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Andrea Cavazzini – Sciences de la vie, mathesis, infini. Nouvelles études d’archéologie des savoirs [Hermann, Paris 2016, pp. 218, € 27]


Il modo in cui Hegel pensa le scienze fu già nel corso dell’800 considerato irricevibile, a causa principalmente del punto di vista esterno dal quale il sistema hegeliano sembrava pretendere di cogliere la verità delle diverse pratiche scientifiche. Ogni Teoria della scienza che non sia riducibile a mera validazione delle procedure interne a una scienza è oggi vista con ancor maggiore sospetto da un’epistemologia dominante sottoposta al “culto dei dati” e dell’”utilità pragmatica”. A distanza di due secoli, sembra dunque da escludere che la filosofia hegeliana possa ancora rivelarsi di qualche utilità in ambito epistemologico. Tuttavia, negli ultimi decenni sono apparsi diversi studi che hanno tentato di riabilitare la teoria hegeliana della conoscenza scientifica, ora ridimensionando l’estraneità di Hegel rispetto all’evoluzione delle scienze a lui contemporanee, ora mostrando l’attualità della sua concezione generale della scienza, al di là di alcune considerazioni riconosciute come improprie ma marginali. In Sciences de la vie, mathesis et infini, Andrea Cavazzini sceglie un percorso diverso, assumendo pienamente l’inattualità dell’Idealismo tedesco, per leggere nelle ragioni storiche e teoriche del suo oblio l’opportunità di rivendicarne l’attualità. Come suggerisce il sottotitolo, Nouvelles études d’archéologie du savoir, al progetto filosofico-scientifico dell’Idealismo tedesco è infatti riconosciuto lo statuto di «oggetto archeologico», che può essere utile riattivare «nella misura in cui contiene precisamente ciò che il presente non riesce più a pensare e che costituisce il suo limite immanente» (p. 28). Lo scavo archeologico mira quindi a mostrare come le concezioni delle scienze oggi dominanti siano il risultato di un processo storico che passa per il rifiuto dell’Idealismo; ma attraverso lo studio delle poste in gioco teorico-politiche dell’esclusione delle “Idee” dalla teoria delle scienze, Cavazzini intende innanzitutto ristabilire la connessione tra questa esclusione e le impasse che impediscono alle scienze della vita in particolare di pensarsi come «potenziali portatrici di principi razionali».Al campo scientifico della biologia manca infatti ancora oggi una «organizzazione esplicita e razionale dei concetti e delle esperienze» che si fondi su «principi teorici su cui possa poggiare la sua autoriflessione». La problematica che pure unifica le discipline biologiche, definita dall’evoluzionismo darwiniano, non è interrogata nei suoi principi: «le Idee che assicurano la coerenza dei saperi biologici restano generalmente vaghe, a volte non formulate, e spesso radicalmente assenti dal lavoro quotidiano degli operatori scientifici» (p. 5-6). Questa assenza di autoriflessività finisce col cancellare la specificità del vivente, lasciando spazio a nuove forme di riduzionismo meccanicistico che Cavazzini colloca nella loro dimensione allo stesso tempo politico-ideologica e teorica. La problematicità del rapporto tra scienze della vita e principi teorici è infatti dovuta sia a una ragione “esterna”, cioè alla surdeterminazione politica del lavoro scientifico e alla sua incorporazione nelle ideologie, sia a una ragione “interna”, cioè alla difficoltà di ricondurre le scienze della vita alla forma teoretica classica, che si fonda sulla ricerca delle invarianti, alle quali sfugge il vivente in quanto singolarità e divenire. È in questo senso che la dialettica idealista può rendere conto della specificità irriducibile del vivente: alla metafisica greca, in cui vige il primato dell’Idea in quanto Universale-invariante, si oppone una metafisica idealista, secondo la quale a dominare le idee è l’unità di singolarità e divenire in quanto libertà realizzata, la cui definizione nell’Assoluto hegeliano costituisce uno dei fili conduttori del lavoro di anamnesi condotto in questo studio.Ma per cogliere il senso del ricorso alle nozioni dell’idealismo