che proprio in questi giorni si sono pronunciati a favore della sua accoglienza come nozione presso la comunità scientifica (cfr. AnthropoceneWorking Group web page, http://quaternary.stratigraphy.org/working-groups/anthropocene/). Nonostante ciò, questo è solo il primo passo per la necessaria validazione ufficiale presso l’organismo deputato, l’International Commission on Stratigraphy.

[2] Cfr. R. Monastersky, Anthropocene: The human age, in «Nature», 7542, 2015 (http://www.nature.com/news/anthropocene-the-human-age-1.17085).

[3] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), tr. it. Orthotes, Napoli-Salerno 2017, pp. 41-65, 127-174.

[4] J.W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia mondo nell’era della crisi planetaria (2016), tr. it. ombre corte, Verona 2017, p. 42.

[5] Ibid.

[6] Questi sono del resto, per Moore, i fattori che, muovendo dalla nozione scientifica di Antropocene hanno prodotto «l’Antropocene alla moda», ossia «l’ultimo di una lunga serie di concetti ambientali la cui funzione è quella di negare la disuguaglianza e la violenza multispecifica del capitalismo e di suggerire che dei problemi creati dal capitale sono in realtà responsabili tutti gli umani. La politica dell’Antropocene [è] un’anti-politica» (ibid., p. 31).

[7] Ibid., p. 29.

[8] Ibid., p. 126.

[9] Ibid., p. 41.

[10] Jason W. Moore ha definito Capitalocene, ossia la «ecologia-mondo dominante», sviluppata, governata e amministrata dal Capitalismo a partire dal lungo XVI secolo, tra colonialismo, scoperte scientifiche, sviluppo della cartografia e l’accumulazione primitiva necessaria per le rivoluzioni industriali.

[11] J.W. Moore, El auge de la ecología-mundo capitalista (I). Las fronteras mercantiles en el auge y decadencia de la apropiación máxima, in «Laberinto», 38, 2013, p. 18.

[12] Id., Antropocene o Capitalocene?, cit., p. 137.

[13] Ibid., p. 35.

[14] D. Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Chthulhucene. Donna Haraway in conversation with Martha Kenney, in Art in the Anthropocene. Encounters Among Aesthetics, Politics, Environments and Epistemologies, a cura di H. Davis, E. Turpin, Open Humanity Press, London 2015, p. 259.

[15] Cfr. B. Stiegler, Dans la disruption. Comment ne pas devenir fou?, Les Liens qui Libèrent, Paris 2016.

[16] Sulla proletarizzazione come perdita di sapere in Stiegler, cfr. P. Vignola, L’animale proletarizzato. Stiegler e l’invenzione della società automatica, in «aut aut», 371, 2016, pp. 16-30.

[17] T. Berns, A. Rouvroy, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. Le disparat comme condition d’individuation par la relation?, in «Réseaux», 177, 2012, pp. 163-196.

[18] Cfr. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2013), tr. it. Einaudi, Torino 2015.

[19] B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015, p. 178.

[20] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, tr. it. Adelphi, Milano 1971, Vol. III, tomo II, (105) 9 [153].

[21] B. Stiegler, La société automatique 1, cit., pp. 24-25.

[22] Cfr. B. Stiegler, Uscire dall’Antropocene, in «Kaiak», 1, 2016.

[23] Cfr. E. Hörl, General Ecology. The New Ecological Paradigm, Bloomsbury, London 2017.

[24] F. Guattari, Le tre ecologie (1989), tr. it. Sonda, Casale Monferrato 2013, pp. 25-26.

[25] Una piena comprensione di questa affermazione richiederebbe una lettura attenta dell’ideologia girardiana del mimetismo di Peter Thiel, che trova la sua attualizzazione digitale nel vasto esperimento mimetico che è Facebook, e della logica del capro espiatorio – con cui le forze del cosiddetto conservatorismo stanno costruendo la propria volontà nichilista al potere, dentro e fuori i confini nazionali. Il mimetismo e la logica del capro espiatorio sono infatti due elementi fondamentali dell’ascesa odierna del populismo, e in particolare dell’ascesa al potere di Donald Trump, di cui Thiel potrebbe essere considerato una sorta di guru post-neocon. Cfr. D. Ross, Protentional Finitude and Infinitude in the Anthropocene, «Azimuth», 9, 2017, pp. 127-142.

