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Meccanicismo e realtà fenomenica nel mondo degli esseri viventi. Ernst Mach e Jakob von Uexküll

Autore


Luca Guidetti

Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna

insegna Filosofia teoretica

Indice


  1. Mach: i fenomeni e le loro relazioni
  2. Uexküll: il fenomeno della vita

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S&F_n. 25_2021_APPENDICE

Abstract


Mechanism and phenomenal reality in the world of living beings. Ernst Mach and Jakob von Uexküll

Between the end of the nineteenth century and the beginning of the twentieth century, Ernst Mach gave a profound criticism of mechanism, a scientific and philosophical position that he had maintained in his youth. Mach distinguishes between mechanical experiences, which are common to every man, and mechanical science, which instead aims to resolve every aspect of life in its principles and axioms. The mechanical principles – based on the concepts of matter, movement, force, space and time – are conditioned by metaphysical assumptions that allow us to understand neither the phenomena of physical world, nor the psychic and biological expressions of living beings. This persistence on the concept of phenomenal experience joins the Machian investigations to that of the Estonian biologist Jakob von Uexküll, who opposes the biological mechanism and highlights the “conformity to a plan” characterizing every form of life. However, Uexküll does not agree on neovitalism, as to him life does not resolve itself in an occult dimension beyond the phenomena, but develops on the basis of meanings that phenomena, as signs of experiences and relational structures, assume within the animal world, of which even the living human being, with its culture and its peculiar biological form, is an integral part.

  1. Mach: i fenomeni e le loro relazioni

In un famoso esempio contenuto nel primo capitolo dell’Analisi delle sensazioni, Mach descrive un uomo sdraiato su un divano che chiude un occhio guardando verso il fondo del suo corpo[1]. L’immagine retinica è definita da confini che escludono la testa e includono l’area visiva posta al di sotto dell’arcata sopraccigliare. Entro questi confini, gli oggetti appaiono secondo certi profili e anche il corpo dell’uomo viene visto solo in parte[2]. Tuttavia, anche se egli vede solo parti e profili, le cose e il suo corpo gli sono sempre presenti nella loro unità. Sorge allora la domanda: che cosa si aggiunge alla visione parziale in modo da integrare le parti mancanti? Nella tradizione moderna, sia empiristica sia razionalistica, v’è la tendenza a rispondere a tale domanda ricorrendo alle sensazioni in sé, assunte come dati elementari e isolati che, mediante l’intervento della ragione, dell’intelletto o di altre strutture indipendenti, si uniscono a formare insiemi più complessi, talvolta di ordine superiore alla somma delle singole sensazioni. Il problema di una tale impostazione – a cui non sfuggono i maggiori rappresentanti della psicologia fisiologica dell’Ottocento, come Johannes Müller, Hermann von Helmholtz e Wilhelm Wundt – è duplice, vale a dire: a) essa incorre nella fallacia di attribuzione secondo il modello soggetto-predicato, in quanto l’elemento è assunto con un certo significato (il “molteplice caotico”, l’“atomo psichico” il “dato fisico”, ecc.) già prima del livello di organizzazione in cui ricorre; b) la composizione degli elementi è dovuta a fattori esterni, come la coscienza, le facoltà dell’anima, la meccanica del moto, la natura della materia o la forza delle tendenze psichiche, che non si giustificano in base all’esperienza. Questa infatti ci presenta solo dei fenomeni (colori, suoni, spazi, pressioni, tempi) il cui senso dipende dalla correlazione funzionale con altri fenomeni[3].

Ma cosa sono per Mach i fenomeni e che significato hanno le relazioni che instaurano tra di loro? “Fenomeno” è tutto ciò che, nell’esperienza, si presenta come appartenente a un certo campo. Un “campo” è una struttura, ossia un reticolo puramente formale di connessioni il cui contenuto semantico dipende dai valori assegnati alle variabili che stanno per gli “elementi” del campo. Per esprimere la struttura sintattico-semantica dell’universo fenomenico, Mach si avvale di notazioni matematiche, dove f indica la funzione o forma delle connessioni (struttura delle relazioni), mentre i simboli delle variabili (x, y,…) indicano dei posti vuoti (chenogrammi) che vengono occupati volta per volta da valori (costanti)[4]. I campi fondamentali sono tre: fisico, fisiologico e psichico, a cui si associano altri campi, di tipo “naturale” o “culturale” (ad esempio, biologico, sociale, antropologico, ecc.), i quali sono solo particolari variazioni dei tre campi fondamentali. Ciò che li distingue è il modo in cui il dato originario si costituisce, cioè assume un valore secondo un criterio di rilevanza che accentua alcuni aspetti e prescinde da altri. Questo dato originario, anche se proviene sempre dalle sensazioni e fa uso di esse, può assumere o no un valore di sensazione. Se l’assume, cioè se la sensazione è il suo tema, ci troviamo nel campo psichico; se invece non l’assume, il tema è costituito dagli oggetti delle sensazioni (corpi) e dai loro rapporti che, nell’insieme, formano il campo fisico. A sua volta, il campo fisiologico si estende ai rapporti tra i corpi fisici e il corpo vivente organico, che include anche il nostro corpo. L’elemento, dunque, non ha per Mach un valore o un significato in sé, ma assume un significato in base al tema e al campo in cui rientra. Le sensazioni sono quindi “elementi”, ma non tutti gli elementi sono sensazioni[5]. Ciò esclude ogni sensismo, fenomenismo o “monismo neutrale” a cui troppo frettolosamente si è preteso di ricondurre le concezioni di Mach[6]. Si prenda, ad esempio, l’esperienza del colore. Se consideriamo la visione del colore “verde” (la sensazione del verde), essa si distingue dalle altre sensazioni di colore e anche da quelle sensazioni (tattile, uditiva, ecc.) che non appartengono alla vista[7]. Non solo, ma entro il medesimo campo psichico-fenomenico possiamo considerare l’oggetto colorato (il “percetto”) come un’esperienza sensibile, e persino lo spazio e il tempo si presentano come sensazioni che caratterizzano lo svolgersi di tali fenomeni. In tutti questi casi siamo di fronte a relazioni interne: il modo in cui percepiamo il fenomeno definisce la sua qualità, sicché esso non può apparirci diversamente. Se invece ci riferiamo all’oggetto colorato in rapporto ad altri oggetti o a una fonte di luce ed esaminiamo le sue modificazioni in base ad apparati di misurazione oppure al confronto logico-linguistico tra le sensazioni di colore che hanno luogo in altri soggetti – in modo che l’esperienza possa valere non solo per me, ma per tutti –, l’esperienza del colore diventa un fatto fisico. Si tratta dunque di una relazione esterna: l’oggetto colorato può avere proprietà diverse e anche cambiare colore.

