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Julien Offray de La Mettrie – L’uomo macchina – a cura di Fabio Polidori [Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 82, € 9]


Che i filosofi siano personaggi noiosi si dice spesso, e forse è vero: escludiamo però La Mettrie da questa massima, pena la sua falsificazione. Riedito da Mimesis nel 2015, con la sapiente cura di Fabio Polidori, L’uomo macchina è riuscito ad arrivare fino a noi. Già questo avrebbe forse rallegrato il medico-filosofo La Mettrie, più volte censurato, costretto alla fuga, ospitato a Sanssouci da Federico II di Prussia, e lì morto – senza preoccupazioni, appunto – di una morte che ancora oggi stupisce (indigestione di paté? Salasso auto-prescritto? Cibo avariato?). Ritroviamo così in libreria uno dei personaggi anti-accademici per eccellenza («discorsi accademici a parte, non conosco niente di così inutile e insulso», p. 23), un pensatore che ancora oggi fa scalpore, e la cui pubblicazione è opera coraggiosa se non ammirevole.La scelta editoriale è ricaduta sull’opera più nota di La Mettrie, L’uomo macchina. Scritta o comunque terminata nel 1747 e poi di lì a poco pubblicata – con enormi problemi per l’editore Luzac – è rivista da La Mettrie nel 1751; proprio su questa versione si basa il lavoro critico di Aram Vartanian, che risale al 1960, qui ritradotto da Polidori. Tra le precedenti traduzioni italiane si possono ricordare almeno quella di Giulio Preti, del 1955, e quella di Sergio Moravia, del 1974.Va detto che un’edizione de L’Uomo macchina appare ora opportuna anche per motivi estrinsechi. Non tanto e non solo perché la comparsa di una (rara) iniziativa editoriale concernente il secolo dei Lumi non può che rallegrare, ma anche, più nel dettaglio, perché nell’era dell’ineludibile progressione della robotica, non può non affascinare e interessare il confronto con uno dei primi pensatori “delle macchine”. Un’opera dal titolo duplice – L’uomo macchina, certo, ma anche, potremmo dire, “L’uomo e la macchina” – e da sempre di grande richiamo, non fosse altro perché in costante aggiornamento, così legato al continuo progredire dei concetti di “umano” e di “macchina”, che non sono, oggi come allora, al riparo da distingui e fraintendimenti.A ogni modo, parlare di La Mettrie significa portare alla luce un filosofo scomodo, dalla vita teatrale e scenografica, simbolo per il suo stesso secolo dell’ateo immorale e del gaudente impenitente, solipsista del godimento. E anche se queste sono caratteristiche che il filosofo-macchina condivide con altri tra il Grand Siécle e il Secolo dei Lumi, egli non propone soltanto un singolare riassunto di posizioni già note, ma anche una decisa ripartenza, e la singolare posizione di La Mettrie emerge con chiarezza proprio a un’attenta lettura de L’Uomo macchina.Se per i più “clamorosi” discorsi sul trittico piacere-virtù-bonheur bisogna forse riferirsi al La Mettrie dell’Anti-Seneca, da L’Uomo macchina possiamo senz’altro trarre un quadro netto delle problematiche e dei termini chiave dell’atipico pensatore.In primis, la posizione della medicina nel cosmo filosofico. Nella precisa e incisiva Introduzione, Polidori ben evidenzia come la peculiarità de L’Uomo macchina sia il ruolo “emancipatore” che il sapere medico vi assume: pratica di liberazione dei corpi e di insubordinazione anti-teologica. La Mettrie, allievo di Boerhaave, fonde i saperi: la medicina non è solo pratica operativa, ma è strumento d’indipendenza della carne dalle pastoie teoretiche, ricetta anti-dogmatica e anti-metafisica (e questo è un punto di potenziale incontro con un pensatore come Diderot, da La Mettrie citato però in chiave polemica).Certo, non bisogna guardare a L’uomo macchina come a un manuale di medicina – anche se non mancano casi “clinici” – non più di chi volesse costruire una sonda spaziale studiando la Fisica di Aristotele. Al più, qui la medicina è “strumento di conferma” di un’impostazione filosofia già schiettamente materialista. La particolarità, però, è che non si parla di materia “in sé” – materia assoluta, metafisica – bensì di sostanza che è carne, fonte di godimento, e finanche di dolore e morte. Congiungere scienza specialistica e filosofia non era certo una novità a quel tempo, ma collegare il sapere operativo della medicina alle discussioni sostanziali rimane comunque un’anomalia.E a cosa porta la medicina?A dover lasciare “dietro” un concetto non da poco: quello di anima.Solo così è possibile capire l’uomo. Io sono corpo e