Di formazione e professione paleontologo, S.J. Gould è noto per essere stato uno studioso e un divulgatore delle teorie scientifiche attinenti alla biologia e teorico che ha contribuito all’arricchimento e alla problematizzazione della nozione di evoluzione.In Italia, sono uscite varie sue opere ma nessun editore si è mai fatto carico anche solo dell’idea di mettere a disposizione l’intero corpus dei suoi studi, di tale entità da rendere impensabile, nell’odierno panorama editoriale, qualsiasi ipotesi di operazione complessiva. Ciononostante, negli ultimi quindici anni, grazie al lavoro appassionato di vari curatori e traduttori, il pubblico italiano più o meno specializzato ha potuto apprezzare la diffusione di alcuni tra i lavori più importanti di quest’autore sui generis. Mancava però finora all’appello una delle sue pietre miliari: Ontogeny and Phylogeny. Pubblicata nel 1977, l’opera non era ancora mai stata edita in italiano, forse perché si riteneva potesse interessare solo una nicchia di specialisti comunque in grado di leggerla in lingua originale o forse anche solo per la mole imponente che presenta. Il decennale della morte ha dato l’occasione, l’anno scorso, per la sua traduzione, che si inserisce nel solco del solido progetto che è alla base della collana Epistemologia della Mimesis e che è stata portata avanti, con la consapevolezza e la sapienza di chi conosce la materia, dai traduttori (A. Cavazzini, S. De Cesare, M. Pappalardo e F. Turriziani Colonna) e dalla curatrice (M. Turchetto).Il titolo riassume il problema di fondo: l’ontogenesi, lo sviluppo individuale, ha a che fare con la filogenesi, lo sviluppo delle specie; ma, precisamente, qual è il loro rapporto reciproco? La questione non è, ovviamente, capziosa e, tantomeno, secondaria. E non lo è tanto per la biologia quanto, secondo Gould, per la visione generale della presenza dell’uomo nel mondo.Per un approccio iniziale, uno sguardo all’organizzazione del testo aiuta chi, come il recensore, non è un esperto del ramo. Il volume si divide in maniera chiara in due sezioni, una prima dal taglio storico a cui segue una seconda dal taglio teorico. A questa divisione fa eco un “momento riflessivo”, nel capitolo mediano e in quello conclusivo, che esplora lo sguardo che l’uomo in quanto scienziato porta su di sé in quanto essere sociale.Le due parti, sostanzialmente uguali, sono dedicate rispettivamente al tema della “Ricapitolazione” e a quello dell’“Eterocronia e pedomorfosi”. La ricapitolazione, una teoria caduta in disgrazia, viene affrontata dall’autore da un punto di vista storico. La sua elaborazione è il tentativo di rispondere a determinate esigenze di comprensione sorte da “dati” empirici e, insieme, è il frutto di un certo sguardo diretto verso la natura da cui sorgono quei dati. In questo senso, la teoria ricapitolativa è anzitutto la forma concettuale che assume l’analogia tra ontogenesi e filogenesi, un’analogia necessaria per il pensiero umano sin dall’antica Grecia. Lo studioso statunitense ne dà dimostrazione prendendo le mosse da Aristotele per poi risalire nei secoli giungendo ai dibattiti di fine ottocento e inizio novecento.La storia moderna dell’idea ricapitolazionista trova tra i suoi iniziatori il preformismo di Bonnet (1720-1793), in cui «la complessità del prodotto finale» è «presente fin dall’inizio, sebbene il germe e l’embrione giovane sia troppo piccolo o troppo trasparente per mostrarla» (p. 29).Vede uno dei suoi momenti grandiosi nella Naturphilosophie, che legge questo passaggio attraverso gli stadi adulti ancestrali come la conferma che «l’intero regno animale non è altro che la rappresentazione di numerose attività o organi dell’Uomo; nient’altro che l’Uomo disintegrato» (p. 53), secondo una potente immagine di Oken. La ricapitolazione, dunque, presuppone e vuole confermare 1) che la natura segue uno sviluppo; 2) che questo sviluppo è un unico grande movimento; 3) che questo grande movimento presuppone una «qualche forza formativa»; 4) infine, che al vertice di questo sviluppo si trova l’Uomo, espressione massima di tutta la Natura.Trova, infine, il suo apice nella formulazione di Haeckel (1834-1919) la cui sintetica affermazione «l’ontogenesi è la ricapitolazione