Il filosofo svedese Nick Bostrom ha sottolineato che l’umanità, in una prospettiva a lungo termine, è posta di fronte a tre enormi problemi; problemi, forse, troppo familiari e, nello stesso tempo, troppo grandi per essere percepiti come tali. Il primo è la morte. Ogni anno muoiono ca. 56 milioni di persone, di cui 36 milioni per invecchiamento. Il secondo è il rischio esistenziale, la minaccia di estinzione della nostra specie, che può provenire dalla natura (super-vulcanismo, comete e asteroidi, etc.), dalle conseguenze indesiderate di azioni umane (cambiamenti climatici antropogenici, sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale), o da atti ostili perpetrati dall’uomo (uso di armi nucleari o guerre batteriologiche). Infine, il terzo problema, più sottile e complesso, per certi versi, da afferrare è che la vita, solitamente, non è così esaltante come potrebbe essere. Il superamento dei propri limiti biologici, il potenziamento delle proprie capacità cognitive, il miglioramento delle proprie disposizioni morali, il raggiungimento di un maggiore stato di benessere psicofisico e un allungamento considerevole dell’aspettativa di vita richiedono, per essere acquisiti, un cambiamento non solo del mondo che ci circonda ma di noi stessi. È intorno alla portata di questo cambiamento, alla natura dell’uomo, soggetto e oggetto, nello stesso tempo, del cambiamento che, ormai da molti anni, si è sviluppato un serrato dibattito che ha visto l’impegno di intellettuali, politici, filosofi, scienziati cognitivi, artisti. Alcuni hanno espresso opposizione al progetto di potenziare radicalmente tratti psicofisici e caratteristiche degli individui della nostra specie (Francis Fukuyama o Leon Kass ad esempio); altri, pur non formulando delle obiezioni di principio, hanno avanzato dei dubbi circa l’estensione (accettabile) dei cambiamenti da effettuare (Nicholas Agar); altri, infine, hanno argomentato a favore del progetto di potenziare la nostra specie per superare i limiti “imposti” dalla biologia (Aubrey de Grey, Ray Kurzweil, ad esempio) e fornire all’uomo strumenti per aumentare il proprio benessere psicofisico o, ancora, per implementare le chances di sopravvivenza, in un mondo sempre più complesso e difficile da governare.Il “termine-ombrello” che veicola queste riflessioni è enhancement. L’enhancement (parola che traduciamo in italiano con “potenziamento”) può essere inteso in senso stretto o in senso ampio. In senso ampio ogni sostanza o intervento volto a migliorare o implementare facoltà o tratti psicofisici degli individui può essere considerato un enhancer (il guaranà, la caffeina, la teina, alcune tipologie di percorsi psicoterapeutici, gli allenamenti fisici, l’educazione formale ricevuta a scuola, etc.). In senso stretto, invece, è considerato enhancement l’effetto prodotto da specifici interventi biomedici (e biotecnologici). In tal senso, possiamo, ancora, distinguere tra enhancement il cui effetto è temporaneo (quello prodotto, ad esempio, da smart drugs come il Modafinil e il Ritalin o, più recentemente, dalla tecnologia dell’e-tattoo), enhancement con effetto permanente (quello prodotto dall’impianto di arti robotici o interfacce cervello-computer) ed enhancement che modificano l’assetto genetico di individui futuri (potremmo chiamare quest’ultimo enhancement pre-natale). Ancora possiamo distinguere tra un enhancement che riguarda tratti specie-tipici e un enhancement che comporta l’introduzione di tratti non specie-tipici (Normal range human enhancement e supranormal enhancemement seguendo la distinzione proposta da Guy Kahane e Julian Savulescu).L’enhancement può essere, quindi, classificato in base all’intensità e alla tipologia dell’effetto prodotto oppure, ancora, in base al target dell’intervento. La tassonomia che va a dispiegarsi, sulla base di quest’ultimo criterio è la seguente: enhancement fisico, enhancement dell’umore, enhancement cognitivo, enhancement sportivo (nel quale rientra anche, ma non solo, il doping), enhancement morale, etc.Mentre potrebbero non essere del tutto prive di fondamento le obiezioni rivolte all’enhancement cognitivo, dell’umore, o a quello fisico e sportivo, sembrerebbe più ostico muovere delle obiezioni di principio all’enhancement