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Jean Starobinski – L’encre de la mélancolie [Éditions du Seuil, Paris 2012, pp. 672, € 26]


Per comprendere l’originalità e l’importanza dei saggi raccolti in questo corposo volume, fortemente voluto da Maurice Olender per la collana La librairie du XXIe siècle che dirige per le Éditions du Seuil, occorre premettere qualche parola sul suo autore. Jean Starobinski, conosciuto soprattutto per i suoi lavori sulla filosofia e la letteratura francese del XVIII secolo, è stato allievo e assistente di Marcel Raymond nel Dipartimento di francese moderno dell’Università di Ginevra, prima di essere chiamato come professore ad personam di Storia delle idee e di Letteratura francese. Ma, assieme alla formazione in campo critico-letterario, ha condotto studi di medicina e ha esercitato negli Hôpitaux universitaires di Ginevra e nell’Hôpitaux psychiatrique di Cery, prima di dedicarsi interamente all’insegnamento universitario. Lettore precoce di Bachelard e di Canguilhem, durante il suo soggiorno all’Università di Baltimora negli anni ’50 come insegnante di letteratura francese, mentre redige la sua tesi ès lettres su Rousseau, partecipa assiduamente ai ward rounds e ai confronti clinico-patologici con gli altri medici. E se il suo lavoro letterario è accompagnato da Georges Poulet e da Leo Spitzer, gli interessi scientifici sono alimentati dalle lezioni di Alexandre Koyrè, Ludwig Edelstein e Owsei Temkin, tutti docenti a vario titolo a Baltimora a quell’epoca. Il risultato di questi incontri sono una serie di articoli sulle teorie mediche più discusse all’epoca e soprattutto un secondo dottorato, in medicina, con una tesi intitolata Histoire du traitement de la mèlancolie, testo che desta l’entusiastica ammirazione, tra gli altri, di Michel Foucault, e che inaugura l’interesse starobinskiano per il tema della melanconia, cui dedicherà numerosi altri saggi, alcuni dei quali qui raccolti.Pubblicato per la prima volta per gli Acta psychosomatica dei laboratori Geigy di Basilea nel 1960, questo testo si ferma all’inizio del XX secolo: doveva essere seguito da uno studio sulle più recenti terapie farmacologiche della depressione, del quale era stato incaricato Roland Kuhn, primario di psichiatria all’ospedale di Münsterlingen e, soprattutto, scopritore dell’imipramina, uno dei primi farmaci basati sull’inibizione selettiva della ricaptazione della serotonina (poi commercializzato con il nome di Tofranil). Anche se questa seconda parte non sarà mai realizzata, il progetto iniziale spinge Starobinski ad approfondire lo studio della storia della medicina, piuttosto che le sue applicazioni contemporanee, e gli permette di definire uno stile di ricerca innovativo, caratterizzato da una forte base storico-filologica sulla quale si innesta una raffinata attenzione filosofica diretta ai temi del corpo e della relazione, influenzata soprattutto dal pensiero di Maurice Merleau-Ponty.Quella della melanconia è una questione che attraversa tutta la cultura occidentale ed è un fatto noto che il termine sia di difficile traduzione nelle lingue non europee. Soprattutto, la melanconia, fin dalle sue prime apparizioni scientifiche e artistiche, addirittura in Omero (prima ancora che Ippocrate stabilisse una volta e per tutte il suo nome), è sempre accompagnata dalla questione del pharmakon più adatto a curarla o a mitigarne gli effetti. Per questo, la ricostruzione starobinskiana è caratterizzata come storia della terapia, più che del sintomo: una storia che inizia nell’antichità greca, nella quale il filosofo e il medico lavorano assieme – il primo impegnato a curare le malattie dell’anima, il secondo le passioni del corpo (p. 51) – prima che il cristianesimo consideri le prime come peccato e le seconde come punizione o prova. Il Rinascimento, «età d’oro della melanconia» (p. 62), riunisce di nuovo corpo e anima e sancisce l’efficacia delle droghe sullo spirito, mentre la modernità si concentra piuttosto sulle lesioni d’organo da una parte e sul determinismo sociale e genetico dall’altra; almeno fino alla nascita della psichiatria, che vede nella malattia una coscienza errata del proprio corpo e della realtà, e quindi cerca una via d’accesso all’ineriorità, allo scopo di osservare e condizionare la consapevolezza di sè dell’individuo.Se l’accuratezza e l’erudizione della ricostruzione storica di