S&F_scienzaefilosofia.it

Le cinéma de Bergson: image – affect – mouvement

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



Colloque international 16-18 Mai 2013

École Normale Supérieure, Paris

 

↓ download pdf

S&F_n. 10_2013

Abstract


The conference entitled Le cinéma de Bergson: image, affect, mouvement took place from 16 to 18 May 2013 in Paris. At the beginning it sounds a little bit strange talking about "Bergson's cinema". In effect we all know that in several essays and in the final chapter of Creative Evolution (1907), Bergson employs what he calls the "cinematographical apparatus" as an analogy for how the intellect approaches reality. The cinema is like a metaphor for the fact that the intellect can only express movement – reality itself – in static terms. Anyway it's not a positive judgment. For this reason the real purpose of the conference is to see Bergson's theory of cinema from another point of view. Through the Deleuze's lecture we can discover a "new Bergson" as theorist of what Deleuze calls "ontology of images". In this way it could be possible talk about "Bergson's cinema", to imagine it, to dream it.


Leggere il nome di Bergson accanto alla parola cinema sortisce come primo effetto quello di una profonda incredulità. Inoltre parlare di un “cinema di Bergson” implica tutt’altra cosa rispetto alla formula “Bergson e il cinema”, che può restare nell’ambito di un più generale discorso sul cinema, come a dire: cosa ne pensava il filosofo francese della settima arte? Insomma riconoscere l’importanza del suddetto genitivo (per cui dire Heidegger e il nazismo banalmente non possiede lo stesso valore di Il nazismo di Heidegger) significa sostanzialmente ripensare l’opera bergsoniana, ça va sans dire anche le sue influenze ed eredità, quanto meno al di là della celebre critica contenuta nel quarto capitolo dell’Evoluzione creatrice. Questo l’intento programmatico del colloquio internazionale promosso dall’École Normale Supérieure, dall’università Paris Ouest-Nanterre La Défense e dal Centre International d’Etude de la Philosophie Française Contemporaine, che ha visto susseguirsi, nelle tre giornate di studio, importanti studiosi non solo di Bergson, ma anche di Deleuze e dell’arte cinematografica, restituendo così un’immagine quanto più esaustiva possibile della problematica in oggetto. La critica di Bergson al cinema va interpretata come critica al concetto di movimento. In effetti il cinema si limita a restituirci un’immagine fallace del movimento così come viene percepito dall’intelletto umano. L’illusione cinematografica è l’analogo dell’illusione percettiva, ultimo segno di quella millenaria incapacità di riflettere sul divenire. Quando parliamo di cinema e di Bergson il primo referente teorico è Deleuze, che, non a caso, viene prontamente citato in tutti gli interventi dei relatori. In Cinema 1 e 2 quest’ultimo riconosce nell’opera del francese almeno tre tesi inerenti al movimento. La prima è la più celebre e rischia di oscurare le altre due: il movimento non va confuso con lo spazio percorso. Sarebbe come confondere presente e passato, dacché il movimento perdura, è continuamente presente, mentre lo spazio percorso si declina sempre e di necessità al passato prossimo. L’uno è indivisibile, l’altro è composto di frammenti, di figure della divisibilità. A riprova di ciò la tesi si trova altresì enunciata nel modo seguente: non è possibile ricostruire il movimento ex post tramite l’addizione di frammenti immobili del mosso. Come nota sapientemente Deleuze, «vous aurez beau rapprocher à l’infini deux instants ou deux positions, le mouvement se fera toujours dans l’intervalle entre les deux, donc derrière votre dos» (G. Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement, p. 9). Così come possiamo dividere e suddividere all’infinito il tempo, ma esso ci sfuggirà sempre, perché si fa nella durée concrète. Tanto che, sulla scorta delle analisi bergsoniane, Deleuze elabora a proposito la seguente proporzione: il movimento reale sta alla durata così come i “coupes immobiles” (potremmo tradurre l’espressione francese con “fermo immagini”) stanno al tempo in astratto. Ne l’Evoluzione Creatrice Bergson presenta una seconda tesi sul movimento, l’errore consiste sempre nel ricomporlo maldestramente post festum ma esisterebbero due maniere per farlo, l’una prediligendo un’idea o forma come guida di questo processus, l’altra l’istante presente. A queste due opzioni teoriche Bergson fa risalire, rispettivamente, la maniera degli antichi e quella dei moderni di pensare il movimento. Ma se quest’ultima può essere considerata un corollario della prima tesi, non può dirsi la stessa cosa della terza tesi sul movimento individuata da Deleuze che può essere così esposta: non soltanto l’istante presente è un “coupe immobile” del movimento, ma questo a sua volta è un “coupe mobile” della durata, cioè di quello che Bergson in talune occasioni chiama le Tout. Ciò implica che il movimento esprima qualcosa di realmente profondo, ovvero il cambiamento stesso all’interno della durata. D’altronde la durata è cambiamento per definizione, essa è esattamente ciò che muta e non cessa di mutare. In fondo buona parte della riflessione contenuta nel capolavoro del 1907 mira a rendere ragione di un fatto, che può essere racchiuso nella formula felice “tout n’est pas donné”. Le temps-invention è il vero oggetto de l’Evoluzione creatrice, ciò che impedisce al tempo d’irrigidirsi in spazio è esattamente la vis creatrice. Ora il movimento reale, a differenza di quello posticcio fatto di “coupes immobiles”, esprime un cambiamento qualitativo all’interno