morale. Di fatto, il miglioramento di se stessi, finalizzato ad aumentare le chances di comportarsi in modo adeguato in un dato set di circostanze, dovrebbe mettere d’accordo un po’ tutti. Anche i più convinti avversari del potenziamento umano. Eppure, intorno alla questione del moral bioenhancement il dibattito, se possibile, è stato ed è ancora più acceso. Ad esempio, John Harris sostenitore dello human enhancement project, si oppone con fermezza all’idea che gli esseri umani possano essere modificati radicalmente in vista di un potenziamento morale.A proposito di quest’ultima tipologia di enhancement, un testo di fondamentale importanza, che, per certi versi, ha segnato un punto di svolta nel dibattito è Unfit for the Future. The Need for Moral Enhancement di Julian Savulescu e Ingmar Persson (d’ora in avanti SP). In questo volume i due autori, riprendendo e sistematizzando una riflessione iniziata nel 2008 con un noto articolo pubblicato sul «Journal of Applied Philosophy» (alla quale aveva già fatto seguito un ampio dibattito), propongono una diagnosi del mondo contemporaneo, a tinte fosche. Dal momento che è più facile per un essere umano (o per un gruppo di esseri umani) provocare danni ai propri simili, piuttosto che evitare danni o compiere del bene, l’aumento della potenza tecnologica potrebbe amplificare in maniera esponenziale la minaccia di estinzione per la nostra specie. Armi di distruzione di massa nelle mani di gruppi terroristici, depredazione delle risorse ambientali e surriscaldamento globale antropogenico suggeriscono (per essere affrontati in modo adeguato) cambiamenti radicali nelle disposizioni morali degli esseri umani che non possono essere raggiunte in un lasso di tempo ragionevole e attraverso le tecnologie della cultura e dell’educazione attualmente esistenti. Oltre a questo, la creazione di dispositivi (o farmaci) in grado di aumentare il quoziente intellettivo medio delle persone potrebbe comportare, se non si registrasse un parallelo miglioramento delle disposizioni morali, ulteriori rischi per la nostra sopravvivenza (dal momento che una maggiore disponibilità cognitiva potrebbe essere messa al servizio di scopi antifinalistici per la nostra specie). SP scrivono che «per buona parte dei 150.000 anni nei quali la specie umana è esistita, gli esseri umani sono vissuti in società piccole e organizzate tribalmente, con una primitiva tecnologia che consentiva loro di incidere solo sull’immediato ambiente circostante. Così la loro psicologia e moralità sono stati verosimilmente adatti a farli vivere in queste condizioni. Ma gli esseri umani hanno radicalmente modificato le loro condizioni di vita attraverso la scienza e la tecnologia, mentre la loro psicologia morale è rimasta presumibilmente la stessa nonostante tali modificazioni, poiché, di fatto, queste ultime sono intervenute in maniera relativamente rapida (su una scala di tempo evoluzionistica)» (p. 1). Da qui la necessità di intervenire (anche) attraverso strumenti non-tradizionali e, quindi, la necessità di investire su alcune linee di ricerca volte alla creazione di strumenti (sostanze, dispositivi, etc.) in grado di potenziare le disposizioni morali dell’uomo.In sintesi, la psicologia morale che ànthropos avrebbe sviluppato nell’EEA (Environment of Evolutionary Adaptedness, l’ambiente di adattamento evolutivo), durante le età evolutive in cui gli individui erano sottoposti a pressioni selettive costanti (sviluppo che si sarebbe arrestato con la fine del Pleistocene) non sarebbe adatta a fronteggiare le sfide del mondo attuale, né le sfide future. Di fatto, con l’equipaggiamento morale che l’uomo possiede, ci sentiamo «primariamente responsabili per quello che causiamo, in proporzione al nostro contributo causale. Ciò che è moralmente più rilevante è che non causiamo la violazione dei diritti degli altri. Inoltre, siamo psicologicamente miopi, disposti a preoccuparci più di quello che succede a noi e ad alcuni individui che ci sono cari e vicini nel futuro prossimo. Siamo capaci di empatizzare e simpatizzare maggiormente con singoli individui e non riusciamo a empatizzare e simpatizzare con i collettivi, in proporzione al loro numero. Poiché siamo equipaggiati con un set di risposte