Starobinski sono fuor di dubbio, la domanda che bisogna porsi per comprendere la sua operazione intellettuale concerne piuttosto il tipo di analisi effettuata: si tratta di filologia, di storia delle parole, di storia delle idee, di critica letteraria dei testi medicali…? Starobinski dichiara, in apertura del suo saggio, di volersi occupare della «persistenza di una parola» (p. 16), cioè di un’ostinazione millenaria a utilizzare la stessa parola per descrivere, almeno fino alla nascita della psichiatria, sintomi differenti e spesso addirittura contrari tra loro, come l’agitazione e l’afasia, l’angoscia e il sentimento di vuoto, la paura di morire e la convinzione d’essere immortali. Attraverso questo gusto per la continuità verbale, difatti, la medicina, pur cambiando essa stessa nel corso dei secoli, afferma e conferma la sua identità e il suo ruolo nella società. La migliore definizione per lo stile investigativo di Starobinski è allora quello di storia semantica: una interrogazione sul senso che individui e gruppi sociali diversi, in epoche diverse hanno dato di una stessa parola.Attraverso l’analisi della melanconia e di qualche variazione sul tema, come la nostalgia, l’ironia e il delirio, i saggi raccolti in questo volume testimoniano dunque di una riflessione teorica intensa e gioiosa, nella quale il piacere dell’autore nello scovare relazioni inedite è assolutamente evidente ed esplicito. Le riflessioni sull’immagine tradizionale di Democrito di Abdera si affianca allora all’analisi di The Anatomy of Melancholy, eccezionale catalogo secentesco elaborato da Robert Burton, e a quella del personaggio di Jacques in As You Like It di Shakespeare, per mostrare come la melanconia sia un tratto caratteriale tipico del filosofo, in quanto portatore di una saggezza, di una coscienza etica che entra in contrasto con le innumerevoli maschere sotto le quali si celano il vizio e la corruzione della società, e che egli cerca di svelare con l’arma dell’ironia. Uno scritto su Van Gogh spiazza il lettore spostando l’attenzione, come in un gioco di specchi, dall’artista al suo medico, Paul Gachet, che fu anche il soggetto di un celebre ritratto, nonché l’autore, come Starobinski, di una tesi in medicina sulla melanconia, e soprattutto egli stesso affetto da questa triste passione. In altri momenti, poi, Starobinski torna medico e si interessa a un delirio di negazione descritto da alcuni psichiatri, che consiste nel rifiutare le attività vitali più elementari (mangiare, orinare) con la motivazione di essere già morti o, al contrario, immortali. Ma è, significativamente, nei testi dedicati ai linguaggi estetici che Starobinski completa la sua riflessione su questo strano sintomo.Questa immortalità melanconica è, infatti, dello stesso tipo di quella che troviamo nello sguardo delle statue antiche che appaiono così spesso nei «paesaggi della melanconia» (p. 471). Da Ovidio a de Chirico, da Medusa alla moglie di Loth, e ancora attraverso Rousseau, Diderot e Nerval, Starobinski mostra che il tema della pietrificazione accompagna spesso il rimpianto, la nostalgia, lo struggimento d’amore. Ed è nei notevolissimi scritti su Baudelaire, «esperto supremo in melanconia» (p. 543), nei cui testi questa immagine torna spesso, che Starobinski offre la sua soluzione all’enigma. La statua «oltrepassa la temporalità umana» e gode in questo di una «superiorità ontologica» rispetto all’uomo (p. 488): essa è chiamata a fissare, a eternizzare di volta in volta la gloria o la tristezza; e nei suoi occhi senza sguardo che si sottraggono a ogni relazione con l’altro e col mondo, essa offre, all’immaginazione dell’artista, un vero e proprio in sè della melanconia.Queste metafore legate al movimento, allo sguardo e alla relazione sono luoghi centrali della riflessione di Jean Starobinski e ritornano in molti suoi scritti: formatosi e vissuto nell’epoca della estrema divisione, specializzazione e fissazione dei saperi in compartimenti stagni, egli si dichiara pensatore della relazione e continua a tenere in movimento – come recitava il titolo di un suo vecchio libro su Montaigne – il sapere, creando nuovi percorsi, nuove connessioni, insomma offrendo nuova linfa vitale a conoscenze che tendono a pietrificarsi quando restano isolate per troppo tempo nelle loro discipline particolari.

Aldo Trucchio

01_2014

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