nella concettualizzazione del vivente, occorre passare innanzitutto per l’analisi del rapporto che Hegel intratteneva con la matematica del suo tempo, nell’ambito della questione più generale del rapporto tra dialettica e matematica cui è dedicata la prima parte del libro e che consente di mettere a tema, nella seconda parte, l’articolazione di «totalità, intensità, infinito» nella matematica hegeliana. La «omogeneità tra lo spazio di intelligibilità degli esseri ideali e quello degli esseri viventi», nell’episteme idealista, poggia infatti sulla nozione di infinito intensivo, ricavata dal passaggio dal molteplice all’infinito e dall’infinito alla forma: «il molteplice deve essere riportato a una forma di organizzazione capace di interiorizzarlo e di costituire una totalità autoriflessiva che associ l’infinità delle determinazioni all’immanenza di una struttura chiusa e delimitata. È qui che Hegel introduce la problematica dell’infinito in quanto prolungamento del movimento della serie degli ordinali: l’infinito non appare come un molteplice giustapposto, ma come il processo che genera nuove determinazioni percorrendo una scala illimitata». Per Hegel, il pensiero matematico può conciliare la molteplicità infinita di determinazioni intelligibili e il loro contenimento attraverso e nella chiusura di una totalità delimitata. Non manca certo una contestualizzazione dell’analisi hegeliana del vero infinito, che mostra i limiti oltre i quali Hegel non poteva andare (ad esempio, la mancanza di unità del campo matematico), ma ciò che interessa è il progetto liberato dalla lettura archeologica del pensiero matematico hegeliano, «un progetto di rifondazione dei saperi, che vede nella matematica la possibilità di analizzare rigorosamente la costituzione delle forme e il comportamento delle totalità». La totalità realizzata che è l’organismo vivente incarna l’idea di autoriflessione e di autonomia che l’idealismo ricercava nel pensiero del molteplice. Questo avvicinamento delle analisi matematiche alla comprensione degli esseri viventi è reso possibile dal fatto che gli esseri viventi contengono un infinito intensivo, non nella forma di una serie illimitata, ma in quanto gioco tra diverse intensità interne a un Tutto organicamente chiuso. La coappartenenza di mathesis e vita è dunque compresa alla luce dell’articolazione idealistica tra matematica – come luogo in cui è pensato l’atto unitario che coglie i molteplici infiniti che non sono riducibili alla reiterazione-composizione delle parti finite – e le scienze della vita, che producono una nozione di finalità immanente-circolare che permette di concepire il rapporto tra la chiusura di una forma coerente e la sua variabilità interna infinita.Questa riflessione sull’originalità del vivente non si ricava solo dalla Scienza della Logica, ma attraversa l’intera Goethezeit, che dal Romanticismo conduce alla prefigurazione marxiana dell’uomo post-borghese ricompreso nel «movimento assoluto del divenire». Ma lo scavo di Cavazzini arriva a individuare nel Neoplatonismo le radici della problematica che accomuna il Più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco al Capitale, seguendone gli sviluppi fino alla costellazione della filosofia francese degli anni 1930-1960, la quale costituirebbe una “ripetizione creatrice” del pensiero dell’epoca di Goethe: Cavaillès si ispirava a Hegel, Canguilhem ai vistalisti pre e post-romantici, e persino Deleuze ricostruisce una Naturphilosphie i cui antenati immediati sono Bergson, Boutroux, Ravaisson, eredi a loro volta di Schelling e dell’Idealismo tedesco.Nella terza parte, su pensiero, vita e finalità, vengono così tracciate due linee, al contempo politiche ed epistemologiche: una meccanicistica, che si impone in seguito alla Rivoluzione scientifica, con Descartes-Hobbes e Newton-Kant, che tende a togliere forza e potenza propria alla Natura, e l’altra che, non riducibile al vitalismo fusionale, mira a pensare la finalità interna, immanente all’organismo vivente, e che va da Plotino a Hegel passando per Leibniz e Spinoza. La visione plotiniana della