tit-for-tat il nostro altruismo parrocchiale ci consente di operare in uno spazio di sincronicità. Questa situazione, però, non è funzionale nelle moderne società con milioni di cittadini» (pp. 39-40). E questo, evidentemente non è sufficiente per fronteggiare le novità che la scienza e la tecnologia hanno reso possibili.Inoltre, dal momento che i rischi del mondo attuale aumentano sempre più e sembra, da un lato difficile poterli affrontare con gli strumenti tradizionali, dall’altro urgente fare qualcosa per mettere gli individui in condizione di agire in modo adeguato, SP sostengono che, verosimilmente, gli interventi di enhancement morale dovrebbero anche avere una certa obbligatorietà. Poiché ne va della sopravvivenza della nostra specie lo stato dovrebbe, in qualche modo, farsi carico della erogazione degli enhancer morali così come si fa carico dell’istruzione dei suoi cittadini. Dovrebbe esser chiaro a questo punto il significato del titolo dell’opera (Unfit for the Future. The Need for Moral Enhancement).Ora, il testo di SP ha degli indubbi meriti. Innanzitutto quello di aver proposto, in modo chiaro e rigoroso e con una certa sistematicità alcune questioni legate al tema dell’enhancement morale. In secondo luogo, quello di aver stimolato un intensissimo dibattito che soprattutto tra i filosofi analitici (ma non solo) ha consentito di mettere a fuoco numerosi nodi problematici relativi all’etica dello human enhancement. Non va dimenticato qui che proprio dal campo dei teorici bioliberali, dove si registrava una sostanziale concordia nell’abbracciare il progetto del potenziamento umano, sull’enhancement morale sono state sollevate obiezioni di vario segno. V. Rakić ad esempio parla, a proposito della proposta di SP, di un pregiudizio della sopravvivenza a ogni costo (survival-at-any-cost bias), che sarebbe alla base dell’idea che pur di aumentare le chances di persistenza dovremmo cedere rispetto alla nostra libertà (ad esempio la libertà di scegliere se effettuare su di noi determinati potenziamenti o meno). J. Harris, richiamando le parole del Paradiso perduto di Milton, ricorda come la caratteristica più rilevante degli esseri umani è il proprio essere liberi (anche liberi di scegliere deliberatamente il male). Su questo si fonderebbe in definitiva la morale. Harris critica il progetto di potenziamento morale sostenendo che attraverso di esso verrebbero minate le basi stesse dell’agentività morale. Altre obiezioni sono venute da N. Agar, T. Beauchamp, A. Buchanan, etc. Quest’ultimo, ad esempio, pone l’accento su un punto di particolare interesse: l’interpretazione evoluzionistica alla base della proposta di SP.Al di là delle obiezioni sollevate dagli autori prima menzionati (obiezioni che, per altro, hanno ricevuto delle puntuali risposte da parte degli autori), credo che uno dei potenziali punti deboli dell’analisi di SP sia rappresentata proprio da alcuni degli assunti evoluzionistici che sorreggono l’opera. In particolare, l’idea di un “arresto evolutivo” non tiene, a mio avviso, in debito conto alcune delle più recenti acquisizioni nell’ambito della biologia evoluzionistica (e della paleoantropologia). La teoria della selezione multilivello (per cui la selezione naturale non avverrebbe solo al livello degli individui, ma anche ad altri livelli della gerarchia biologica – gene, cellula, gruppo, etc.-) o il concetto di exaptation (per cui un carattere originariamente evolutosi per una specifica funzione viene cooptato per altre funzioni) non consentono di proporre un modello dell’umano statico (e rigido), ma al contrario flessibile e modificabile in relazione agli stimoli ricevuti dall’ambiente. L’ipotesi dell’“arresto evolutivo” costringe poi i due autori ad abbracciare alcune altre idee non esenti da problematicità. Tra queste, in particolare l’ipotesi dell’EEA (sulla quale non tutti gli evoluzionisti concordano, o quantomeno non concordano in maniera aproblematica) e, di conseguenza, una certa divisione tra natura e cultura non del tutto compatibile con i fondamenti della teoria dell’evoluzione.