della durata, all’interno del tutto. È il celebre esempio dell’acqua zuccherata: nel momento in cui le particelle di zucchero si sciolgono nell’acqua si verifica un cambiamento dell’intero, un passaggio qualitativo dall’acqua in cui c’è dello zucchero all’acqua zuccherata. Ed è proprio quest’intervallo che solitamente ci è sottratto, a causa del nostro intelletto così fortemente votato all’azione. Questa la ricostruzione deleuziana delle tesi sul movimento e tuttavia, poiché a volte la storia della filosofia è ingiusta anche con i suoi protagonisti, di Bergson, per quel che riguarda l’argomento cinema, rimane impressa piuttosto la formula lapidaria che battezza il IV capitolo de l’Evoluzione creatrice: il meccanismo cinematografico del pensiero. In effetti come non manca di notare Maria Tortajada dell’Università di Losanna nel suo intervento – Bergson au croisement des dispositifs de vision (XIXe-XXe siècle) – la riflessione sul cinema di Bergson è da intendersi anche concretamente come riflessione sul cinematografo, ovvero su quel dispositivo tecnico di proiezione di immagini animate che trova il suo posto all’interno di un contesto ricco di pratiche materiali e di teorie della visione che hanno nutrito l’immaginario cinematografico di un’epoca. Pensiamo all’importanza simbolica rivestita dalla lanterna magica nel capolavoro proustiano. La speculazioni sulla natura delle illusioni visive e le ricerche di psicologia sperimentale sulla percezione vanno di pari passo con il proliferare di dispositivi di visione come lo stereoscopio, oggetto di riflessione dell’exposé di Anne Sauvagnargues (Université Paris Ouest-Nanterre), che si intitola per l’appunto Bergson, Simondon et le stéréoscope. Ecco dunque che le tesi sul movimento sviluppate da Bergson si comprendono meglio attraverso questo prisma culturale che concerne, d’altronde, non solo il cinema ma anche la pittura e la letteratura. Per cui se è vero che da un lato bisogna concordare con il giudizio espresso da Deleuze, secondo cui Bergson non avrebbe colto il fatto che il cinema non ci dona solo un’immagine alla quale verrebbe aggiunto si soppiatto il movimento, ma ci dona immediatamente un’immagine-movimento, dall’altro lato, a parziale discolpa di Bergson, il cinema dei primi anni del novecento mancava della grande invenzione della camera mobile. E in effetti prima della camera mobile c’erano solo immagini in movimento non immagini-movimento, restituendo così una visione frontale e non in prima persona. Ma c’è una ragione ancora più essenziale per la quale non possiamo liberarci della “pratica Bergson” con il giudizio dell’Evoluzione creatrice, e cioè che è stato Bergson stesso ad intuire il concetto di “coupe-mobile” nel testo che precede di undici anni la formula infausta del meccanismo cinematografico del pensiero, cioè Materia e memoria. Ecco perché anche se Bergson non ha riconosciuto di primo acchito le potenzialità del mezzo cinematografico, è tuttavia vero che – come scrive Paola Marrati – «ce n’est qu’une petite faute aux yeux de Deleuze, dès lors qu’il est pour lui le seul à avoir élaboré une ontologie des images qui s’écarte de celle de la tradition philosophique, tout en s’accordant parfaitement au cinéma» (P. Marrati, Gilles Deleuze. Cinéma et philosophie, p. 40). L’intento di Materia e memoria è programmaticamente dichiarato nell’Avant Propos alla settima edizione: provare a determinare il rapporto tra la realtà dello spirito e la realtà della materia cercando di superare sia il côté idealistico sia quello materialistico. Il tentativo bergsoniano si compierà alla luce di un ripensamento dello statuto di immagine (né “cosa” né “rappresentazione”), dal momento che la materia viene definita come «un ensemble d’images» (H. Bergson, Matière et mémoire, p. 1). In effetti, come nota Worms in apertura del convegno, i due progetti di rinnovamento della filosofia di inizio novecento, quello di Husserl in Germania e quello di Bergson in Francia, hanno un medesimo punto di partenza: la necessità di superare lo iato tra la coscienza e le sue immagini da un lato, il mondo e le cose dall’altro, lasciando da parte la querelle tra idealismo e materialismo al fine di rifondare la filosofia su un terreno più prossimo all’esperienza umana, alla vita in ultima analisi. Le strade intraprese da Husserl e Bergson si assomigliano nella loro specularità: laddove il primo afferma ogni coscienza è coscienza di qualche cosa, il secondo sembra dirci ogni coscienza è qualche cosa. Per Bergson la coscienza è una cosa, di diritto essa coincide con l’insieme delle immagini, è immanente alla materia. La coscienza di fatto sorge in questo piano di immanenza quando delle immagini speciali, vive, formano una sorta di schermo nero capace di arrestare la propagazione infinita della luce e di rifletterla. Essa è, dunque, come un’opacità che permette alla luce di essere rivelata. Messe così le cose Bergson ha davvero rinnovato la grammatica della visione, elaborando quella che giustamente Deleuze chiamava un’ontologia dell’immagine. Dobbiamo allora concordare col giudizio di Sartre secondo cui il cinema era un’arte bergsoniana? Difficile rispondere, anche a conclusione dei lavori, quel che è certo è che sarebbe bello immaginare un dialogo tra il cinema di Bergson, quello dei boulevards parigini che conosceva e praticava, e il cinema di oggi, declinato secondo le forme di arte visuale, dei nuovi media, dei dispositivi di cinema 3D e di “realtà aumentata”. Sembra evidente che su questo punto il pensiero bergsoniano dell’immagine conservi tutta la sua pertinenza e potenza teorica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *