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André Leroi-Gourhan – Il gesto e la parola – tr. it. a cura di Franco Zannino, Giulio Einaudi editore, 2 voll. [Torino 1977, pp. 482, € 30]


«A tutti i livelli di civiltà, fin dai tempi più remoti, una delle preoccupazioni fondamentali dell’uomo è stata la ricerca delle proprie origini. Questa inclinazione a trovare il riflesso di se stesso nelle acque profonde del è stata in genere facilmente soddisfatta. Ancora oggi tutti gli uomini di cultura, non sapendo dove sono diretti, nutrono lo stesso desiderio dei loro antenati di sapere da dove provengono; passato bastano tuttavia brevi riferimenti al passato delle grandi scimmie perché in generale siano tranquillizzati».Sin dalle primissime battute dell’opera, il paleontologo francese mette in evidenza quale sia la sua vera intenzione: far luce sugli aspetti più significativi delle varie trasformazioni subite da quello strano essere che si è autodefinito Homo sapiens sapiens e che, quando indaga sulla propria “storia”, spesso si accontenta di delineare a grandi tratti la propria discendenza dalle scimmie, senza prestare attenzione agli eventi principali che hanno caratterizzato il cosiddetto “tempo profondo”. Cioè quel tempo così lontano, che risulta per i più inimmaginabile e privo di importanza e che, invece, per André Leroi-Gourhan occorre scandagliare con grande attenzione, se si vuole ricostruire la complessa e intricata trama degli innumerevoli mutamenti della vita sul pianeta Terra, a partire dalla sua comparsa fino a giungere a quell’incidente di percorso chiamato uomo. Ma per quale motivo occorre avventurarsi in un viaggio, a dir poco, tortuoso, percorrere a ritroso sentieri inesplorati ricchi di trappole e sabbie mobili in cui facilmente annegare? Cosa se ne può ricavare hic et nunc? In altri termini: qual è il problema, filosofico e antropologico al tempo stesso, che spinge a riprendere tra le mani un testo monumentale come Il gesto e la parola. A questo quesito, solo apparentemente retorico, si possono dare risposte differenti. Si potrebbe dire, come ricorda lo stesso Leroi-Gourhan, che l’uomo ha una sorta di tendenza innata, talvolta degenerata in ossessione, a interrogarsi sulle proprie “radici”. Oppure si potrebbe ricordare che fa parte dell’essenza – ammesso che così la si possa definire – della scienza moderna il distruggere tutte le favole religiose e le narrazioni più o meno metafisiche sulla genesi dell’uomo; e che quindi quest’opera di demistificazione deve continuare tenendo presenti i brillanti risultati ottenuti dallo stesso Leroi-Gourhan. Ma, a ben guardare, si potrebbe anche osservare che è quasi una necessità il guardarsi alle spalle servendosi di discipline come la paleontologia, l’antropologia, l’archeologia, perché l’attuale momento storico, in un certo qual senso, costringe l’individuo a essere un Giano bifronte, a tornare costantemente sui suoi passi senza perdere di vista il suo futuro prossimo e neppure la sua condizione presente. Quella stessa condizione presente – piuttosto incerta e caratterizzata da discorsi retorici e pericolosi sul futuro dell’uomo – nella quale negli ultimi decenni hanno attecchito filosofie postumane, troppo postumane, che, votate a gettare le basi per un venturo paradiso terrestre, completamente asservito ai dettami iper-razionali della tecnologia, hanno diffuso, spesso e volentieri, pesanti pregiudizi sull’evoluzione dell’uomo e sul suo rapporto con la tecnica antica e moderna. A tal fine, essendo chiaramente velleitario prendere in esame l’intero complesso delle argomentazioni scientifiche dello studioso transalpino, si ritiene opportuno soffermarsi solo su alcuni elementi di grande interesse. In quest’ottica, risulta essere altamente indicativo l’esergo scelto da Leroi-Gourhan per il secondo capitolo intitolato Il cervello e la mano. Si tratta, infatti, di un passo tratto dal Trattato della creazione dell’uomo di Gregorio di Nissa, in cui si legge: «Così grazie a questa organizzazione, la mente, come un musico, produce in noi il linguaggio e noi diventiamo capaci di parlare. Non avremmo certo mai goduto di questo privilegio, se le nostre labbra avessero dovuto assolvere, per i bisogni del corpo, il compito pesante e faticoso del nutrimento. Ma le mani si sono assunte questo compito e hanno lasciato libera la bocca perché provvedesse alla parola». Questa citazione consente a Leroi-Gourhan di introdurre quello che dal suo punto di vista è il risultato ultimo cui è giunta la paleontologia: e cioè che è stata la mano a liberare la parola. Secondo la ricostruzione approfondita offerta dallo scienziato francese, l’arco temporale, che va dal pesce dell’Era primaria all’uomo dell’Era quaternaria, è caratterizzato da un insieme di basilari liberazioni: «quella dell’intero corpo rispetto all’elemento liquido, quella della testa rispetto al suolo, quella della mano rispetto alla locomozione e, infine, quella del cervello rispetto