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Tra persuasione e cambiamento. Considerazioni sulla terapia strategica di Paul Watzlawick

Autore


Anna Baldini

Anna Baldini specializzata in Filosofia, Politica e Comunicazione, è giornalista pubblicista e redattrice

Indice



  1. Immagine del mondo e cambiamento
  2. L’arte della persuasione
  3. Esistenza e comunicazione

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S&F_n. 08_2012

Abstract



The purpose of this article is to provide an overview of the role played by persuasion in the therapeutic practice of Paul Watzlawick. This analysis will deal with the two different ways of thinking described by the author: the analytical one and the imaginative one. They are referable to the activity of the left and the right cerebral hemisphere, respectively.

Based on this distinction, we will illustrate the distinctive features of the therapeutic approach proposed by the author, which focuses on the imaginative language typical of the right hemisphere. Actually Watzlawick trace the construction of any individual world views back to the right hemisphere, which has a creative nature. Therefore he argues that we must act within this horizon to produce the change of perspective that is the prerequisite for the success of any therapy. The present work is divided into three parts. Watzlawick’s remarks on the problem of therapeutic change are illustrated at first. In the second paragraph, the persuasive method used by the author is introduced, by paying special attention to the ethical issues that it has raised. The article closes with an analysis of Watzlawick’s observations on human existence, by drawing a comparison between his approach and the psychotherapy based on existential communication outlined by Karl Jaspers.

 


  1. Immagine del mondo e cambiamento

«Quello che tu semini non è vivificato se prima non muore»[1]. In questo messaggio, rivolto da San Paolo ai Corinzi e ripreso in ulteriori passi biblici, l’idea della trasformazione s’impone su una concezione che vede il perire come fine di tutto. Solo attraversando la morte, un chicco di grano può superare se stesso, producendo gli auspicati frutti[2].

Scenari inquietanti ricorrono in riferimento alla fine del mondo. Il caos si presenta come il segnale precursore di un annichilimento totale. La fine si pone come un’immagine archetipica, che terrorizza l’individuo singolo così come la collettività. Rivolgendo, però, l’attenzione alla parola “apocalisse”, scopriamo nella sua radice etimologica ben altro significato, che alla distruzione oppone la rivelazione. Il crollo di una realtà creduta immutabile diventa la via d’accesso a una più alta consapevolezza e offre le risorse necessarie a un radicale rinnovamento.

Obiettivo di ogni processo psicoterapeutico, il cambiamento, col relativo superamento delle resistenze che cercano di impedirlo, costituisce il fulcro del pensiero di Paul Watzlawick. In tutta l’opera del filosofo austriaco il concetto di trasformazione risulta legato a doppio filo con quello di immagine del mondo. «Chi viene a cercare aiuto da noi soffre in qualche maniera del suo rapporto con il mondo»[3], dichiara Watzlawick. Oggetto della sofferenza psicologica del paziente è, in particolare, «la contraddizione irrisolta tra il modo in cui le cose sono e come, secondo la sua immagine del mondo, dovrebbero essere»[4] (corsivo dell’autore).

Di fronte al disagio che paralizza l’intero svolgimento della sua esistenza, il paziente ha a disposizione due alternative: intervenire sul proprio ambiente, cercando di riportarlo all’immagine che si è formato di esso, oppure cambiare la sua stessa immagine del mondo. È proprio questa seconda alternativa il vero obiettivo di un autentico processo di trasformazione terapeutica[5].

La distinzione tra le due possibilità di azione che si prospettano al paziente solleva la questione del rapporto tra persistenza e cambiamento, che solo in apparenza risultano distanti. L’autore offre una chiara illustrazione del problema in Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi[6], scritto in collaborazione con John H. Weakland e Richard Fisch. Le considerazioni degli autori circa il rapporto tra persistenza e cambiamento trovano un punto di partenza teorico nel campo della matematica, con la teoria dei gruppi di Evariste Galois e con la teoria dei tipi logici, formulata da Whitehead e Russell[7].

