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Engelhardt a Napoli: occasione per un confronto e prove di dialogo

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



Hugo Tristram Engelhardt Jr. “Viaggio a Napoli”

2-6 febbraio 2012 Incontri con la Città

 

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S&F_n. 07_2012


«La morale privata del suo fondamento esce come diminuita nella sua stessa forza. Elizabeth Anscombe riconobbe che senza Dio, la persona che agisce immoralmente sarebbe, per principio, in qualche misura, come una persona che fosse chiamata criminale, se la nozione di criminale, appunto, dovesse permanere in una situazione in cui la legge penale e le corti di giustizia fossero state abolite e dimenticate. Agire immoralmente avrebbe un significato analogo a quello di agire illegalmente in assenza di polizia, tribunali o prigioni per identificare e punire atti illegali. Solo se si afferma l’esistenza di Dio e dell’immortalità sarebbe sempre razionale agire moralmente, persino quando, in particolari circostanze, si perseguisse il proprio vantaggio o quello di coloro che ci sono più cari. Kant quindi pose Dio al centro della sua idea del Regno dei fini e affermò che l’esistenza di Dio e dell’immortalità dovevano essere sostenuti razionalmente come postulati della Ragione pratica. Da un lato Kant diede argomenti pratici, affermò la dottrina del come se Dio quale base per un’unica morale valida universalmente. Dall’altro lato, egli cercò di fondare la morale sulla ragione, basandosi su alcune intuizioni della tarda Scolastica e su quella che era un’aspirazione della prima filosofia moderna a rivendicare una morale universale resa intellegibile dalla filosofia morale». Così spiega Tristram von Engelhardt in una delle fasi cruciali della sua prima conferenza napoletana tenuta venerdì 3 febbraio nell’Aula Magna Pietro Piovani dell’Università degli studi di Napoli Federico II, aggiungendo che tale progetto è evidentemente collassato completamente. La bioetica nasceva da una sentita aspirazione universalistica. Essa, negli intendimenti, ad esempio, di Shriver e Hellegers, i fondatori del Center for Bioethics presso il Kennedy Institute, si proponeva come sforzo razionale di rinvenire argomenti appropriati e universalmente condivisibili per risolvere dilemmi e problematiche, sollevate in particolare dagli sviluppi delle scienze biomediche. «L’idea era» così scrive Engelhardt «che la bioetica fosse in grado di mettere a punto mediante la riflessione razionale e una corretta argomentazione il contenuto canonico della morale medica; stabilire l’autorità morale di una legislazione e di una politica dell’assistenza sanitaria corretta, dimostrando che legislazione e politica dell’assistenza sanitaria poggiano su una morale di fondo razionalmente giustificata e sulla bioetica conseguente, e quindi anche mostrare che tutte le persone, in quanto vincolate a un’unica razionalità morale, devono considerarsi membri di una comunità morale, in tal modo giustificando le aspirazioni universalistiche della bioetica». Pertanto «sembrò che la bioetica potesse contribuire a fornire un orientamento morale non puramente formale, ma anzi ricco di contenuto» (Hugo T. von Engelhardt, Viaggi in Italia, 2011, p. 327). Tale progetto ha ricevuto la sua definitiva sconfessione dalla realtà dei fatti. Il progetto illuministico di una Ratio universale in grado, se non altro, di surrogare Dio, è imploso sotto la sferza della sua stessa incapacità di autogiustificarsi, in maniera da rendere la sua pretesa posizione canonica tale di fronte alla altrettanto legittima pretesa altrui. Tristram von Engelhardt è una delle più autorevoli voci del dibattito bioetico internazionale e la città di Napoli, grazie all’interessamento diretto della Consulta di Bioetica campana e alla partecipazione delle Istituzioni accademiche (Federico II in primis) e delle autorità comunali ha avuto l’onore di ospitarlo tra il 2 e il 6 febbraio del 2012 in una serie di incontri in cui si è discusso animatamente dello stato dell’arte nella ricerca bioetica, del fondamento della morale nella nostra società post-secolare, di etica medica e di principi per l’orientamento dei comportamenti soggettivi. L’idea di fondo del filosofo, medico e bioeticista americano, è che con la “morte di Dio” la morale non ha più alcun punto d’appiglio, che essa vaga nell’infinito nulla e che qualsiasi proposta voglia fuoriuscire dall’ambito del mero paradigma individuale cada nell’arbitrarietà e nel paradosso. Non a caso nella lectio magistralis che il professore ha tenuto nell’aula magna P. Piovani della Federico II sono state sottolineate con forza le caratteristiche dell’etica contemporanea: mancanza di oggettività e pura dimensione individuale. Egli aggiunge, durante un passaggio della lezione molto denso da un punto di vista teoretico e concettuale: «Che senso si può dare alla proposizione “Tutti gli uomini sono creati uguali” una volta che si è immersi in una cultura post-religiosa e post-metafisica? Se non si ammette che Dio abbia creato gli uomini uguali, in che modo gli uomini lo sono? Quale potrebbe essere la forza della morale universale nell’asserire l’uguaglianza tra gli uomini di fronte alle evidenti disparità e ineguaglianze tra di essi, e ugualmente quale potrebbe essere la sua forza di fronte all’invalicabile pluralismo morale? Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo Richard Rorty e altri autori hanno analizzato la situazione di radicale deflazione della morale. Hanno capito che siamo di fronte a un inevitabile rimodellamento della forza della morale secolare. In particolare, Richard Rorty spiega perché è impossibile fornire una fondazione per la morale o per la bioetica. Come egli sostiene, “si deve ammettere che non c’è modo di uscire fuori dai vari vocabolari che impieghiamo e trovare un meta-vocabolario che in qualche modo tenga conto di tutti i possibili vocabolari e di tutti i possibili modi di giudicare e sentire. Una cultura storicista e nominalista come quella di cui parlo, invece, sarebbe in grado di stabilire soltanto narrazioni che connettono il presente con il passato, da un lato, e il presente con utopistici futuri, dall’altro lato”». Conclude poi sostenendo che possiamo mantenere la nozione di moralità nella misura in cui smettiamo di pensare alla moralità come la voce di una parte divina di noi stessi e al contrario pensiamo a essa come la voce di noi stessi in quanto membri di una comunità che parlano un comune linguaggio. Possiamo mantenere la distinzione moralità-prudenza se pensiamo a essa non come la distinzione tra un appello all’incondizionato e un appello al condizionato, ma come differenza tra un appello agli interessi della nostra comunità e un appello ai nostri interessi privati e possibilmente in conflitto. L’importanza di questo cambiamento è che esso rende inaccettabile formulare la domanda “È la nostra una società morale?”