È, in ogni caso, verosimilmente anche sotto la spinta delle numerose riflessioni, scaturite grazie al volume di SP, che il dibattito sul potenziamento umano ha imboccato la strada per un salto di qualità rilevante. Ne è testimonianza, a mio avviso, il volume The Ethics of Human Enhancement. Understanding the Debate, curato da Julian Savulescu, Steve Clarke, C.A.J. Coady, Alberto Giubilini e Sagar Sanyal che si propone, in tale quadro, come strumento di riflessione aggiornato sullo stato attuale del dibattito. Ma non solo. Di fatto, fin dal capitolo introduttivo dall’eloquente titolo Challenging Human Enhancement, curato da Alberto Giubilini e Sagar Sanyal, si comprende come uno degli obiettivi del volume è quello di promuovere nuove strategie argomentative ed esplorare nuovi percorsi tematici, avvalendosi anche delle più recenti scoperte in ambito neuroscientifico e neurocognitivo.A tal fine, innanzitutto, vengono passate in rassegna e analizzate alcune delle argomentazioni dei conservatori per metterne in luce eventuali punti deboli. The playing God Argument, la saggezza delle intuizioni e delle emozioni, intese come guida morale affidabile nel campo delle biotecnologie (con particolare riferimento al sentimento di disgusto verso certe biotecnologie, come la clonazione umana o la fecondazione in vitro), il richiamo alla dignità e alla natura umana. Ciascuna di queste argomentazioni non sembra passare il vaglio della critica. The playing God Argument, nella sua versione “secolare”, è basato sull’idea che alcuni interventi violerebbero in qualche modo l’intrinseca sacralità della natura, la quale non deriva da Dio (p. 6). Tale argomento può anche presentarsi nella forma di un avvertimento intorno alla possibilità che le biotecnologie facciano sfumare gli attuali confini di specie. Tuttavia, il richiamo alla sacralità appare meno plausibile non appena notiamo che è impossibile preservare la specie contro i cambiamenti genetici dal momento che i profili genetici associati a una specie mutano. Anche tenendo da parte eventuali interventi esterni, il genoma tipico di una data specie varierà nel corso del tempo e all’interno delle popolazioni che sono geograficamente separate e con interazioni minime. Anche il richiamo alla saggezza delle intuizioni ed emozioni presenta delle criticità. Infatti, fondare la propria prospettiva su intuizioni e sentimenti rende, poi, difficile giustificare questi ultimi all’interno dell’arena pubblica, dove vanno proposte argomentazioni capaci di influenzare le politiche decisionali. Un simile appunto può essere mosso anche all’impiego di scenari distopici (tratti da romanzi come Brave New World o pellicole come Gattaca) che spesso accompagnano le argomentazioni conservatrici. Questi ultimi, infatti, non sono in grado di andare al di là di un vago richiamo al sentimento di ripugnanza e disgusto che dovrebbe muovere gli esseri umani di fronte all’alterazione radicale della loro natura e delle loro caratteristiche essenziali.Infine, l’argomento della dignità umana. Ogni essere umano possiede, in virtù delle proprie caratteristiche distintive, una intrinseca dignità che sarebbe minacciata dagli interventi promossi dallo sviluppo tecno-scientifico. A questo tipo di argomentazione, i fautori dello human enhancement rispondono mettendo in evidenza che il potenziamento «può effettivamente promuovere la dignità umana migliorando quelle qualità e virtù che conferiscono un particolare statuto agli esseri umani» (p. 13). Oppure sottolineando il carattere vago del concetto di dignità umana che, proprio per questo, andrebbe dismesso dal vocabolario morale.Oltre all’analisi delle argomentazioni sviluppate in seno alle posizioni (non conservatrici) restrittive sul potenziamento umano (dall’argomento delle conseguenze indesiderate e non previste dell’uso delle biotecnologie, a quello analogico che compara la vecchia e la nuova eugenetica, a quello che evidenzia il possibile crescere delle disuguaglianze sociali sulla base dell’idea che le tecnologie del potenziamento umano potrebbero essere accessibili solo ai paesi ricchi o in ogni caso a piccoli gruppi privilegiati) nella parte finale del capitolo si introduce un tema che troverà ulteriore sviluppo nei successivi tre capitoli: le ricadute delle attuali ricerche condotte nell’ambito delle scienze cognitive e neuroscienze sul dibattito intorno al potenziamento umano. Gli autori, in