breve e rapida della filogenesi» (p. 81) assume l’incisività di una scritta nel marmo. Lo sviluppo dell’individuo è, dunque, la ripetizione dei «principali cambiamenti di forma evoluti dai suoi antenati durante il loro lungo e lento sviluppo paleontologico». Qui più che sulla centralità cosmica dell’uomo è sulla tradizione di cui esso è portatore, la tradizione dell’intera vita del mondo naturale, che è posto l’accento.L’analisi storica di queste e altre teorie serve a Gould per far emergere diversi aspetti a cui tiene particolarmente. Un primo aspetto è sicuramente il fatto che le leggi teoriche scientifiche sono abbandonate quando diventano «fuori moda nell’approccio» e «insostenibili nella teoria» (p. 155). Non si tratta dunque di una confutazione che porta a smentire l’inadeguatezza di determinate formulazioni rispetto a una verità da scoprire, bensì, in termini precisi, in cassette di strumenti epistemologici che diventano insoddisfacenti e inadeguate alle necessità che richiede il contesto umano – diremo qui genericamente. Così, non è un giudizio di disconoscimento, come invece vorrebbe la vulgata, che colpisce ogni teoria in un determinato momento, quanto piuttosto una impossibilità pratica di funzionamento che porta a una selezione di quegli strumenti della “cassetta” che sono ancora utilizzabili e all’abbandono di altri: la nuova teoria lavora ancora con materiali precedenti cambiandone la posizione nel quadro teorico, modificandone la funzione e il ruolo. È quanto Gould sottolinea mostrando il debito della teoria darwiniana nei confronti di von Baer (pp. 76-78) e di Agassiz (p. 79).Nella scrittura di Gould si riconosce un vero e proprio piacere sia per i grandi affreschi teorici che per la passione umana che vi si cela. Non si tratta, di antropocentrismo; Gould ha piuttosto presente in termini chiari che qualsiasi domanda scientifica venga posta in ambito biologico ha a che fare con l’esigenza dell’uomo di comprendere l’ambiente in cui vive e di comprendersi nel mondo. È in questo senso che Gould imposta la seconda parte di questo corposo lavoro e, ancor di più, il filo rosso della domanda sull’uomo che torna per orientarne la prospettiva.Una volta formulati i termini del discorso in chiave storica, Gould imposta, nella seconda parte, il proprio ragionamento teorico. «La filogenesi è una sequenza di ontogenesi; è raffigurata presentando stadi comparabili in punti scelti e standardizzati» (p. 193). Questa semplice affermazione dice già qualcosa di preciso sul tipo di rapporto che sussiste tra le due tendenze: non si tratta di una legge universale e univoca bensì, proprio secondo l’impostazione di partenza che definisce il rapporto tra i due concetti come un’analogia, di una chiave di lettura della relazione possibile tra due temporalità. In altri termini: quale relazione sussiste tra una temporalità generale biologica (che è poi anche l’unica temporalità che, sedimentandosi in storia – la storia paleontologica –, consenta di dare un senso alla temporalità cosmica) e la temporalità ontologica singolare? Se il principio generale è, ed è sicuramente, quello stabilito dall’evoluzione secondo la definizione datane da Darwin, la questione assume allora una forma più complessa, essendo l’evoluzione una forza che attraversa le temporalità, comune e singolare, moltiplicandole.Anzitutto, Gould sottolinea che ci può essere o un rapporto diretto o un rapporto inverso tra filogenesi e ontogenesi: o la ricapitolazione [«il discendente ripete nella propria ontogenesi una sequenza di stadi che caratterizzavano gli antenati nei loro punti standardizzati» (p. 195)], dunque un parallelismo diretto, o la pedomorfosi [«caratteri precoci di un’ontogenesi ancestrale sono trasposti in avanti per apparire nel punto standardizzato di un discendente» (ivi)], quindi un parallelismo inverso.Se questa affermazione potrebbe far credere al lettore che Gould pensi una freccia del tempo unica e lineare per la specie, rispetto alla quale l’individuo o accelera o decelera rispetto a un valore medio che è solo statisticamente costruibile, in realtà non è così. Il secondo punto di partenza che Gould tiene a fissare è infatti quello che riguarda i due soli meccanismi morfologici che