La difficoltà che incontriamo con la morale e la bioetica secolarizzate, come sostiene Rorty, è che nessuno può stabilire quale morale o bioetica sia universale, se mai poi questa morale o bioetica universali vi fossero. Ma noi dobbiamo andare oltre la posizione di Rorty. Senza voler indulgere in sottigliezze, cadere in una sorta di circolo vizioso o indugiare in un regresso all’infinito, non si può stabilire la priorità morale di una comunità di persone anonime (il cosiddetto punto di vista morale) al di là delle posizioni delle particolari comunità di quelli rispetto ai quali uno è più vicino e con cui è più intimamente legato storicamente e socialmente: la comunità della famiglia di una persona, gli amici e gli stretti associati. Senza fondamenti e in assenza di una prospettiva divina, né l’anonima comunità di tutte le persone, né la comunità a cui uno è legato affettivamente può dimostrarsi avere una stretta e vincolante priorità razionale. Il tentativo di Rorty di salvare qualcosa della tradizionale priorità morale sulla prudenza fallisce. Siamo lasciati con una pluralità di morali e fabbriche normative (alcune che rifiutano il punto di vista morale) sostenute all’interno di discorsi morali diversificati, supportati a loro volta da differenti narrazioni storicamente condizionate. Come Immanuel Kant comprese due secoli prima di Rorty, la morale non può sostenere la sua tradizionale robusta pretesa di una singolarità universale di contenuto e una effettiva priorità sulle semplici richieste della prudenza, a meno che l’individuo non agisca come se (als ob) Dio esistesse e, parimenti, come se fosse reale l’immortalità dell’anima. Tagliate fuori da un ancoraggio in Dio e/o nell’Essere (il caso specifico della metafisica), tutte le morali secolarizzate sono sempre più meramente particolari, nient’altro che narrazioni socio-storiche che sostengono particolari “edifici” di intuizioni morali, che fluttuano nell’orizzonte del finito e dell’immanente. A differenza degli asserti che sostengono una base comune in Dio, che possono essere compresi anche da un ateo come possibilmente fondati sull’essere, sebbene tali pretese saranno poi considerate false dall’ateo, il principale risultato della morale secolarizzata contemporanea è necessariamente contingente e storicamente condizionato. Questa infondatezza e contingenza ha drammatiche conseguenze in riferimento alla forza delle pretese normative avanzate dalla dominante morale su temi come la rilevanza morale dell’autonomia, l’uguaglianza, la giusta ripartizione delle opportunità, così come i diritti umani, la giustizia sociale e la dignità umana». Engelhardt scrive, poi, nell’Introduzione al suo Manuale di bioetica che «il pluralismo morale è una realtà di fatto e di principio, una realtà che bioetica e assistenza sanitaria devono ancora prendere sul serio» (Hugo T. von Engelhardt, Manuale di bioetica, p. 35) (questo anche a testimoniare la continuità dei suoi interessi filosofici e di ricerca a dispetto di un’ interpretazione, in parte frettolosa, che lo vorrebbe, in seguito alla conversione al Cristianesimo di tradizione ortodossa, lontano dalle sue primitive preoccupazioni e dai suoi iniziali interessi teorici). Il collasso della morale tradizionale e dei paradigmi etico-religiosi dell’Occidente cristiano hanno determinato la frammentazione delle Weltanschaungen soggettive. «La speranza filosofica della modernità», sostiene ancora Engelhardt, «è stata quella di scoprire, a dispetto di queste difficoltà una comunità generale comprendente tutte le persone. Tale comunità è stata cercata mediante la messa a punto di una morale canonica non solo procedurale, ma sostanziale, capace di vincolare anche gli stranieri morali, i membri di molteplici comunità morali diverse tra loro […]. Così ha preso piede la speranza di elaborare una visione della giustizia e dell’azione morale che fosse espressione dei requisiti della razionalità e