Ora, poiché la stessa esperienza del colore può essere intesa in senso psichico o fisico, non esistono solo fenomeni psichici, ma anche fenomeni fisici. Tra i due campi fenomenici non vi è una priorità nell’ordine logico-formale: ciò che chiamiamo “fisico” è transfenomenico rispetto allo “psichico” e viceversa. Tuttavia, esiste un’asimmetria genetico-biologica dovuta al fatto che il nostro contatto col mondo avviene anzitutto mediante le sensazioni, da cui proviene il significato originario e vitale di ciò che chiamiamo “fenomeno”. Possiamo studiare la temperatura di un corpo in un modo puramente fisico, ad esempio calcolando l’energia cinetica delle molecole e confrontandone lo stato con un corpo di riferimento (termometro), ma questo bisogno conoscitivo non sarebbe sorto se non avessimo mai avvertito sensibilmente la differenza tra il caldo e il freddo[8]. Pertanto, in senso stretto il campo fenomenico primario è quello psichico: è qui, infatti, che si presentano gli oggetti fenomenici. Queste relazioni risultano ancor più evidenti se consideriamo il campo fisiologico che include il nostro corpo. L’uomo che nella stanza vede una parte del proprio corpo, vede anche gli altri oggetti come posti al di fuori del suo corpo: si tratta dunque di un’esperienza spaziale psichica (un’esperienza percettiva corporeo-psichica) che ci dà il senso dell’esteriorità. Il solipsista che, estendendo l’io al mondo, pretende di eliminare il confine che separa il suo corpo dagli altri corpi e da quelli degli altri uomini, non si rende conto che, nell’esperienza percettiva, tale confine non viene tolto, ma semplicemente «attraversa la sua coscienza»[9]. Tuttavia, nella misura in cui esaminiamo il nostro corpo seguendone le connessioni nervose – come fanno l’anatomista, il neurologo e il fisiologo –, esso si presenta come una cosa fisica, ossia un organismo collocato all’interno del campo fisico nel quale si svolgono quei processi fisiologici da cui dipendono le sensazioni e i percetti. Anche se possiamo avere un’esperienza fenomenica dei processi nervosi, così come abbiamo esperienza di altri fenomeni fisici, noi non sentiamo nostro organismo fisico. L’esperienza relativa a quest’ultimo è di tipo mentale, dove la “mente” non ha a che fare con il fenomeno che appare sensibilmente, ma con i concetti fisici che si avvalgono di certe notazioni simboliche, ad esempio di tipo numerico-quantitativo, geometrico-spaziale, oppure di misurazioni temporali[10]. Quando perciò diciamo che gli oggetti percepiti sono “dentro di noi”, il termine “dentro” si riferisce a un fatto fisico, transfenomenico rispetto al campo psichico in cui tali oggetti appaiono invece “fuori di noi”.

Tutto ciò implica una radicale riformulazione della “relazione psicofisica”, volta a evitare qualsiasi teoria della proiezione o della somatizzazione[11]. Infatti, ciò che accade “dentro” la coscienza non dev’essere riportato all’esterno per poter assumere il senso dell’esteriorità e, allo stesso modo, ciò che si trova al di fuori della coscienza non necessita di una riproduzione interna per essere conosciuto. Spesso – nota Mach – accade che osservando un fenomeno fisico ci accorgiamo che le sue dimensioni spazio-temporali non corrispondono a quelle del fenomeno psichico. Così, ad esempio, un punto che nello spazio fisico si trova in basso, forma la sua immagine nella retina in alto. Ciò si spiega perfettamente se seguiamo le leggi diottriche del campo fisico: l’occhio è una sfera e la retina una superficie simile alle sfere e alle superfici che troviamo fuori dall’occhio. Se però trasportiamo questa spiegazione nel campo psichico e cerchiamo in esso una risposta alla domanda: «perché vediamo dritte le immagini che sulla retina sono rovesciate», si generano solo oscurità e l’intera questione non ha più alcun significato. Infatti, «le sensazioni di luce dei singoli punti della retina sono connesse fin dall’inizio a sensazioni spaziali, e noi diciamo che sono in alto i punti dello spazio che corrispondono sulla retina a punti in basso»[12]. Non esiste la possibilità di stabilire la “vera” realtà spaziale prescindendo dai diversi campi relazionali. Senza dubbio, se non vi fosse il fenomeno fisico non esisterebbe nemmeno il fenomeno psichico, poiché anche l’illusione o l’allucinazione hanno sempre un correlato organico. Tuttavia, questa dipendenza, qualsiasi forma possa assumere, non implica affatto una riduzione fisica della qualità sensibile, anche se è sempre possibile tradurre ogni qualità in una grandezza fisica o matematica. L’illusione non è un errore della sensazione, ma delle nostre pretese rispetto alle circostanze in cui essa si verifica. Essa consiste nel supporre che «l’organo di senso agisca in modo diverso in circostanze uguali»[13]. Un bastone immerso nell’acqua appare spezzato alla vista, ma diritto al tatto. Dobbiamo concludere che il tatto è più affidabile perché tramite esso la relazione del nostro corpo con l’oggetto presenta una maggiore immediatezza? Evidentemente no, anche il tatto ha le sue illusioni e verità. Ricorriamo allora alle leggi della rifrazione che, facendo parte del campo fisico, utilizzano strumenti simbolici comuni a tutti[14].