alla mano» (p. 33, vol. I). Queste liberazioni progressive determinano, di volta in volta, un’accelerazione palese del processo evolutivo, che, a sua volta, per essere adeguatamente compreso, richiede un’attenta disamina di quello che per Leroi-Gourhan è un fattore basilare: la mobilità. Nel caso dei pesci, i cui mezzi di locomozione sono le pinne, è possibile rilevare un movimento laterale, ottenuto grazie all’azione dei muscoli solidali con l’estremità cefalica, mentre la colonna vertebrale non sostiene nulla ma serve solo a portare il midollo nel cranio. Un passaggio, per certi aspetti cruciale, si ha nella fase dell’Anfibiomorfismo, la cui peculiarità è la presenza di quattro arti adibiti alla locomozione terrestre e nella quale, nonostante la prossimità delle scapole al cranio, si evidenziano già i vari componenti dello scheletro di tutti i Vertebrati. Inoltre, il cranio, non ricevendo più alcun sostegno da parte dell’elemento liquido come nel caso dei pesci, viene a trovarsi in una situazione di instabilità nella parte estrema del corpo. In altre parole, il cranio comincia a svilupparsi in maniera particolare dovendo provvedere contestualmente alle esigenze della mandibola e a quelle della sospensione. Viene, dunque, a crearsi un rapporto stretto tra posizione, dentatura, funzione dell’arto anteriore e cranio, rapporto che sarà evidenziato ancor più dalle fasi successive, quella Sauromorfa e quella Teromorfa. Ma la svolta vera e propria avviene nell’ultima fase tracciata da Leroi-Gourhan, la fase del Pitecomorfismo, in cui il dispositivo legato all’opposizione delle dita determina un tipo di locomozione sempre più dipendente dal ruolo prensile della mano, che, a sua volta, viene impegnata per operazioni più specifiche e complesse contribuendo in tal modo a un incremento del volume cerebrale. Le scimmie, dunque, pur essendo i parenti prossimi dell’Homo, presentano una conformazione fisica e un tipo di locomozione molto lontani da quelli che si affermeranno con gli Antropiani. Con questi ultimi, in effetti, grazie al prevalere di una motilità verticale, si libera completamente la mano – si sviluppa il gesto – e al tempo stesso la faccia si distingue, si isola, per meglio dire, dalla parte posteriore del cranio, contribuendo alla nascita della parola. I movimenti dei primi uomini, la loro manualità, sono completamente diversi rispetto a quanto si può notare nell’analisi delle scimmie: c’è una maggiore precisione, una considerevole varietà, che nel tempo aumenterà in maniera esponenziale. E proprio con le mani i primi esemplari di Homo riuscirono a costruire utensili attraverso modalità di lavorazione non banali; utensili che non devono essere visti semplicisticamente come prodotti esterni dell’attività dell’uomo, che riesce, grazie all’azione congiunta di mano e cervello, a porre in essere tecnicamente qualcosa di concreto, ma, piuttosto, come ciò che, creato dall’uomo, ha un effetto reversivo sull’uomo stesso. Per Leroi-Gourhan, insomma, la tecnica primitiva ha un’azione di ritorno sui soggetti, nel senso che tra biologia e i primi prodotti “artigianali” si ha un rapporto tale che l’una influisce sugli altri, e viceversa. Per questa ragione, essa va considerata come un partner evolutivo dell’uomo stesso, nella misura in cui ne modifica il profilo biologico in maniera considerevole. Ma, stando così le cose, ci si potrebbe chiedere se in realtà questa concezione della tecnica, vita come partner co-evolutivo, non sia estendibile anche alla tecnica moderna e alle ultime conquiste della cibernetica e della robotica. Si potrebbe chiamare in causa la parte iniziale di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, quando il regista si concentra sull’alba dell’uomo, catturando con la macchina da presa immagini suggestive di una terra desertica in cui varie gruppi di scimmie combattono, tra loro e contro le fiere, una battaglia all’ultimo sangue per la sopravvivenza. A un certo punto vengono scosse da un sibilo, che sembra provenire da un monolito, un parallelepipedo di colore scuro che spunta dal terreno. Ma poco dopo riprende la solita vita fatta di scontri mortali, un bellum omnium contra omnes. E, proprio nel corso di una sanguinosa zuffa, una scimmia usa l’osso di un animale ucciso come arma. Si compiace della sua scoperta, lancia nell’aria l’osso, che a quel punto si trasforma in navicella e lo spettatore è catapultato da un momento all’altro in un futuro fatto di astronavi e macchine intelligenti, pronte a prendere il sopravvento sull’umano, a spodestarlo dal suo regno definitivamente. Ecco, dunque, il punto: se è vero, come è vero per Leroi-Gourhan, che la tecnica retroagisce sull’uomo, che ne è dell’uomo stesso nell’epoca delle macchine intelligenti? Come viene ridefinita la sua biologia, la sua struttura cerebrale? Sopravvivrà o sarò costretto a soccombere? A Hal l’ardua sentenza.

Ciro Incoronato

S&F_n. 10_2013

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