Dagli scritti del giovane Galois si evince che il gruppo è definito da una caratteristica condivisa da tutti i suoi elementi. Per quanto questi possano variare, nel momento in cui permane l’elemento d’identità, il gruppo stesso resta inalterato. Il cambiamento illustrato nella teoria dei gruppi ha luogo all’interno del sistema, senza consentire di trascenderlo. Ben diversa è la situazione prospettata dalla teoria dei tipi logici. Quest’ultima pone una distinzione tra gli elementi e la classe di cui essi fanno parte, attraverso il seguente assioma: «qualunque cosa presupponga tutti gli elementi della collezione non deve essere un termine della collezione»[8].

La distinzione qui posta in essere fa sì che il cambiamento della classe implichi un salto rispetto al livello logico degli elementi. Combinando i risultati delle due teorie in questione, Watzlawick mostra che «ci sono due tipi diversi di cambiamento: uno che si verifica dentro un dato sistema, il quale resta immutato, mentre l’altro – quando si verifica – cambia il sistema stesso»[9]. Se nella prima forma si resta invischiati in un cambiamento senza fine, per cui «più si cambiano, più le cose restano come sono»[10], solo col secondo tipo di cambiamento, che riguarda il sistema stesso, nel nostro caso l’intera immagine del mondo e non più i singoli eventi che hanno luogo in virtù di essa, si può conseguire un’autentica trasformazione.

La possibilità stessa di un mutamento dell’immagine del mondo svela il suo carattere soggettivo[11]. Prendendo le distanze dal realismo metafisico, che intende la conoscenza come un adeguamento alla realtà ontologica, Watzlawick, in linea col costruttivismo, presenta il sapere come la libera creazione di un’unità di significato capace di dare ordine e ripetibilità al flusso delle esperienze individuali[12].

Un chiaro esempio di come la realtà sia frutto di una costruzione è offerto dalla profezia che si autodetermina. Con essa «un avvenimento non ancora verificatosi (quindi futuro) ha prodotto effetti nel presente […] che a loro volta hanno fatto sì che quell’avvenimento diventasse realtà. In questa circostanza è quindi stato il futuro – e non il passato – a determinare il presente»[13]. Il carattere creativo, quasi magico, di tali profezie[14] svela l’insufficienza del tradizionale nesso causale, facendo crollare la fede nell’oggettività del reale. Si rivela proprio in questo punto una delle conseguenze più evidenti del pensiero costruttivista, il quale «porta infallibilmente a rendere responsabile l’uomo pensante, e lui solo, del suo pensiero, della sua conoscenza e, conseguentemente anche delle sue azioni»[15].

La possibilità di agire sull’ambiente circostante porta a distogliere l’attenzione dai processi intrapsichici, a cui per lungo tempo la psicoanalisi ha attribuito un’importanza primaria, per rivolgere lo sguardo a quella che già un tempo Wilhelm Dilthey definì struttura della vita psichica, che è «la forma della nostra stessa vita cosciente: il rapporto tra il sé e il mondo degli oggetti»[16]. Tale relazione non è statica, bensì va incontro a un progressivo sviluppo, grazie all’interazione continua tra l’individuo e il suo ambiente.

Il rapporto circolare che sussiste tra l’individuo e il mondo costituisce un punto cruciale di una nuova epistemologia, la cibernetica, la quale, afferma Watzlawick, consente di «osservare in modo davvero nuovo e illuminante il funzionamento dei sistemi d’interazione assai complessi esistenti in biologia, psicologia, sociologia, economia e in altri campi»[17]. Adottando la prospettiva cibernetica, l’attenzione si sposta dal concetto di energia a quello di informazione e di comunicazione. Sappiamo che, in quanto sistemi aperti, gli individui scambiano continuamente materiali e informazioni con l’ambiente circostante. La dinamica di questo scambio è regolata da un meccanismo di retroazione, o feedback. La retroazione può essere negativa o positiva. Se la prima è finalizzata a mantenere una situazione di stasi, la seconda, portando a una rottura dell’equilibrio e a una relativa condizione di caos, si pone come il motore del cambiamento. Watzlawick sottolinea, a tal proposito, che «nuove forme di ordine possono determinarsi solo laddove sussista un certo grado di disordine»[18], affermazione che trova conferma negli studi condotti nelle discipline più eterogenee. Rivolgendo, ad esempio, lo sguardo alla chimica, in particolare agli studi sulle strutture dissipative condotti da Ilya Prigogine, possiamo evincere uno «stretto legame tra auto-organizzazione e distanza dall’equilibrio»[19]. Tale condizione si configura come un «caos fecondo»[20], da cui hanno modo di emergere nuove forme a elevata complessità. Nella distanza dall’equilibrio, il sistema diventa sensibile alle informazioni provenienti dal suo ambiente e può scegliere più di un futuro, lasciando spazio alla creatività, che conferisce alla sua evoluzione il carattere di uno sviluppo storico. Quest’ultimo avviene per salti, alternando fasi di equilibrio, in cui prevale la dinamica del feedback negativo, a fasi di disequilibrio creativo, in cui ogni minima fluttuazione può avviare l’intero sistema verso un ordine di maggiore complessità. Muovendo da tali risultati, Prigogine afferma che «la parola chiave, dalla chimica alla neurofisiologia, diventa comunicare»[21].