possono essere messi in atto: l’aggiunta e lo spostamento. Solo lo spostamento di caratteri già esistenti rientra nel discorso del parallelismo, quello dell’aggiunta determina invece una frattura non solo morfologica ma anche temporale. Da qui sorge la moltiplicazione delle temporalità filetiche e ontogenetiche. Allora, se è vero che predomina la categoria del tempo (e sarebbe difficile che fosse diversamente, dato l’obiettivo del libro) è anche vero che la disposizione spaziale acquista un ruolo rilevante. In altri termini, in Gould agisce una sorta di struttura, intimamente aperta, la quale gioca insieme le varietà sincroniche che coabitano spazialmente con la pluralità diacronica dei loro sviluppi.È in questo senso che acquista un valore particolare il concetto, storicamente maturo, di eterocronia nel momento in cui gli viene collegato la nozione di «dissociabilità» (p. 211). In questo modo, al posto di pensare l’organismo come un’unità individuale esso viene frantumato in parti molteplici e solo relativamente predefinite. A questa relativizzazione si aggiunge quella della prospettiva da cui considerare questi fenomeni. L’allometria, per esempio, li misura secondo il variare della relazione tra taglia e forma. Allo stesso modo, «la pedomorfosi e la ricapitolazione sono dei risultati generali che dipendono da un criterio di standardizzazione e non comportano alcuna relazione ineluttabile con qualunque processo eterocronico» (p. 219). Quel che in termini generali possiamo osservare, è che anche nella ricerca teorica di Gould manca ogni interesse per criteri predittivi e l’attenzione si concentra sull’apertura dei sistemi adottati (cfr. pp. 236-237).È in questa prospettiva che egli utilizza nell’ultimo capitolo i concetti che ritiene definiscano i meccanismi evolutivi fondamentali: progenesi, neotenia, pedomorfosi, ambienti k e r, adattività (cap. IX); opposizione alla “rilevanza evolutiva” e al “gradualismo” (pp. 302-303); evoluzione a mosaico, equilibrio precario (pp. 328-338). Essi rientrano in quella cassetta degli attrezzi di cui dicevamo e che serve a Gould per articolare la sua complessa formulazione della teoria della neotenia umana. Qui ricorderemo sinteticamente solo che, se essa è collegata a un modello proprio anche di altre specie naturali, vi si differenzia essenzialmente poiché l’enfatizzazione del ritardo dello sviluppo (p. 359) introduce un rallentamento che permette di cogliere possibilità multiple, «piccoli cambiamenti» (p. 363), e agisce «di concerto» (p. 360) con altri fattori che operano autonomamente ma si trovano a essersi storicamente incrociati in una congiuntura evenemenziale che ha prodotto quest’uomo che noi possiamo essere.Quest’ultima parte porta a conclusione quel filo rosso che determina la prospettiva generale dello studio gouldiano e che trova il suo momento precedente nel capitolo mediano, a cui già accennavamo, dove, con un’attenzione particolare per la storia delle implicazioni extrascientifiche delle teorie biologiche, Gould si interroga su come abbiano interagito gli sguardi teorici sulla natura con le politiche dirette a gestire la natura umana? Antropologia criminale e sociale, scienze dell’educazione (come si direbbe oggi) e psicanalisi si sono rivolte alla natura dell’uomo pensando di trovare una chiave oggettiva di lettura nei modelli biologici dominanti nell’epoca in cui sono sorte. Esse hanno pensato di reinterrogare un’essenza costituendo invece tale essenza come gerarchizzazione dell’esistenza umana. Riporta Gould, riassumendo il punto di vista di quelle posizioni: «Le proposte di cambiamento potrebbero sconvolgere l’etica tradizionale, ma qualora dovessero portare la procedura sociale in armonia con la biologia umana, sarebbe possibile stabilire l’inizio di un ordine razionale e scientifico, libero da antiche superstizioni e, dunque, a lungo termine, propriamente umano» (p. 117). È così che è nato il fraintendimento che ha affettato queste discipline e su cui rimane ancora oggi, a noi, di interrogarci, a partire dalla domanda di fondo sul senso del linguaggio tecnico come ciò che investe l’umanità dell’uomo nel suo momento costituente e non in quello secondario di reinvestimento.
Didier Alessio Contadini
04_2014