penso, ecco La Mettrie. Una soggettività che s’incarna nel cervello e che sospinge il corpo verso i suoi estremi limiti, tracciati da piacere e dolore. Intorno a questo schema deciso in partenza dalla Natura, la ragione, però, non deve cedere il passo, assumendo invece il ruolo di guida del corpo gaudente; non patendo il sensibile, bensì “dirigendone” il traffico. La Mettrie deduce ciò dalla stessa fisiologia del corpo, inserendo la macchina in una dialettica tra risorse esauribili e inesauribili: «il piacere dei sensi, per quanto gradevole e dilettevole e per quanti elogi gli abbia rivolto la penna visibilmente riconoscente, conduce a un unico godimento, che è anche la sua tomba» (p. 30); «assai diverse sono invece le risorse dei piaceri spirituali […]. Non è affatto il caso di stupirsi se il piacere della mente supera quello dei sensi, dato che la mente è al di sopra del corpo ed è anche il primo dei sensi, una sorta di crocevia di tutte le sensazioni, le quali vi pervengono come raggi diretti verso un centro che le produce» (pp. 30-31). La mente – cioè una produzione del cervello, materia che pensa. La mente ovvero l’anima, che dir si voglia. L’anima in senso stretto, il feticcio immateriale, è «solo un termine inutile di cui non si ha alcuna idea, e una persona assennata dovrebbe servirsene solo per nominare la parte che in noi pensa» (p. 53). In senso “medico”, invece, «questo principio esiste e ha sede nel cervello, all’origine dei nervi attraverso i quali esercita il suo dominio su tutto il resto del corpo. E questo spiega tutto ciò che si può spiegare, persino le sorprendenti conseguenze delle malattie dell’immaginazione» (p. 58). L’anima è un epifenomeno del cervello, un suo attributo, che dipende dalla materia cerebrale e che scompare quando essa termina le sue funzioni: lontana dall’essere essenza invisibile, è, al più la molla principale della macchina umana. «Perché dovremmo considerare duplice ciò che è uno?» (p. 59). Ripulito così il campo dalle ipotesi immateriali, il quadro inizia a farsi chiaro.L’uomo è una macchina deambulante in verticale (p. 65), immagine vivente del moto perpetuo (p. 34), orologio sensibile e immaginativo: «mi servo della parola “immaginare” perché credo che tutto si immagini e che tutte le parti dell’anima possano essere a buon diritto ridotte alla sola immaginazione, che le costituisce tutte. Perciò il giudizio, il ragionamento, la memoria non sarebbero affatto parti dell’anima assolute, ma vere e proprie modificazioni di quella specie di “tessuto midollare” sul quale gli oggetti dipinti nell’occhio vengono proiettati come da una lanterna magica» (pp. 42-43). Cartesio aveva già deciso la partita quando aveva detto che gli animali sono pure macchine; ora occorre fare un passo oltre. Di più: «la solfa sulla distinzione delle due sostanze non è altro che un gioco di prestigio, una astuzia stilistica per far inghiottire ai teologi un veleno nascosto all’ombra di una analogia che colpisce tutti e che solo a loro sfugge» (p. 65). Il filosofo del Cogito è piegato, dunque, in una direzione nient’affatto metafisica, interpretato come un apripista che non si è espresso con più chiarezza e distinzione solo per timore censorio – e in fondo, una critica è pur sempre un rimanere ancorati alla terminologia da cui si diffida, e La Mettrie rimane di “scuola” cartesiana.Uomini, animali, macchine: o tutti o nessuno. Nella grande catena dell’essere non c’è spazio per salti ontologici, ma al massimo per differenze di organizzazione e per una molla, decisiva, in più. «Dagli animali all’uomo il passaggio non è violento, e i veri filosofi ne converranno» (p. 40). «Malgrado tutti questi vantaggi sugli animali, il fatto di essere collocato nella medesima loro classe rappresenta per l’uomo un onore» (p. 46).Sia chiaro che non è certo un discorso animalista ante-litteram quello di La Mettrie (per quanto, sia detto per inciso, appare “più animalista” un meccanicista rispetto a chi ha posto la questione su una mancanza di legge morale e di Io penso). La “rivalutazione” del mondo animale non è certo il focus della questione, è sussidiaria a un tentativo di esplicazione della macchina umana, cui, in ultima istanza, l’animalità serve come specchio: La Mettrie si limita qui a trarre le conclusioni dall’idea dell’esistenza di una sola Sostanza cosmica che tutto pervade e che, modificandosi, da il là al mondo del visibile. Eppure, proprio un pensatore da sempre inserito nell’alveo dei materialisti convinti, rifiuta l’idea di spiegazioni