Tale riconoscimento dell’indagine fisica come ambito in cui si costituisce un’esperienza comune non deve però indurci a credere che il fenomeno fisico possa aggiudicarsi, in modo esclusivo, l’oggettività, la necessità e la causalità, mentre al campo psichico dovrebbero spettare la soggettività, la contingenza e l’indeterminazione. Anche se la sensazione è un fenomeno che si dà a un solo uomo, ciò non significa – come abbiamo visto – che sia un’esperienza solipsistica e privata, di cui possiamo accorgerci per introspezione. L’alterità e la molteplicità del mondo sono già presenti e “incontrati” nel fenomeno psichico individuale. Allo stesso modo, l’universalità del concetto fisico si avvale di simboli più semplici e facili, dotati di una funzione economica relativa alla prassi della conoscenza scientifica, il cui scopo è di esprimere intersoggettivamente il senso dell’esteriorità che si costituisce a livello psichico. D’altra parte, se per scalzare la validità scientifica del dato psichico ci si appellasse alla soggettività della qualità sensibile, rilevata prima di acquisire lo stato di una grandezza fisica, per la stessa ragione si dovrebbe respingere come “non scientifica” anche la determinazione di una grandezza di stato come la temperatura, la quale si ottiene operativamente a partire dalle sensazioni di calore, senza ricorrere alla composizione delle “parti materiali” (atomi e molecole) di un oggetto fisico[15].

In questo senso, le indagini di Mach sulle sensazioni s’inseriscono in un più ampio quadro analitico, volto a mettere in discussione i presupposti stessi della visione meccanica del mondo a cui si connettevano i tradizionali concetti fisici. Riferendosi a un testo di Wilhelm Wundt del 1874, nel quale si raccolgono i principali assiomi meccanici a partire dagli inizi dell’Età moderna[16], Mach mette in evidenza due questioni: in primo luogo, tali assiomi ricorrono a nozioni, come la “materia”, la “massa”, la “forza” o l’“energia”, che non hanno alcun riscontro nelle esperienze meccaniche e che, pertanto, si presentano come veri e propri principi metafisici del mondo fisico[17]. Ad esempio, la massa di un corpo viene spiegata come la “quantità di materia” in esso contenuta, mentre dal punto di vista fenomenico si tratta solo di un grado di accelerazione (positivo o negativo) se riferita ai corpi fisici, o di una certa pressione se riferita al nostro corpo sensibile[18]. Il vantaggio di quest’impostazione analitica non consiste nel rifugiarsi in un ingenuo empirismo descrittivo che risulta coerente nella misura in cui si sottrae alle questioni fondamentali della conoscenza della natura, ma nel consentire di cogliere adeguatamente le differenze tra i fenomeni e i rispettivi correlati oggettuali, in particolare il corpo vivente. Infatti, partendo dalla materia come una sostanza che si manifesta attraverso relazioni quantitative – simbolo dei “limiti” della conoscenza umana – il meccanicista si chiede come tale sostanza possa avere sensazioni e persino pensare, e non trova di meglio che spiegare le sensazioni come effetti collaterali e soggettivi delle “vere” cause materiali, o il pensiero come una macchina logica isomorfica rispetto alle macchine dei corpi fisici, in cui vigono solo rapporti di causalità efficiente. È ora evidente, nota Mach, che la materia fisica non potrà mai avere sensazioni, dato che, ad esempio, il comportamento di un cristallo è perfettamente spiegato in base a leggi fisico-chimiche, e anche se in esso comparissero le sensazioni, non avremmo alcun mezzo per accorgercene[19]. Noi ci poniamo invece il problema delle sensazioni e dei processi intellettivi superiori quando ci troviamo di fronte al comportamento di un animale al cui corpo organico, per essere conosciuto, dobbiamo inevitabilmente assegnare una certa psichicità e persino una soggettività, così come l’attribuiamo a noi in quanto esseri viventi[20].

Il secondo problema riguarda la stessa formazione dei concetti fisici propri della meccanica classica, i quali appaiono inevitabilmente modulati su dimensioni spaziali e temporali la cui univocità è stata falsificata dalle più recenti scoperte delle geometrie non euclidee e dagli sviluppi delle topologie algebriche e matematiche. Mach considera la geometria euclidea come un caso particolare di assiomatizzazione dello spazio fisico, finalizzato ai bisogni pratici dell’uomo secondo distanze e luoghi confinati a operazioni di manipolazioni di oggetti che si ritrovano nella propria quotidianità[21]. Inoltre, anche in questo spazio confinato, tali assiomi, vincolati all’isotropia e alle grandezze metriche, non corrispondono alle effettive dimensioni spaziali che si presentano nell’esperienza, in particolare alle relazioni tra le strutture dei corpi viventi e gli oggetti fisici. Infatti, il nostro spazio organico è essenzialmente anisotropo e, in alcuni suoi piani proiettivi, è dotato di una bassa simmetria, fino al limite del tutto asimmetrico del piano orizzontale che separa l’alto dal basso. Poiché il corpo organico fa parte del mondo fisico e vi sono molti oggetti inorganici – ad esempio i cristalli – che manifestano strutture tricline (cioè anisotrope e non tesserali, in quanto non si ripetono allo stesso modo in tutte le direzioni), occorrono concetti spaziali più ampi di quelli euclidei, in grado di ricomprendere queste diverse forme di congruenza[22].