La tensione tra conservazione e trasformazione entro cui si dà l’evoluzione del sistema si palesa in altri campi oltre alla chimica. Ritornando al nostro autore, osserviamo come egli ritrovi questa polarità in riferimento alla specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali[22]. L’emisfero destro è deputato alla traduzione dell’esperienza in immagini, assumendo una funzione creativa, mentre all’emisfero sinistro è attribuita l’analisi razionale dei vissuti, che assicura la ripetibilità delle esperienze e la permanenza, nel tempo, di una immagine del mondo.

In base alle loro diverse funzioni, i due emisferi fanno ricorso a due diversi tipi di linguaggi. Il linguaggio proprio dell’emisfero destro è per sua natura arcaico, assimilabile a quelle forme di espressione evocative, quali la metafora, il sogno, la musica, la poesia. Il linguaggio proprio dell’emisfero sinistro, invece, è analitico, logico, discorsivo.

In condizioni normali, i due emisferi, con i loro rispettivi linguaggi sono ben integrati, assicurando una visione unitaria e coerente del mondo. Quando sono in conflitto, invece, essi agiscono come funzionalmente separati[23].

Dalle caratteristiche dei due emisferi risulta evidente che «la traduzione della realtà percepita in una Gestalt, questo raccogliere l’esperienza del mondo in un’immagine, è indubbiamente la funzione dell’emisfero destro»[24]. Da ciò deriva che l’intervento terapeutico può auspicare a un cambiamento autentico soltanto ricorrendo al linguaggio proprio dell’emisfero destro e non a una spiegazione razionale. L’approccio terapeutico proposto da Watzlawick, che si caratterizza per la sua breve durata ed è finalizzato a una trasformazione della visione del mondo del paziente, esclude la domanda sul perché, quesito su cui invece si sofferma la psicologia del profondo. Piuttosto che ricercare e tradurre in forma di linguaggio razionale le cause del disagio psichico del paziente, la terapia strategica propone un intervento attivo finalizzato a ristrutturare, qui e ora, quella visione del mondo che di per sé genera sofferenza[25].

 

  1. L’arte della persuasione

L’idea che si possa esercitare, seppure a fini terapeutici, qualche forma di manipolazione su un altro individuo, genera non poche perplessità. La terapia strategica delineata da Watzlawick non sfugge a questo tipo di critiche. L’autore ne è consapevole e non manca di rispondere. Innanzitutto, egli fa notare che «dietro a questa presa di posizione sta la credenza cieca nell’utopia che la convivenza umana sia possibile senza che gli individui esercitino l’uno sull’altro una qualsiasi influenza»[26]. Contro questa opinione, può essere fatto notare come la comunicazione abbia sempre un aspetto pragmatico, riguardante l’influenza che la comunicazione esercita sul comportamento proprio e altrui[27]. Ogni atto comunicativo è di per sé un comportamento. Anche chiudendosi nel silenzio e nell’immobilità assoluta, non si può fare a meno di trasmettere un messaggio, precisamente la propria intenzione a non comunicare e a non agire. L’impossibilità di un non-comportamento consente a Watzlawick di dedurre che «non si può non comunicare»[28].