[26] Cfr. D. Tapscott e A.D. Williams, Macrowikinomics, tr. it. Etas, Milano 2010; Id., Wikinomics 2.0, tr. it. Rizzoli, Milano 2008.

[27] T. Cohen, Make Anthropos Great Again! Notes on the Trumpocene, in «Azimuth», 9, 2017, pp. 102-103.

[28] Cfr. B. Stiegler, Pharmacologie du Front National, Flammarion, Paris 2013.

[29] Per un approfondimento sulle analisi di Guattari e la loro attualità rispetto al presente, cfr. S. Baranzoni, L’eco di Guattari: ambiente, soggettività e tecnologie nel XXI secolo, in Ecologia. Teoria, natura politica, a cura di I. Pelgreffi, Kaiak, Napoli-Salerno 2018, pp. 139-160.

[30] Cfr. P. Vignola, Notes for a Minor Anthropocene, in «Azimuth», 9, 2017, pp. 90-94.

[31] A. Williams, N. Srnicek, Manifesto per una politica accelerazionista, tr. it. online: http://www.euronomade.info/?p=1328.

[32] Per una critica dettagliata delle varie posizioni a riguardo, cfr. F. Neyrat, La part inconstructible de la Terre. Critique du géo-constructivisme, Seuil, Paris 2016.

[33] Su questi temi, si veda il Manifesto 2010 di Ars Industrialis, http://arsindustrialis.org/manifeste-2010, dove l’analisi della crisi mondiale del 2007-2008 viene analizzata come frutto di una «società dell’incuria», proprio per dimostrare la tossicità di un simile tipo di investimenti, e la conseguente distruzione del desiderio, che ha convertito in “usa e getta” qualsiasi tipo di prodotto, dai dispositivi tecnologici alle relazioni sociali, dalle strutture mentali alle relazioni affettive.

[34] Cfr. M. Swilling, M. Hajer, The future of the City and the Next Economy, in «The Next Economy Catalogue», International Architecture Biennale Rotterdam, Rotterdam 2016, pp. 99-105.

[35] Ibid., p. 102.

[36] Ibid., p. 104.

[37] W. Rees, M. Wackernagel, Urban Ecological Footprints: Why Cities cannot be Sustainable and why they are a Key to Sustainability, in «Environmental Impact Assessment Review», 16, 4-6, 1996, pp. 223-248, qui p. 245.

[38] Facendo ben attenzione a non confondere la possibilità di creare insita in questo termine con la caratterizzazione ideologica derivata dal suo appropriamento da parte dell’economia neoliberale, che ne ha fatto una parola d’ordine capace di orientare la vita dei singoli a una costante reinvenzione di sé e del proprio lavoro in linea con i propri dettami. Cfr. «La Deleuziana», n. 0/2014, “Critica della ragion creativa”, http://www.ladeleuziana.org/2014/06/15/la-deleuziana-n-0-critica-della-ragion-creativa/.

[39] Per un esempio di operazioni di questo tipo, cfr. M. Carta, B. Lino, D. Ronsivalle, Re-cyclical Urbanism. Visioni, paradigmi e progetto per la metamorfosi circolare, Listlab, Trento-Barcellona 2016.

[40] M. Swilling, M. Hajer, op. cit., p. 105.

[41] Esattamente come preconizzato nel già citato Manifesto 2010 di Ars Industrialis, è soltanto una nuova capacità di cura, una terapeutica insomma, ciò che può essere in grado di sovvertire la società dell’incuria per trasformarla in una società del “prendersi cura”.

[42] Cfr. A. N. Whitehead, Processo e realtà (1929), tr. it. Bompiani, Milano 2019.

[43] Tra cui l’Unione Europea, che ha messo nelle linee guida del programma Horizon 2020 la necessità di pensare a modelli urbani più responsabili, intelligenti e sostenibili.

[44] Cfr. M. Carta, B. Lino, D. Ronsivalle, op. cit.

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