Ma il problema più grave si rivela nel carattere metrico, che nella geometria euclidea regola le dimensioni di “prossimità”, “lontananza”, “vicinanza” e “appartenenza” di un certo spazio a un corpo[23]. Mach nota infatti che così come lo spazio sensibile ha un carattere topico, per cui noi avvertiamo la presenza di un corpo nel campo psichico – cioè la sua prossimità o appartenenza – senza ricorrere a misurazioni quantitative di distanze, allo stesso modo vi sono fenomeni fisici, ad esempio elettromagnetici e in generale dinamici, il cui ciò che conta è la forma continua del campo nel quale si struttura un “intorno” quasi-qualitativo rispetto a ogni punto interno[24]. Anche nello spazio fisico, dunque, si costituisce un certo “ambiente” relazionale che consente la localizzazione dei corpi e delle loro proprietà indipendentemente da predefiniti assiomi di coordinazione. In tal senso, lo spazio non può essere considerato come lo sfondo unico e omogeneo in cui si muovono tutti i corpi, poiché è proprio la forma locale (topologico-relazionale) della corporeità a definire le molteplici dimensioni della spazialità. Questa localizzazione funzionale esprime il vero significato della “relazione psicofisica”[25]. Considerando l’estensione della figura spaziale di un essere vivente, è possibile riscontrare che due luoghi del suo corpo possono essere geometricamente molto vicini ma giacere a un enorme “distanza funzionale”, come ad esempio l’unghia di un dito e i ricettori nervosi del polpastrello. Le medesime considerazioni possono svolgersi anche per la dimensione temporale, con l’avvertenza che, nel caso del tempo, le proprietà topico-funzionali riguardanti l’ordine e la direzione risultano ancor più evidenti, al punto da assimilare le relazioni di successione non a composizioni fisico-meccaniche, ma chimiche e, in particolare, cromatiche, in cui sorgono proprietà nuove e del tutto irriducibili semplici rapporti logico-matematici tra le parti[26]. Poiché nelle forme delle successioni non esistono “assiomi geometrici” temporali, ma solo proprietà topologiche, nel fenomeno del tempo il campo fisico e quello psichico giungono a contatto, fino a confondersi.

Se è vero che anche nello spazio un cambiamento d’ordine e di direzione determina corrispondenti cambiamenti nell’esperienza, bisogna tuttavia riconoscere che esistono strutture spaziali di tipo simmetrico, le quali rendono possibile la reversibilità e il confronto tra le parti, per cui i fenomeni spaziali mantengono un senso anche quando l’ordine viene mutato. Al contrario, nel tempo il cambiamento dell’ordine – ad esempio nella sequenza delle parole di un discorso, nei suoni di un brano musicale o nel passaggio di calore da un corpo più caldo a uno più freddo – può far sì che non vi siano più rapporti tra gli elementi, o che tali rapporti perdano ogni senso. Ciò è dovuto al fatto che «nel campo della periodicità, del ritmo e del tempo in generale non esiste alcuna simmetria», e «sebbene due battute musicali, riprodotte graficamente l’una accanto all’altra, possano presentarsi all’occhio e all’intelletto come simmetriche, esse non si rivelano simmetriche in riferimento alla sensazione di tempo»[27]. In ultima istanza, la nozione di tempo è da un lato fisiologicamente legata alla “consunzione organica” dell’essere vivente e, dall’altro, all’effetto psichico del “lavoro dell’attenzione”, il quale comporta che alcuni fenomeni, la cui origine fisico-meccanica è posteriore, appaiano come temporalmente anteriori: «Il chirurgo» – nota Mach riprendendo un esempio di Fechner[28] – «vede prima uscire il sangue e poi il bisturi incidere»[29]. Si tratta di una dimensione univoca che, essendo inscindibile struttura biologica del corpo vivente (nei macroprocessi del metabolismo, nella sequenza di uno stimolo nervoso, nel flusso sanguigno, ecc.), impronta di sé ogni concetto temporale, come emerge dal fatto che non sia la specifica qualità sensibile a determinare il ritmo della successione: «se a un suono A» – conclude Mach – «segue un colore o un odore B, si sa sempre che B è seguito ad A, indipendentemente dalla variazione della qualità»[30].