Il fatto stesso che la comunicazione sia un dato ineliminabile nelle relazioni interindividuali esclude la possibilità di non esercitare un’influenza reciproca: «tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è comunicazione e tutta la comunicazione – compresi i segni del contesto interpersonale – influenza il comportamento»[29], afferma l’autore. Tenuto conto, dunque, che «non è possibile non influenzare (…) ci rimane solo da decidere, e non ne siamo mai dispensati, come questa legge fondamentale della comunicazione umana possa essere usata nel modo più responsabile, umano, eticamente corretto ed efficace»[30].

L’approccio terapeutico delineato da Watzlawick mira a superare una condizione di disagio generata dal peculiare rapporto del paziente col mondo e con gli altri. Alla base della psicopatologia vi è, secondo la teoria della comunicazione, uno schema interattivo distorto. Ciò risulta ancor più chiaro nella misura in cui si tiene conto del fatto che la comunicazione ha in sé due aspetti, uno di contenuto e uno di relazione[31]. Il primo, espresso generalmente con il linguaggio razionale, fa riferimento al messaggio effettivo trasmesso, il secondo, invece, concorre a definire il tipo di relazione che vede coinvolti i due partecipanti allo scambio comunicativo. Classificando il messaggio stesso e definendo il contesto entro cui esso ha valore, il secondo aspetto della comunicazione si pone su un piano d’astrazione superiore[32]. Non sempre i due aspetti si conciliano, né tantomeno vengono osservati sempre i diversi livelli di astrazione cui essi fanno capo. Talvolta può aver luogo una contraddizione tale da generare un conflitto.

«Là dove il paradosso contamina i rapporti umani», dichiara Watzlawick, «compare la malattia»[33]. I messaggi contraddittori che arrivano all’individuo gli precludono qualsiasi via d’uscita, bloccandolo in una condizione che Gregory Bateson ha definito per primo doppio vincolo. In Verso una teoria della schizofrenia[34], il filosofo di Palo Alto illustra la genesi di tale condizione, riconducendola a tre presupposti fondamentali: il sussistere di una relazione caratterizzata da un forte coinvolgimento emotivo, come quella familiare; l’emissione di due messaggi contraddittori da parte di uno dei comunicanti; l’impossibilità da parte del ricevente di analizzare la natura dei messaggi, ossia di metacomunicare[35]. Là dove l’esposizione a messaggi paradossali è prolungata, il soggetto diventa incapace di distinguere i loro diversi livelli di astrazione. «Il bambino cresce senza sviluppare la sua capacità di comunicare sulla comunicazione»[36], trovandosi, da adulto, ad appiattire tutte le interazioni a un unico livello logico. In tal senso la psicopatologia si pone come l’estremo tentativo di convivere con una contraddizione irrisolvibile.

Così come genera disagio, il paradosso può, tuttavia, essere utilizzato anche a fini terapeutici. Per il principio secondo cui «similis similia curantur»[37], il ricorso a una comunicazione paradossale col paziente può contribuire a rompere quel circolo vizioso in cui quest’ultimo si trova invischiato. Pian piano l’individuo acquista consapevolezza della trappola logica che lo tiene paralizzato, imparando, così, a metacomunicare.

Nel corso delle sue opere, Watzlawick illustra una lunga serie di espedienti comunicativi finalizzati a riavviare questa condizione di paralisi. Naturalmente, essi non hanno una validità universale. Watzlawick rimanda l’efficacia di ciascuna comunicazione alla situazione particolare, nonché alla sensibilità e al talento di ciascun terapeuta, pur sottolineando l’importanza di esercitarsi in tale forma linguistica[38]. Diversamente dalla procedura tradizionale dell’insight, che si sofferma su spiegazioni razionali e di lunga durata relative alle cause del disagio, tale forma di comunicazione fa leva sulle stesse regole che strutturano il mondo del paziente, utilizzandole per condurlo fuori da tale cornice.

Prendendo le distanze dal miraggio di poter risolvere tutti i problemi del paziente, l’intervento terapeutico proposto da Watzlawick mira a piccoli cambiamenti, che a loro volta ne innescheranno spontaneamente altri. La prassi terapeutica lascerà sempre un «residuo irrisolto»[39], tuttavia col conseguimento di un piccolo obiettivo concreto, concordato durante le sedute, «all’interessato si apre la possibilità di superare da sé ciò che il terapeuta sembra ritenere possibile. Così egli lascia il trattamento con una maggiore fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi futuri e una minore dipendenza dalle stampelle della terapia»[40].