particolare, richiamano gli studi condotti da Haidt e colleghi (ma anche da Greene, Wheatley e altri) secondo i quali i giudizi morali sono, spesso, il prodotto di intuizioni o emozioni. Il ragionamento, in questa prospettiva, sarebbe (soltanto) un’attività di ordine secondario impiegata per giustificare il proprio punto di vista ad altri (p. 19). Questo darebbe un supporto rilevante a coloro i quali pongono intuizioni e sentimenti (piuttosto che la ragione) alla base della vita morale degli individui. Resta, tuttavia, da dimostrare la rilevanza effettiva di questi studi per la psicologia morale, l’effettiva cogenza delle prove empiriche da essi proposte e la loro effettiva capacità di spiegare adeguatamente il pensiero conservatore.Nel secondo capitolo (Reason, Emotion, and Morality) A.A.J. Coady sottolinea come gli studi di Damasio sulla interazione di emozioni e ragione metterebbero in discussione la separazione tra i due livelli. In particolare, egli afferma che «sebbene le articolate suggestioni e teorie di Damasio risultino certamente controverse, l’immagine di una ragione ideale isolata nella sua natura dal legame con le emozioni e gli altri affetti umani è stata o dovrebbe essere stata resa dubbia» (p. 30). Questo non ha impedito però che negli ultimi anni taluni studi abbiano riproposto l’idea di una separazione tra sfera emotiva e sfera razionale. Una separazione che, secondo Coady, riflette più le idee filosofiche degli sperimentatori che gli effettivi dati sperimentali. Nell’ottica di un più puntuale interesse per i dati emergenti dal campo delle neuroscienze anche Joshua May, nel terzo capitolo (Repugnance as Performance Error), si interroga sul peso che il disgusto ha nella formulazione dei giudizi morali. In questo caso, mettendo in rilievo come verosimilmente quest’ultimo abbia un peso del tutto secondario nel processo di deliberazione morale (alcuni dati suggerirebbero che esso non sia affatto un fattore causale), e tutt’al più possa (solo) rendere più duri alcuni giudizi. McConnell e Kennett, a tal proposito, forniscono, nel quarto capitolo (Reasons, Reflection, and Repugnance), argomentazioni per mostrare come il richiamo di Kass al “senso di ripugnanza” quale adeguata guida morale per le nostre azioni non tiene conto dell’impossibilità di individuare uno specifico “senso di ripugnanza” che funga da guida “saggia” per il processo di decision-making distinto dal “senso di ripugnanza” che si aziona in differenti circostanze. Lo stesso Kass sembra ammettere la possibilità che, in alcuni casi, il “senso di ripugnanza” possa subire dei correttivi da parte della ragione ma, ciononostante, ammette l’esistenza di forme di ripugnanza che fondano in se stesse e da se stesse la moralità (p. 64). Il punto dirimente della questione sembra, però, essere il fatto che anche laddove l’istinto funge da guida per l’azione morale, esso costituisce l’espressione di processi di apprendimento precedenti, che già stabilizzati, possono poi dar luogo (anche) a risposte in apparenza sganciate dal dato razionale.Linda Barclay esplora, nel capitolo 5 del volume (A Natural Alliance against a common Foe? Opponents of Enhancement and the Social Model of Disability), la possibilità di analizzare la principale argomentazione di Michael Sandel contro l’enhancement, (ossia che esso minaccerebbe, con il suo progetto prometeico di supremazia dell’uomo sulla natura, il senso di “apertura alla gratuità” che dovrebbe accompagnare l’atteggiamento dell’uomo verso ciò che è dato), attraverso un accostamento con alcune argomentazioni dei teorici del “modello sociale della disabilità” (p. 75 sgg.), giungendo alla conclusione che le distinzioni tra naturale e artificiale, sanità e malattia, che sorreggono le argomentazioni di Sandel sono, in talune circostanze, difficili da comprovare.Nel sesto capitolo (Playing God. What is the problem?), John Weckert si concentra, invece, sul Playing God Argument mostrando che, verosimilmente, l’unica base plausibile per questo argomento, condivisibile sia dai bioconservatori che dai bioliberali, è quella per cui di fronte a modificazioni sui cui esiti non siamo pienamente competenti dovremmo sempre osservare un atteggiamento di prudenza (pp. 97-98).Nel capitolo 7 (Conservative