dell’umanità, e non semplicemente di una particolare ideologia o concezione del mondo» (ibid., p. 39). Ma «il tentativo di sostenere un equivalente laico del monoteismo cristiano mediante la messa a punto di un’unica interpretazione metafisica e morale della realtà è naufragato nel politeismo dei punti di vista, con il suo caos di proposte morali e la sua cacofonia di narrazioni morali molteplici e contrastanti» (ibid., p. 37). Ci troviamo qui, con la lettura di questi estratti, calati nel corpo vivo della narrazione engelhardtiana, dove le espressioni morale sostanziale e procedurale e stranieri morali fungono da segnalatori di snodi concettuali determinanti. Engelhardt caratterizza gli stranieri morali come quegli individui che non hanno in comune premesse morali e norme di dimostrazione e di inferenza che permettano loro di risolvere le controversie morali attraverso l’argomentazione razionale, e che non possono neppure farlo appellandosi a individui o istituzioni di cui riconoscano l’autorità. Una morale, d’altro canto, si dice puramente procedurale quando le persone coinvolte conferiscono a obiettivi comuni l’autorità morale del loro consenso. Una morale quindi basata sul consenso, sull’accordo, sul permesso accordato, appunto, dalle persone coinvolte. Una morale formale, quindi, nata sulle rovine del progetto illuministico in cui si offre semplicemente una collaborazione moralmente autorizzata tra stranieri morali. Sorgono pertanto interrogativi di una certa urgenza: è ancora possibile la convivenza di individui, nelle odierne società multiculturali, che non si muovono entro orizzonti di senso comuni? O siamo destinati al relativismo morale e al nichilismo? Alcuni passaggi del Manuale di bioetica ricordano da vicino delle pagine nietzschiane. Penso al paragrafo del Manuale intitolato Disorientamento cosmico in cui Engelhardt scrive che «ci siamo scoperti soli, senza scopo, privi di un orientamento ultimo» (ibid., p. 428) riecheggiando espressioni tipiche della Gaia scienza nietzschiana. Egli non cede, però, alle sirene del nichilismo e cerca incessantemente una via d’uscita a esso, attraverso il potere formale del consenso. Ricorda, infatti, che le controversie possono essere risolte con la forza, con la conversione, con una corretta argomentazione razionale o mediante un libero accordo e così scrive «poiché non ci sono argomenti laici decisivi capaci di provare che una corretta visione della vita morale è migliore delle visioni alternative, e poiché non è avvenuta una conversione di tutti a un unico punto di vista morale, allora l’autorità morale laica è l’autorità del consenso» (ibid., p. 98). L’approdo quindi del pensiero di Engelhardt è, e qui forse mi arrischio in un’interpretazione spero sufficientemente suffragabile, quello di una constatazione de facto di un duplice livello in seno alla soggettività (duplice livello che ha una sua precisa caratterizzazione in senso morale ed esistenziale se vogliamo): un livello sostanziale che rimane, però, privato, o al più circoscritto entro la cerchia degli amici morali, in cui si esprime la dimensione assiologica dell’individuo, le sue profonde convinzioni morali e il suo personale modo di intendere la condotta retta e un livello procedurale in cui, abbandonato il campo delle certezze e dei parametri-guida della propria esistenza si entra nel campo libero degli interscambi tra soggetti alla pari in vista di accordi e negoziazioni finalizzate al bene comune. Tristram von Engelhardt rappresenta l’esempio congeniale, per certi aspetti, del filosofo impegnato, con la sua testimonianza di vita, ad avallare i principi e le direttive di una morale sostanziale, quella del Cattolicesimo Ortodosso, e, nel contempo, cercare gli strumenti per la costruzione di una morale laica nella quale e attraverso la quale stranieri morali, ovvero, come già detto, individui non accomunati dalla medesima prospettiva morale, possono incontrarsi