La peculiare forma d’influenza esercitata da tale approccio è, dunque, limitata a mostrare al paziente una via d’uscita. A quest’ultimo spetta la decisione di varcare la soglia, in virtù della sua nuova consapevolezza. Solo in tal modo egli potrà riconciliarsi con la propria libertà e riprendere in mano la responsabilità rispetto al proprio mondo e al dispiegamento della sua stessa storia di vita.

 

  1. Esistenza e comunicazione

Da quanto finora esposto emerge che il senso profondo del procedimento terapeutico di Watzlawick consiste nel restituire al paziente la libertà di dare un senso al suo mondo. In questo punto le riflessioni dell’autore si spostano dal piano interpersonale a quello esistenziale, conducendolo a sostenere, a conclusione della sua Pragmatica della comunicazione umana, l’idea che «il rapporto che l’uomo ha con la vita sia ampio, complesso e, soprattutto, personale»[41].

L’autore sottolinea la differenza di prospettiva tra l’approccio pragmatico da lui delineato, che guarda ai rapporti sociali da un punto di vista oggettivo, e la riflessione sull’esistenza, che fa i conti, invece, con l’interiorità della vita psichica. Egli, tuttavia, lascia aperta la domanda relativa alla conciliabilità dei due orizzonti.

Watzlawick individua un punto di connessione col pensiero esistenzialista nella riflessione sui diversi gradi in cui si dà la conoscenza. Il nostro rapporto con il mondo si traduce, a un primo livello, in una conoscenza delle cose, costituita dall’esperienza sensibile. Spostandoci verso un ordine superiore, troviamo una conoscenza sulle cose, riguardante il significato che esse assumono per la nostra sopravvivenza[42]. Il processo di astrazione non si ferma qui e «dalla somma totale dei significati che (l’uomo) ha dedotto dai contatti con numerosi oggetti singoli del suo ambiente si sviluppa una visione unitaria del mondo […] e questa visione è di terzo ordine»[43]. L’autore prosegue affermando che «i filosofi esistenzialisti presuppongono una relazione molto simile tra l’uomo e la sua realtà: essi concepiscono l’uomo come un essere gettato in un mondo opaco, privo di forma e di significato, da cui è l’uomo stesso a creare la sua situazione»[44].

L’intervento terapeutico si concentra proprio sulle premesse che strutturano quest’ultimo livello di conoscenza. Il cambiamento auspicato presuppone, però, l’accesso a un quarto ordine, che consente una visione dall’esterno della propria immagine del mondo. In questa sede, che si pone ai limiti della comprensione umana, «si può vedere che la realtà non è qualcosa di oggettivo […] ma che è costituita dall’esperienza soggettiva che ci facciamo dell’esistenza»[45]. Il paziente diventa consapevole che la propria immagine del mondo non è immutabile, che ha modo di rimodellarne la struttura.

L’approccio proposto da Watzlawick presenta, dunque, un duplice livello: uno interpersonale, o situazionale, che coincide con la comunicazione terapeutica, l’altro, esistenziale, che si dà nei termini di un’autocomprensione dell’individuo.

L’interazione col medico dischiude al paziente la possibilità di una chiarificazione di sé che può avvenire soltanto attraverso lo scambio comunicativo. La conclusione cui siamo stati condotti a questo punto ci riporta alle pagine che Karl Jaspers dedica alla comunicazione. «Io sono solo se sono in comunicazione con l’altro»[46] dichiara lo psichiatra e filosofo tedesco. Acquisisco consapevolezza di me solo in una relazione che conduce a un riconoscimento reciproco. Il fatto che la verità su me stesso vale solo con e attraverso l’altro mette di fronte alla portata esistenziale della comunicazione.

Pur declinandosi nella particolarità dei rapporti sociali, di cui la relazione medico-paziente è un esempio, la comunicazione esistenziale trascende la contingenza della situazione oggettiva, ponendosi come il terreno d’incontro di due esistenze parimenti libere, che nel confronto reciproco si creano a vicenda. Tale confronto assume, per Jaspers, la caratterizzazione di una lotta. Il conflitto, tuttavia, non viene affrontato «con intenti di potenza, ma per cimentare interiormente se stessi e l’altro fino a raggiungere una trasparenza assoluta e a pervenire alla conquista del sé»[47].