essenziali e totalizzanti. Certo, concludendo la sua opera, si lascia andare a un’ipotesi sistematica; ma lo fa, appunto, in conclusione e non a priori, quasi lanciandosi in un gioco intellettuale della pura ipotesi, che sa di non poter essere suffragata dalla certezza dell’empiria: «in conclusione azzarderei dunque che l’uomo è una macchina e che in tutto l’universo non c’è che una sola sostanza diversamente modificata. Non si tratta di un’ipotesi costruita a forza di domanda e di supposizioni, né è opera del pregiudizio o della mi sola ragione; avrei rifiutato una guida da me ritenuta assai poco sicura se i miei sensi, portando per così dire la fiaccola e illuminandola, non mi avessero indotto a seguirla. L’esperienza mi ha dunque parlato a favore della ragione, così da consentirmi di congiungerle insieme» (p. 69). Per questa dichiarazione programmatica così potente, bisogna però segnalare alcune prese di distanze dalle generalizzazioni.«Dobbiamo farci guidare soltanto dall’esperienza e dall’osservazione. […] soltanto a posteriori – ovvero cercando di individuare l’anima quasi attraverso gli organi del corpo – si può non dico rivelare in tutta evidenza la natura stessa dell’uomo, ma almeno raggiungere la più alta probabilità possibile sull’argomento» (p 31); «Mi dispiace che ciò deponga a sfavore del sistema della generazioni dei naturalisti; anzi, ne sono lieto, perché questa scoperta ci insegna proprio a non trarre mai conclusioni di carattere generale, nemmeno sulla base di tutti gli esperimenti conosciuti e più decisivi» (p. 56); «Evitiamo di perderci nell’infinito, non siamo fatti per averne la minima idea e ci è assolutamente impossibile risalire all’origine delle cose» (p. 52). Per evitare di considerare contraddittoria questa duplice impostazione – sistematica e/o empirica – possiamo dire che La Mettrie rimane ancorato a concetti probabilistici: la certezza va alla sperimentabilità empirica; qualsiasi impostazione teoretica più generale, invece, deve essere declassata a fantasticheria che, se anche si avvicina al vero, mai e poi mai può testimoniarlo. L’ipotesi della Sostanza unica variamente modificata, regge lì dove gli esperimenti la confermano; ma tale ipotesi è successiva agli stessi esperimenti, non è il punto di partenza dell’indagine. Come spesso nel ‘700, fatti e ipotesi non sono messi l’uno contro l’altro, ma è invertita la gerarchia: prima il sapere positivo, poi la rifinitura teorica.L’inquieto e indomato La Mettrie, non ci propone un pensiero unico, monolitico, bensì un vivo dialogo con se stesso – arriva anche a criticare e confutare «l’autore della Storia dell’Anima», ossia lui stesso! – e con il suo tempo. E, oltre che per una certa bizzarria caratteriale, non si può chiedere a La Mettrie un Sistema, perché mai gli interessò costruirne uno. Che la materia sia eterna o creata dal nulla, che la Sostanza sia una, che esista un Pantheon, un solo Dio o nessuno «non è per noi motivo di inquietudine. È una follia tormentarsi così tanto per ciò che è impossibile conoscere e per ciò che, quand’anche venissimo a saperlo, non ci renderebbe più felici» (p. 52).L’uomo è fatto – materialmente fatto – per essere felice. Ateismo e materialismo sono uno strumento di felicità, non di discussioni scolastiche: regno dell’immanenza assoluta. Ogni costruzione metafisica che parli di premi e castighi è puro veleno per l’uomo, il quale deve seguire i consigli del suo Io indivisibile e schiettamente ignorare le prescrizioni non sensibili. Questo il fulcro di La Mettrie; questo il segreto morale del suo materialismo, che fa fatica a costruire un pensiero “politico” e che si dichiara per pochi – scontrandosi sia con il suo stesso impeto liberatorio, sia con le ali progressive dei Lumi, che proprio nel rendere democratica la felicità “dei pochi” intravedeva uno dei suoi obiettivi.Tra oscillazioni solipsistiche e improvvise spinte “umanitarie” per una comprensione reale dei crimini dovuti ai disturbi mentali, il medico-filosofo talvolta, di sfuggita, balena il suo centro di gravità, invitando tutti a «vedere non ciò che è stato pensato ma ciò che occorre pensare per la tranquillità della vita» (p. 32): più che pensiero coerente, allora, La Mettrie è febbrile stato d’animo che ci indica, tra miserie e splendori, una possibile strada del Settecento francese, proponendosi di parlare “a pochi” ma non disdegnando di rivolgersi “a chiunque voglia intendere”. 

Mario Cosenza

S&F_n. 17_2017

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