and Critical Morality in Debate about Reproductive Technologies), John McMillan, proponendo alcune argomentazioni di Gerald Cohen sui cosiddetti “portatori di valore”, sottolinea, la possibilità di difendere alcune delle intuizioni morali dei conservatori su una base oggettiva (pp. 100-110).Chris Gyngell e Michael Selgelid si sono, invece, occupati, nel capitolo 8 (Human Enhancement: Conceptual Clarity and Moral Significance), del problema della formulazione di una definizione univoca e condivisibile del termine enhancement. Dopo aver mostrato le numerose possibilità di definizione offerte dal funzionalismo, dal welfarismo, dal costruttivismo, etc. propongono di evitare una scelta specifica ed escludente. In particolare, essendo la materia così complessa, essi suggeriscono di non scartare le varie opzioni (definizioni) ma di impiegare, a seconda delle circostanze e della tipologia di modificazione in esame, ora l’una ora l’altra (pp. 111-125).Robert Sparrow si concentra nel capitolo 9 (Human Enhancement for Whom?), sul problema degli interessi in gioco nel progetto dello human enhancement e passa in rassegna i soggetti potenzialmente coinvolti (dai genitori che decidono di selezionare i tratti dei nascituri, ai bambini che una volta nati si troveranno di fronte ai risultati di quelle scelte, passando, ancora, per il mondo inteso come l’insieme delle persone sulle quali, in qualche modo, quelle scelte ricadranno, arrivando infine alla nazione, alla specie e alla razza). La difficoltà di trovare un bilanciamento tra gli interessi di ciascun soggetto e i pericoli legati al ruolo potenziale dello stato nella gestione delle pratiche di potenziamento suggeriscono un approccio di estrema prudenza e un atteggiamento, nella sostanza, critico verso il progetto nel suo complesso (pp. 127-139).Nel capitolo 10 (Enhancing Conservatism), Julian Savulescu e Rebecca Roache provano a mettere a fuoco, al di là dell’appello alle emozioni e al disgusto, alcuni possibili punti d’appoggio per gli argomenti bioconservatori, arrivando alla conclusione che, in ogni caso, tali argomenti non possono valere come obiezioni (in linea di principio) valide per interdire l’impiego di tecnologie per il potenziamento umano (pp. 145-157).Bernardette Tobin, nel capitolo 11 (MacIntyre’s Paradox) analizzando il paradosso di MacIntyre sottolinea come la promozione dei valori considerati fondamentali all’interno di una data società, attraverso le tecnologie di potenziamento (e, in particolare, la selezione dei tratti che consentono di promuovere quei valori) porterebbe al paradosso che i soggetti potenziati rigetterebbero come illegittima l’operazione condotta ed eviterebbero di ripeterla sui loro discendenti, dal momento che uno dei valori fondamentali da promuovere in una data società è senz’altro quello di evitare la manipolazione degli individui senza il loro consenso (pp. 160-168).Nel capitolo 12 (Partiality for Humanity and Enhancement) Jonathan Pugh, Guy Kahane e Julian Savulescu aprono alla possibilità di impiegare, in certe situazioni, l’argomento dell’appartenenza per giustificare in parte l’avversione alle tecnologie del potenziamento, salvo poi mettere in luce, in ogni caso, la debolezza dell’argomento allorquando viene impiegato per interdire il progetto dello human enhancement (pp. 170-181).Nel capitolo 13 (Enhancement, Mind-uploading, and Personal Identity) la questione centrale è il mind uploading in riferimento al concetto di identità personale. Qui Nicholas Agar ci ricorda che un problema verosimile da affrontare, in presenza di una tecnologia come quella del trasferimento della mente su un supporto extrafisico, potrebbe essere che a venir potenziati non saremmo di fatto noi, dal momento che la distruzione del corpo con i suoi limiti biologici rappresenterebbe una interruzione radicale della nostra continuità psicofisica (pp. 184-197).Nel capitolo 14 (Levelling the Playing Field) Michael Haukeller richiama, invece, i potenziali pericoli della selezione genetica, la quale anche se animata da nobili propositi (cancellare le ineguaglianze imputabili alla lotteria genetica), potrebbe determinare un livellamento e una omologazione degli esseri umani, tale da creare una situazione in cui tutte le differenze