La critica machiana del meccanicismo, congiunta a una riformulazione della relazione psicofisica che respingeva ogni ricorso al parallelismo o all’armonia prestabilita, apriva così un nuovo fronte nell’indagine sulla corporeità, al cui centro si poneva non solo la fisiologia delle sensazioni, ma anche la “fisiologia” del mondo fisico, con le sue proprietà dinamiche e processuali. Nella sua Meccanica, Mach aveva messo in rilievo come già a livello fisico fosse impossibile individuare una grandezza assoluta – sia essa chiamata materia, forza o energia – che potesse fungere da sfondo uniforme dei fenomeni. Se una tale grandezza esistesse, ci troveremmo nella situazione per cui un numero n’ di equazioni, che esprimono le relazioni tra i corpi, sarebbe uguale al numero n–1 di grandezze, sicché con una sola grandezza si disporrebbe di tutte le altre. Ogni fenomeno si troverebbe su un’unica linea del mondo e il tempo potrebbe essere fatto scorrere all’indietro con un unico movimento[31]. L’affermazione meccanica della reversibilità del tempo – così come, secondo Mach, essa si presentava nella fisica probabilistica dei microprocessi sostenuta da Boltzmann – va dunque di pari passo con la negazione della molteplicità del mondo e dei suoi campi relazionali. D’altra parte, anche ammettendo, come vuole il meccanicismo, che il mondo sia come una macchina in cui il movimento di certe parti è determinato dal movimento di altre, si dovrebbe allora concludere che nulla si può determinare riguardo al movimento dell’intera macchina»[32]. Tutto ciò – come ora vedremo – trova riscontro nelle indagini di Uexküll intorno agli infiniti mondi degli esseri viventi.

 

  1. Uexküll: il fenomeno della vita

Negli anni in cui Mach stava concludendo la sua attività scientifica e filosofica (già nel 1898 aveva subito un colpo apoplettico che gli renderà sempre più difficile il lavoro di ricerca), il biologo estone Jakob von Uexküll dava alle stampe un volume dal titolo Umwelt und Innenwelt der Tiere (1909) in cui erano contenuti due termini, “ambiente” (Umwelt) e “mondo interno” (Innenwelt), destinati a rivoluzionare gli studi sulla natura e le forme degli esseri viventi[33]. Uexküll, che proveniva dalle indagini sulla fisiologia comparata del sistema nervoso, intendeva prendere le distanze sia dal meccanicismo, che vedeva negli animali dei sistemi più complessi rispetto alle strutture inorganiche, ma fondamentalmente sorretti dalle medesime relazioni causali, sia dal vitalismo, teso invece a cogliere nelle sostanze organiche proprietà emergenti irriducibili a relazioni che riguardano solo la “materia fisica” dei corpi viventi. Per Uexküll, l’animale non è un ente individuabile secondo coordinate spazio-temporali che definiscono i contorni di un insieme comune chiamato “natura”, ma un mondo in cui il suo corpo vivente si pone come soggetto, con le sue capacità di percezione e azione. Ogni animale vive nel proprio mondo-ambiente (Eigenwelt), un insieme chiuso rispetto agli altri mondi anche se a essi connesso[34]. In testo divulgativo pubblicato nel 1934, che riassume tutto il suo percorso[35], Uexküll nota come una farfalla e una lucertola, pur essendo nella stessa foresta, non vivano all’interno dello stesso mondo e, pur trovandosi l’una accanto all’altra, non si muovono secondo le medesime coordinate spazio-temporali. Esse si posizionano in universi differenti che possono interagire, ma rimangono separati. Similmente, le rane, in base alla loro struttura di rilevanza biologica, percepiranno il mondo in modo diverso dalle mosche, anche se ciò non impedisce loro di cibarsi di mosche[36]. Questi molteplici mondi chiusi non frammentano la realtà in parti, ma contengono sempre tutta la realtà secondo le prospettive fisiche, psichiche e fisiologiche che sono proprie di ciascun animale. Non vi è dunque uno scarto tra l’identificazione (l’appartenenza di un soggetto vivente a un mondo in base a certe proprietà) e l’individuazione (l’esistenza del soggetto nel suo mondo). Ogni relazione è interna e collettiva rispetto al mondo dell’animale, poiché le relazioni esterne e distributive dipendono solo dai criteri conoscitivi che il biologo adotta quando si appresta a indagare i molteplici mondi viventi. Ad esempio, la zecca reagisce a tre soli stimoli: quando la femmina gravida si posiziona su un ramo e attende il passaggio della preda, un primo stimolo olfattivo (l’acido butirrico emesso dai follicoli sebacei dei mammiferi) la induce a lasciarsi cadere; grazie a un organo sensibile alla temperatura si accorge se è caduta su un animale e, se ha avuto fortuna, attraverso il tatto si posiziona in uno spazio di pelle nuda conficcandosi fino alla testa, in modo da poter succhiare il sangue caldo. Una volta sazia, depone le uova, si distacca e muore[37]. Sebbene limitato in confronto al nostro, questo è un mondo a parte, con sue specifiche coordinate e tonalità. Dove la scienza classica vedeva un unico mondo, comprensivo di tutte le specie viventi disposte gerarchicamente, Uexküll pone un’infinita varietà di mondi percettivi ed effettuali che si escludono a vicenda.