realtà, come «generazione immanente di forme», rifiuta infatti in modo esplicito il paradigma meccanicistico rappresentato dal Demiurgo, immagine del rapporto di esteriorità tra l’artefice, il fine e la materia. È all’analisi dell’attività umana che deriva da questo idealismo antimeccanicistico che Cavazzini riconduce lo stesso Marx, nella misura in cui rileva nella sua concezione del rapporto tra lavoro, strumento e natura la presenza dell’«idea di un’attività produttrice immanente e circolare, irriducibile alle relazioni esterne presupposte dalla metafora del Demiurgo». Quando Marx presenta i momenti del processo del lavoro come separati, sostiene Cavazzini, è solo per decomporre analiticamente un processo totale che ricalca lo schema dinamico e monista della Naturphilosophie. I momenti distinti sono quindi sempre già dati nella sintesi del processo di lavoro, sintesi il cui operatore è il mezzo di lavoro in quanto sistema tecnico. Per Marx, «le realizzazioni tecniche sono una metamorfosi ulteriore attraverso la quale l’uomo incontra la totalità delle forze naturali e le incorpora alla propria attività, inscrivendosi in esse come momento del loro divenire», ed Engels afferma con ancora maggiore chiarezza l’idea di «un’unità dinamica di forze naturali attraverso la quale i momenti fissi sono reinseriti in un immenso processo di produzione di forme». Ora, è chiaro che Engels crede che tale unità sia fondata interamente su basi positive, ma ciò che Cavazzini intende mostrare che l’esclusione engelsiana della Naturphilosophie è essenzialmente ideologica e che «nessun sistema nasce dai semplici dati delle scienze particolari». In ogni caso, lo stesso Engels riconosce nella Naturphilosophie il progetto di una comprensione unitaria della realtà in quanto processo da cui si generano forme sempre già prese nel flusso del divenire.La lotta tra meccanicismo e vitalismo non è tuttavia legata solo all’evoluzione della tecnica, da un lato, e all’oblio dell’idealismo, dall’altro: è rintracciabile «un’altra genealogia» del meccanicismo, che riguarda il governo dei lavoratori, la razionalizzazione dell’organizzazione sociale, sulla quale insiste la quarta parte del volume, in cui, attraverso uno scavo archeologico condotto con gli strumenti dell’analisi materialista, si mostra il nesso interno che lega queste diverse genealogie. In questa parte conclusiva, assume un’importanza centrale il riferimento a Canguilhem, che individua nell’evoluzione del macchinismo l’origine della concezione meccanicistica dell’universo, vedendo la riduzione del vivente a macchina come sempre più indissolubilmente legata alla forma capitalistica dei rapporti sociali. L’estensione del meccanicismo al di là delle scienze e della pratica tecnica (Cartesio) e il suo divenire paradigma politico (Hobbes) deriva dal fatto che la meccanicizzazione è anche «l’operatore di una razionalizzazione dei comportamenti dei lavoratori, il cui governo è l’obiettivo principale. Non si tratta più di razionalizzare con la scienza una pratica spontanea di costruzione tecnica, ma di applicare coscientemente la tecnica innervata dalla scienza alla gestione dell’agire umano». Il paradigma meccanicistico legittimava quindi l’ordine politico sin dall’epoca moderna; ma, con il fordismo e il taylorismo, il capitalismo stesso «diventa un sistema totale di gestione della società che assorbe in sé le funzioni politiche», per cui l’articolazione tra la visione meccanicistica e la pratica sociale corrispondente al capitalismo industriale avanzato diventa strutturale.Ora, anche della teorizzazione marxiana della tecnica nel modo di produzione capitalistico, quindi del superamento delle opposizioni attraverso lo strumento tecnico, Cavazzini mostra la filiazione dalla Naturphilosophie di Schelling e dall’azione strumentale di Hegel: «come Hegel, anche Marx considera le operazioni dell’assetto tecnico come un superamento della relazione astratta tra il soggetto e la materia». Alcuni passaggi dei Grundrisse si prestano in particolare a essere letti alla luce delle analisi hegeliane dello strumento e delle categorie