e lavorare su un terreno comune, quantomeno sul piano formale. Engelhardt ritiene essenziale, quindi, e qui veniamo a un altro degli snodi decisivi del suo pensiero, per sfuggire all’impasse a cui ci costringerebbe la società post-moderna, rifondare la bioetica laica sull’unico fondamento accettabile, che è quello di persona. Il passaggio è cruciale. Ne va della stessa possibilità di intendersi su cos’è la bioetica, su quale dev’essere e/o è il suo ruolo entro la rete complessa della società multiculturale. Engehardt, infatti, vede la bioetica contemporanea come un’arena in cui insolubilmente si contendono la posta in palio della verità differenti concezioni morali inconciliabili. Ma, scrive il nostro filosofo «la difficoltà concettuale fondamentale che si incontra nel tentativo di risolvere le controversie morali mediante argomentazioni razionali è la necessità di un parametro razionale. Si è cercato di individuarlo nel contenuto stesso delle istanze o delle intuizioni morali, inteso come verità a tutti evidente, nella conseguenza delle azioni, nell’idea di scelta imparziale compiuta da un osservatore razionale ideale o da un gruppo di contraenti con le medesime caratteristiche, nell’idea stessa di scelta morale razionale o nella natura della realtà. Nessuna di queste strategie, comunque può avere successo, perché non è possibile individuare o scoprire il giusto o vero contenuto della morale nella ragione, nelle intuizioni, nelle conseguenze o nel mondo, in modo tale da mettere tutti d’accordo» (Hugo T. Von Engelhardt, Viaggi in Italia, p. 126). Questo è il motivo per cui è necessario abbandonare qualsiasi pretesa assiologica o sostantiva e formulare i termini generali per la costituzione di una morale formale, procedurale, il cui unico appiglio fondativo sia, al di fuori della logica principialista, l’accordo tra persone, intese come unici referenti morali accettabili e scrive «Se non è possibile porre a fondamento della bioetica una particolare concezione di Dio o una particolare interpretazione della razionalità morale o una particolare interpretazione della natura, allora è necessario rivolgersi all’unico elemento fondante rimasto, la persona. Se non è possibile individuare un’autorevole teoria morale sulla quale fondare il giudizio morale, allora è necessario rivolgersi alla persona come unico fondamento dell’autorità morale. Dopo tutto, se lasciamo da parte le particolari concezioni della divinità o le diverse teorie morali, possiamo fare appello soltanto gli uni agli altri per risolvere le questioni etiche e dare un contesto alle interazioni morali. È per questo motivo che nel mondo post-moderno acquisiscono tanta importanza elementi come la libertà di consenso e di informazione, il libero scambio e la democrazia limitata […]. Per evitare di dargli sfumature proprie di qualche teoria morale, il concetto di persona deve essere il più semplice possibile: il termine persona in questo contesto indica delle entità in grado di prendere parte a controversie di carattere morale e di raggiungere un accordo. Non è necessario nulla di più e nulla di più si deve cercare» (ibid., p. 122). Da qui nascono alcuni ulteriori interrogativi che riempiono sensibilmente gli ultimi anni dell’impegno filosofico engelhardtiano: è ancora possibile, nel cosmo secolarizzato, proporre al di fuori di una dimensione prettamente intimistico-privata il proprio convincimento morale (convincimento o credo che, appunto, vada al di là di una dimensione meramente procedurale per farsi determinazione assiologico-sostanziale)? E quale ruolo possono svolgere gli eticisti o i bioeticisti se la morale si è pluralizzata, sicché risulta quasi impossibile attribuire la titolarità di esperto in etica o bioetica a un soggetto? Questo e altri temi fanno da sfondo alla riflessione del filosofo americano, che abbiamo avuto l’onore di ospitare qui a Napoli.

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