diventerebbero moralmente arbitrarie (pp. 198-209).Steve Clarke, nel capitolo 15 (Buchanan and the Conservative Argument against Human Enhancement from Biological and Social Harmony), prende in esame l’argomento dell’armonia biologica e sociale che a suo avviso non sarebbe stato analizzato in modo adeguato. Di fatto, questa la tesi di Clarke, tale argomento non risulta del tutto infondato e merita attenzione. L’idea che le società umane si reggono su equilibri precari e che tali equilibri sono intrecciati con la biologia umana (con le caratteristiche psicofisiche degli uomini) in modi che non è facile comprendere raccomanda di agire, nella proposta di possibili modifiche alle basi biologiche degli esseri umani, con una certa prudenza (pp. 211-223).Gli ultimi due capitoli sono dedicati all’enhancement morale. Gregory Kaebnick nel capitolo 16 (Moral Enhancement, Enhancement, and Sentiment) sottolinea come il potenziamento morale degli esseri umani non deve necessariamente essere visto come uno stravolgimento dell’uomo, per come esso è. Anzi, esso potrebbe essere abbracciato anche dai teorici conservatori, dal momento che potrebbe favorire (e migliorare) proprio le qualità positive e le virtù da essi rivendicate come costitutive dell’essere umano (pp. 225-237).Infine, nell’ultimo capitolo (The Evolution of Moral Enhancement), Russell Powell e Allen Buchanan invitano a ripensare in profondità le premesse evoluzionistiche che accompagnano molti degli argomenti a favore dell’enhancement morale. In particolare, secondo i due autori il passaggio da una morale esclusivista a una morale inclusivista può essere favorito non tanto attraverso modificazioni delle basi biologiche del senso morale (le quali difficilmente potrebbero essere indirizzate in modo appropriato a target definiti, essendo la moralità qualcosa di estremamente complesso e sfaccettato), quanto attraverso un costante impegno culturale volto a promuovere trasformazioni significative dell’ambiente (e delle istituzioni) nel quale l’uomo vive e interagisce con i propri simili. Di fatto, questa la tesi dei due studiosi, la rigidità di sviluppo dell’essere umano (invocata a più riprese nel dibattito sull’enhancement morale) non è affatto qualcosa di scontato. Piuttosto, dovesse essere rilevata, andrebbe, forse, imputata agli ambienti che favoriscono per lo più risposte esclusiviste (pp. 239-258).The Ethics of Human Enhancement è al momento uno strumento imprescindibile per avere una mappatura di alcuni dei più delicati e rilevanti snodi del dibattito sul potenziamento umano. Esso, però, non si propone solo come un terreno di descrizione del dibattito, ma anche (e, in alcuni dei capitoli, soprattutto) come un terreno di proposte per consentire un avanzamento delle analisi sullo human enhancement e un allargamento delle prospettive entro le quali comprendere alcune questioni dirimenti.Da qui l’importanza di un confronto serrato tra bioetica e neuroetica proposta da molti degli autori impegnati nel volume e, quindi, la necessità di tener presenti i dati sperimentali in modo non superficiale per la costruzione di una coerente teoria morale (teoria che possa poi fornire – anche – una base adeguata per giustificare le pratiche di enhancement).Infine, la costruzione di una, seppur precaria, piattaforma di dialogo, evidente soprattutto nei capitoli curati da Savulescu, dove si prova, in un chiaro gioco delle parti, a mettere a fuoco quali possibili argomenti, su base conservatrice, sarebbero adeguati per una discussione coerentemente fondata con la controparte bioliberale (argomenti non fondati quindi sul solo richiamo alla saggezza degli istinti e delle emozioni). Il saggio conclusivo, infine, registra un’importante acquisizione, in area analitica, rispetto al rapporto tra enhancement ed evoluzionismo finora non sufficientemente approfondita. La messa in discussione delle premesse con le quali, su base evoluzionistica, molti autori bioliberali avevano finora argomentato a favore dell’enhancement (e in particolare dell’enhancement morale, se pensiamo a Savulescu, Persson, Douglas, etc.) costituisce un nuovo punto di partenza dal quale, a mio avviso, far iniziare una serie di articolate analisi e riflessioni.
Luca Lo Sapio
S&F_n. 17_2017