Proprio in virtù dell’accento posto sulla soggettività dell’essere vivente, l’influenza delle indagini uexkülliane ha trasceso i confini della biologia, fino a toccare la fenomenologia, l’ermeneutica e la semiotica[38]. Nelle pagine iniziali della sua Biologia teoretica, Uexküll riconosce il grande merito dell’Estetica trascendentale kantiana nella ricerca delle condizioni di possibilità dell’esperienza sensibile, ma rifiuta con forza l’idea che tali condizioni vadano rintracciate in intuizioni spazio-temporali pure, come sfondo a priori di tutte le sensazioni. Anziché di “forme dell’intuizione”, si dovrebbe parlare di forme della sensazione, cioè di “qualità contenutistiche” (colori, suoni, odori, ecc.) che determinano i molteplici “spazi” e “tempi” in cui vivono gli animali, caratterizzando i loro mondi percettivi[39]. Uexküll adotta infatti una nuova teoria della percezione: essa non è più, kantianamente, sintetica, bensì selettiva. La selezione percettiva degli stimoli traccia i confini in cui gli oggetti si costituiscono all’interno dell’ambiente dell’animale, secondo uno schematismo strutturale che si presenta come un “circuito funzionale”, volto a indicare il continuo e incessante rimando tra ricezione dello stimolo (percezione) e risposta a esso (azione)[40]. Si tratta di sequenze temporali chiuse tra “caratteri percettivi” e “caratteri effettuali”, con una struttura vincolante sia nel numero dei possibili caratteri, sia nella loro forma. Ciò che si pone al di fuori di questo circuito, propriamente non esiste. Inoltre, se qualcosa entra nel circuito, si presenta come un fattore di modificazione potenzialmente destabilizzante, sicché subisce un processo di “annullamento” attraverso l’azione che si esprime in movimenti esterni e fisici (scontro, attacco, evitamento, fuga), oppure in processi interni e fisiologici (ingestione, assimilazione, metabolismo, morte)[41]. In senso biologico, dunque, l’oggetto è una controstruttura che rende possibile quell’insieme dinamico di movimenti e forze in cui la vita si costituisce[42]. Come tale, l’oggetto è il correlato necessario della soggettività animale.

Se è l’organismo a selezionare e codificare, in una precisa gerarchia di rilevanza e di urgenza, gli oggetti che lo circondano, allora esisteranno tanti “mondi percettivi e operativi” quanti sono gli ambienti propri che competono a ciascun essere vivente. Ognuno di essi costituisce un apriori biologico. Il mondo-ambiente, come insieme di tutto ciò che è rilevante per un determinato organismo, forma una sorta di possibilità complessiva: non è solo lo sfondo per i contenuti della percezione, ma anche la riserva totale da cui tali contenuti sono ricavati. Figurativamente, si possono tracciare cerchi concentrici sempre più ampi da cui l’animale attinge nello svolgimento della sua vita: quello puntiforme rappresentato dalla percezione attuale, quello dell’attenzione, dell’interesse e infine il cerchio dell’azione, che modifica il campo di forze dell’ambiente e pone le condizioni per nuovi processi[43]. Ciò detto, Uexküll affronta il problema del senso di realtà che si presenta nei mondi-ambiente degli esseri viventi. Se gli oggetti non sono dei “dati” comuni e predefiniti, come si costituiscono all’interno di questi diversi mondi? In secondo luogo, gli esseri viventi più complessi, con strutture percettive e operative più articolate, sono forse in grado di rispecchiare più fedelmente la realtà, dando a essa un senso più ricco e compiuto?

Alla prima questione, Uexküll risponde mediante il ricorso alla teoria dei “segni locali”, formulata alcuni anni prima da Rudolf Hermann Lotze e Ernst Heinrich Weber[44]. È evidente che, a causa della conformazione fisico-fisiologica del loro organismo, non tutti gli animali abbiano le stesse qualità contenutistiche (colori, suoni, sensazioni spaziali, temporali, ecc.). Alcuni di essi non “vedono” colori, ma avvertono solo ombre e luci, non “odono” suoni, ma sentono vibrazioni e pressioni. Ciò che è comune a tutti – anche agli uomini – è la presenza di segni (di posizione, di direzione, di movimento, di spazio e tempo) localizzati nel loro ambiente vitale. Non bisogna però fraintendere: quest’“interiorità” non definisce alcuna separazione tra un “interno” e un “esterno”. Anche se i segni possono manifestare una qualche somiglianza fisico-geometrica con il designato, essi non sono vissuti come qualcosa che indica qualcos’altro di veramente “reale”[45]. Dove c’è un occhio con una retina, i segni possono comporsi in modo da formare “immagini” simili a quelle che vediamo noi. Tuttavia, nel fenomeno della visione tali composizioni non hanno il carattere di un’immagine, ma della pura e semplice realtà. Allo stesso modo, i fiori che l’ape incontra nei suoi “dintorni” (Umgebung) sono cose fisiche che possono essere incontrate anche da altri animali, ma non sono ancora “oggetti” che fanno parte del suo “ambiente” (Umwelt). In quest’ultimo caso, le forme delle cose compaiono come segni che, in base alle funzioni percettive e operative dell’essere vivente, si organizzano in schemi utili alla sua sopravvivenza. Solo allora le cose diventano oggetti “portatori di un significato”[46]. Tali schemi, in quanto risultato dell’incontro tra le forme e le funzioni, indicano quelle stesse proprietà di struttura dei diversi campi biologici che abbiamo già riscontrato nel campo corporeo-psichico di Mach. «Le api» – nota Uexküll – «preferiscono posarsi su figure a struttura aperta, a forma di stella o di croce, mentre evitano oggetti di forma chiusa, come quadrati o cerchi. […] Se si colloca l’ape nel suo ambiente e, in base alla loro forma, si trasformano i fiori in stelle o croci, i boccioli assumeranno la forma chiusa di cerchi. Questi studi hanno ricondotto il problema della forma a una formula estremamente semplice. Basta infatti supporre che le cellule che nell’organo sensoriale percepiscono i segni locali siano articolate in due gruppi: uno per lo schema “aperto”, l’altro per lo schema “chiuso”»[47].