speculative della Naturphilosophie e dell’Idealismo. Tuttavia, proprio del brano generalmente considerato più profetico, conosciuto come Frammento sulle macchine, Cavazzini considera impossibile ogni attualizzazione, ribaltando così le interpretazioni oggi dominanti: la costituzione da parte del sistema tecno-scientifico di una totalità organica delle pratiche sociali, preconizzato nel Frammento sulla base di un dualismo tra il legame sociale fondato sul mercato e il legame sociale fondato sulla tecno-scienza che sostituirebbe l’incorporazione dell’attività umana in quanto forza-lavoro nel processo di produzione, non può costituire la garanzia dell’emancipazione generale, stando agli stessi presupposti marxiani che individuano l’essenza dei rapporti capitalistici di produzione nell’appropriazione da parte del capitale di quella merce particolare che è la forza-lavoro, e non semplicemente nello scambio di merci come modo di connessione sociale.In altri termini, Hegel e Marx cercano di pensare l’attività tecnica come interna a una produzione vitale totale attraverso la quale un soggetto si manifesta nell’oggettività; condividono la volontà di invertire il movimento di meccanicizzazione del vivente, e in particolare del vivente umano, per ricominciare a pensare l’agire tecnico come modo di esistenza di un soggetto che si autodetermina. Questa visione hegelo-marxiana, sottolinea Cavazzini, era resa possibile dall’estrapolazione di una tendenza presente nell’epoca in cui le loro analisi erano elaborate. Oggi sarebbe difficile pensare negli stessi termini a un potenziale emancipatore della tecnica: «se la tecnica determina in modo incontestabile delle forme specifiche dei rapporti di produzione, non c’è però alcuna ragione per pensare che non sarebbe altrettanto sur-determinata a sua volta da questi rapporti». Di conseguenza, il problema non è tanto pensare la tecnica come legame sociale, quanto tentare di stabilire a quali condizioni sia possibile la trasformazione della tecnica. E non basta mirare a una ricostituzione di una gestione collettiva dell’infrastruttura tecnica: «affinché le tecniche e le istituzioni possano tornare a essere momenti di un progetto cosciente, bisognerebbe oggi destrutturare i comportamenti reificati che organizzano gli aspetti più intimi della vita quotidiana e dell’agire individuale». Il punto è che nella forma attuale del meccanicismo «l’uomo economico vive nelle circostanze incontrollabili alle quali reagisce con una condotta fissa e immutabile». Questa articolazione tra prevedibilità e perdita di controllo «si oppone direttamente e simmetricamente all’articolazione tra singolarità e attività autotelica che costituisce il modo di esistenza proprio del vivente, avvicinandosi alla condizione dell’automa». Ne consegue che le scienze, per tornare a pensare la capacità specifica del vivente di modificare il suo funzionamento, quindi per ristabilire il primato del fine sulle condizioni date e della retroazione della funzione sulla struttura, devono innanzitutto essere liberate dalla surdeterminazione capitalistica.Sulla base di quanto riportato alla luce da questi studi di archeologia del sapere, ma andando al di là delle intenzioni dell’autore, si può sostenere che le ragioni per cui l’Idealismo tedesco è attuale, nella misura in cui può riaprire il circolo ideologico nel quale si trovano prese oggi le scienze della vita, e per cui la sua inattualità è il risultato di una lotta ideologica in cui ad aver perso sono gli elementi teorici in grado di spezzare l’unità di scienza, tecnica e gestione capitalistica, sono da ricercare nella struttura che la Goethezeit rifletteva, e nel suo rapporto con la struttura che oggi sorregge l’attuale formazione economico-sociale. Inserito in questa prospettiva, questo libro può essere letto come contributo importante non solo per la riflessione sull’inattualità dei principi della biologia, ma anche per un approccio storico-materialista alla questione dell’attualità del materialismo storico.

Fabrizio Carlino

S&F_n. 17_2017

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