Il confronto reciproco che ha luogo nella comunicazione esistenziale dà un senso nuovo al rapporto tra medico e paziente. Trascendendo continuamente la particolarità della situazione terapeutica, il soggetto ha modo di intraprendere con l’esistenza del medico una lotta per la chiarificazione di sé. Da tali considerazioni Jaspers conclude che «l’evento finale e decisivo nel malato si può chiamare rivelazione»[48]. Attraversando il percorso terapeutico e lottando con l’esistenza del medico, infatti, questi perviene alla consapevolezza del senso della propria esistenza e, attraverso questa, si riconcilia con la sua libertà originaria, assumendo responsabilmente il corso della propria vita.

La relazione dialettica prospettata dalla comunicazione esistenziale non trova un riscontro nella riflessione di Watzlawick. Pur riconoscendo la portata esistenziale del proprio discorso, le considerazioni dell’autore relative alla comunicazione si fermano al livello fattuale, dove ha senso un intervento persuasivo esercitato dal medico in virtù del proprio ruolo. Il diverso piano logico entro cui si danno la riflessione di Jaspers e l’approccio pragmatico di Watzlawick esclude la possibilità di un confronto metodologico. Che l’intervento persuasivo proposto dalla terapia strategica possa in qualche modo porsi in linea con la relazione dialettica che si pone sul piano esistenziale, rimane una questione aperta. Resta, tuttavia, indubbio il riconoscimento da parte di Watzlawick dell’originaria libertà dell’uomo, il quale si palesa nel suo stesso approccio terapeutico che, in virtù della sua configurazione e della sua brevità, lascia al paziente l’inalienabile diritto di ricreare da sé il senso della propria esistenza.


[1] Corinzi 15:36.

[2] Giovanni 12,24.

[3] P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica, tr. it. Feltrinelli, Milano 2011, p. 45.

[4] Ibid.

[5] Ibid., p. 46.

[6] P. Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, tr. it. Astrolabio, Roma 1974.

[7] Ibid., pp. 19-28.

[8] Ibid., p. 23.

[9] Ibid., p. 27.

[10] Ibid., p. 19.

[11] Ibid., p. 47.

[12] E. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in La realtà inventata, a cura di P. Watzlawick, tr. it. Feltrinelli, Milano 2010, p. 23.

[13] P. Watzlawick, Le profezie che si autodeterminano, ibid., p. 88.

[14] Id., Istruzioni per rendersi infelici, tr. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 47-50.

[15] E. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, cit., p. 17.

[16] W. Dilthey, Psicologia descrittiva, analitica e comparativa, tr. it. Unicopli, Milano 1979, p. 223.

[17] P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, tr. it. Astrolabio, Roma 1971, p. 23.

[18] Id., Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico, tr. it. Feltrinelli, Milano 2005, p. 67.

[19] I. Prigogine, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 146.

[20] Ibid., p. 172.

[21] Ibid., p. 152.

[22] P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, cit., p. 27.

[23] Ibid., p. 39.

[24] Ibid., p. 50.

[25] Ibid., p. 51-52.

[26] Ibid., p. 17.

[27] P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, cit., p. 15.

[28] Ibid., p. 42.

[29] Ibid., p. 16.

[30] Id., Il linguaggio del cambiamento, cit., p. 18.

[31] Id., Pragmatica della comunicazione umana, cit., p. 56.

[32] Ibid., p. 47.

[33] Ibid., p. 198.

[34] G. Bateson, Verso una teoria della schizofrenia, in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano 1976, pp. 144 – 274.

[35] Ibid., p. 252

[36] Ibid., p. 261.

[37] P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, cit., p. 76.

[38] Ibid., p. 73.

[39] Ibid., p.78.

[40] Ibid.

[41] Id., Pragmatica della comunicazione umana, cit., p. 254.

[42] Ibid., p. 256.

[43] Ibid., p. 257.

[44] Ibid., p. 258.

[45] Ibid., p. 263.

[46] K. Jaspers, Filosofia, tr. it. UTET, Torino 1978, p. 520.

[47] K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, tr. it. Astrolabio, Roma 1950, p. 147.

[48] K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. it. Il Pensiero scientifico, Roma 1965, p. 849.

 

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