Su queste basi, Uexküll affronta la seconda questione – connessa anche al problema dell’evoluzione – relativa al “grado di sviluppo” dei mondi animali e se essi possano, in senso proprio, essere chiamati “mondi”. Nello scritto sui Concetti fondamentali della metafisica, richiamandosi direttamente ai circuiti funzionali uexkülliani, Heidegger opera una netta distinzione tra il mondo umano, caratterizzato dall’“apertura del senso”, e l’ambiente dell’animale, vincolato invece alla “chiusura dell’istinto”. In quanto “assorbito” nell’oggetto e incapace di “porsi di fronte” a esso, l’animale sarebbe povero o, meglio, “privato” del mondo, quindi il suo ambiente non sarà mai un autentico mondo[48]. È però evidente come tale distinzione si fondi su un’assunzione di principio, derivante dallo scambio tra un giudizio di valore (una valutazione) e la relazione al valore, che è invece la prospettiva da cui muove Uexküll[49]. Nel fenomeno biologico non possiamo trovare alcun criterio per decidere se un mondo sia più ricco, più povero o addirittura assente e, d’altra parte, la “chiusura ambientale” dell’animale non è affatto il segno della presenza esclusiva di vincoli meccanici e deterministici. Anche nell’animale, accanto a un tempo meccanico, ripetitivo e fondato sulla causalità efficiente, possiamo riscontrare un tempo di durata, non ripetitivo e finalizzato, in quanto connesso a uno specifico “piano costruttivo” (Bauplan) che regola tutta la sua vita[50]. Se diciamo che ciò che rende l’ambiente vitale dell’uomo un “mondo” è la coscienza della propria condizione e del suo rapporto con gli altri e con le cose, allora dimentichiamo – come aveva già osservato Mach[51] – che non esiste un confine netto tra un comportamento istintivo, inconsapevole, determinato, e la coscienza da cui dipendono la scelta e il progetto: anche i concetti umani possono essere intesi come reazioni dell’uomo alle esperienze che si costituiscono nel suo ambiente e che si rivelano più utili e favorevoli alla vita[52].

In tal senso, per Uexküll non si può parlare di un progressivo “adattamento” (Anpassung) dell’animale a un ambiente estraneo che lo circonda. Un animale è “perfetto” perché non “migliora” mai nulla della sua vita nel suo rapporto con la natura; esso anzi sfrutta sempre tutti i mezzi a sua disposizione per vivere. Ogni animale è dunque completamente integrato o “perfettamente aggiustato” (eingepasst) rispetto al suo ambiente[53]. Se consideriamo lo sviluppo ontogenetico dell’animale, dalla cellula all’individuo adulto, notiamo come a una maggiore differenziazione della struttura corrisponda una sempre più elevata semplificazione delle funzioni: ogni sua parte si specializza in un ben determinato compito, e quanto più è specializzata e univoca tanto meno è sostituibile dalle altre. Solo a livello della specie riscontriamo un’evoluzione[54], ma dal momento che una specie nuova nasce quando si spezza la sua continuità con le altre grazie alla riorganizzazione e all’intervento di altri piani costruttivi e di circuiti funzionali inediti, non è possibile, a rigor di termini, parlare di una maggiore o minore “evoluzione” mediante un’unica scala graduale intensiva e continua, ma solo di una diversa complessità.

Le specie si succedono come “figure” in uno sfondo temporale che non ha alcuna consistenza ontologica. Infatti, come lo spazio, anche il tempo è localizzato, è quel “momento” che Karl Ernst von Baer aveva individuato come proprio di ciascun animale e che l’astronomo Friedrich Wilhelm Bessel aveva indicato come la “variabile personale” di ogni osservatore degli eventi fisici[55]. L’“evoluzione” esprime dunque solo la capacità dello scienziato di tener insieme, comparativamente, diverse figure del mondo. Egli può svolgere questo compito attraverso un’analogia di proporzionalità che gli consente d’introdurre un criterio d’identità genetico, fondato su relazioni esterne e discrete. Il tempo diventa allora una scala comune, in cui ogni tratto indica uno stadio evolutivo. In tal modo, come ha osservato Blumenberg[56], il tempo della vita si trasforma nel tempo di un mondo che si avvale di simboli “leggibili”. I cerchi e le croci che l’animale incontra nel suo mondo non rappresentano solo i segni che l’osservatore sostituisce a significati inaccessibili, ma sono anche quei testi che il mondo estraneo dell’osservatore, traendoli da sé, aggiunge al primo per rendere significativo ciò che non gli appartiene. Questo mondo simbolico è una realtà fenomenica come le altre, esso risponde a certi bisogni della vita e, per quanto si occupi di fenomeni “soggettivi” e abbia al suo centro il soggetto umano, non vi è ragione per ritenerlo, nella sua struttura biologica, un patrimonio esclusivo dell’uomo e della sua coscienza.


[1] E. Mach, L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico (1886, 19229), tr. it. Feltrinelli, Milano 1975, p. 50.

[2] Id., Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca (1905, 19265), tr. it. Einaudi, Torino 1982, p. 7.

[3] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 37; Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 10. Si veda, a tal riguardo, S. Gulì, Elementi, sensazioni e connessioni funzionali. La filosofia naturale di Mach, Unicopli, Milano 2007.

[4] E. Mach, L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 69; Id., La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro (1872), tr. it. in Scienza tra storia e critica, Polimetrica, Monza 2005, pp. 41-111, in particolare pp. 93 sgg.

[5] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., pp. 47, 68, 271.

[6] Si veda, a questo proposito, F. Adler, Ernst Mach e il materialismo (1918), tr. it. Armando, Roma 1978, pp. 68 sgg.; E.C. Banks, The Realistic Empiricism of Mach, James, and Russell. Neutral monism reconceived, Cambridge University Press, Cambridge 2014.

[7] E. Mach, L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 67.

[8] Id., Die Prinzipien der Wärmelehre. Historisch-kritisch entwickelt, Barth, Leipzig 1896, 19002; Neudruck, xenomoi, Berlin 2016, pp. 57-59.

[9] Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 11; Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 49.

[10] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., pp. 270-271; Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 139.

[11] Id., Conoscenza ed errore…, cit., pp. 55, 66.

[12] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 64.

[13] Ibid., p. 43 nota.

[14] E. Mach, Conoscenza ed errore…, cit., p. 8.

[15] Si vedano, a tal riguardo, le osservazioni di A. Pap, Introduzione alla filosofia della scienza (1962), tr. it. Il Mulino, Bologna 1967, p. 199.

[16] W. Wundt, Die physikalischen Axiome und ihre Beziehung zum Causalprincip. Ein Capitel aus einer Philosophie der Naturwissenschaften, Enke, Erlangen 1866, pp. 6 sgg.

[17] E. Mach, La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, cit., pp. 68, 76.

[18] Id., La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883, 19127), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 235-240.

[19] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., pp. 219-220.

[20] Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 71.

[21] Ibid., pp. 359 sgg.

[22] E. Mach, L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 119; Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 340.

[23] Id., Conoscenza ed errore…, cit., pp. 331, 337, 377.

[24] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 53; Id., Conoscenza ed errore…, cit., p. 334.

[25] Id., L’analisi delle sensazioni…, cit., pp. 80-81.

[26] Ibid., pp. 221, 258-261.

[27] Ibid., p. 229.

[28] G.Th. Fechner, Elemente der Psychophysik, Breitkopf und Härtel, Leipzig 1860, Bd. II, p. 433.

[29] E. Mach, L’analisi delle sensazioni…, cit., p. 225.

[30] Ibid., p. 223.

[31] E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, cit., p. 242.

[32] Id., La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, cit., p. 87.

[33] J. von Uexkull, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin 1909.

[34] Si veda, a tal riguardo, K. Friederichs, Über den Begri der Umwelt in der Biologie, in «Acta Biotheoretica» 7, 1943, pp. 147-162, in particolare p. 147.

[35] J. von Uexkull, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili (1934), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[36] Ibid., pp. 96 sgg.

[37] Ibid., pp. 41-43.

[38] Th.A. Sebeok, Il segno e i suoi maestri (1979), tr. it. Adriatica, Bari 1985, pp. 46-50 e 231-255; H. Chang, Semiotician or Hermeneutician? Jakob von Uexküll Revisited, in «Sign Systems Studies», 32, 1/2, 2004, pp. 120 sgg.

[39] J. von Uexkull, Biologia teoretica (1920, 19282), tr. it. Quodlibet, Macerata 2015, pp. 75 sgg.

[40] Ibid., p. 125.

[41] Il matematico René Thom riprenderà tale modello in relazione allo “spazio delle forme” e allo “spazio funzionale”. Cfr. R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli (1972, 19772), tr. it. Einaudi, Torino 1980, pp. XXXIII e 166.

[42] J. von Uexkull, Biologia teoretica, cit., pp. 166-167.

[43] Ibid., pp. 238-245.

[44] Ibid., pp. 12-14. Cfr. E.H. Weber, Tastsinn und Gemeingefühl, in R. Wagner, Handwörterbuch der Physiologie, Bd. III, 2, Vieweg, Braunschweig 1846, pp. 524 sgg.; R.H. Lotze, Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell’umanità (1856), tr. it. UTET, Torino 1988, pp. 243 sgg.

[45] Quest’aspetto, che accomuna Uexküll e Mach, verrà sviluppato nelle indagini della Gestaltpsychologie. Si veda, ad esempio, W. Metzger, I fondamenti della psicologia della gestalt (1941, 19633), tr. it. Giunti-Barbèra, Firenze 1971, p. 21.

[46] J. von Uexküll, Bedeutungslehre, Barth, Leipzig 1940.

[47] J. von Uexkull, Ambienti animali e ambienti umani…, cit., p. 95 (tr. modificata).

[48] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine (1929-1930), tr. it. il melangolo, Genova 1992, pp. 240 sgg.

[49] Riguardo alla prospettiva heideggeriana, che implica l’adozione di un’analogia attributiva, ci permettiamo di rimandare a L. Guidetti, La Biologia teoretica di Jakob von Uexküll, in J. von Uexküll, Biologia teoretica, cit., pp. IX-LVI, in particolare pp. XLIV-XLVI.

[50] J. von Uexkull, Biologia teoretica, cit., pp. 70-72.

[51] E. Mach, Conoscenza ed errore…, cit., pp. 26-28.

[52] Ibid., p. 131.

[53] J. von Uexkull, Biologia teoretica, cit., pp. 251-257.

[54] Ibid., pp. 225-229.

[55] Ibid., pp. 57 e 64. Cfr. K.E. von Baer, Welche Auffassung der lebenden Natur ist die richtige? Und wie ist diese Auffassung auf die Entomologie anzuwenden?, in Reden gehalten in wissenschaftlichen Versammlungen und kleinere Aufsätze vermischten Inhalts, Schmittsdorf, St. Petersburg 1864, pp. 237-284; F.W. Bessel, Astronomische Beobachtungen auf der Königlichen Universitäts-Sternwarte in Königsberg. 8. Abteilung vom 1. Januar bis 31. December 1822, Königsberg 1823, pp. III-VIII.

[56] H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo (1986), tr. it. il Mulino, Bologna 1996, pp. 280-283 e 297. A tal riguardo, cfr. S. Tedesco, Forme viventi. Antropologia ed estetica dell’espressione, Mimesis, Milano 2008, pp. 37 sgg.

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