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Hugo Tristram Engelhardt jr. – Dopo dio. Morale e bioetica in un mondo laico – a cura di Luca Savarino [Claudiana, Torino 2014, pp. 314, € 23,50]


“Dopo Dio” è un affresco critico della nostra epoca, una rappresentazione del destino dell’etica nella modernità secolare e illuministica. Se il volume The Foundation of Bioethics (tradotto in italiano con Manuale di bioetica) è percorso da una concezione scettica riguardo alle capacità della ragione, l’ultima fatica del filosofo texano fa sua una direzione peculiare d’indagine preannunciata da volumi quali The Foundation of Christian Bioethics e Viaggi In Italia. In verità un fil rouge attraversa l’intero corpus delle opere di Tris: la convinzione di non poter fare affidamento sulla ragione per la costruzione di una morale canonica e il conseguente emergere di un universo di “stranieri morali” i cui principi assiologici e le cui regole di inferenza sono profondamente in dissonanza tra loro. Se nel Manuale, però, tale geografia della frammentazione morale era assunta quale dato descrittivo, portando non pochi interpreti a collocare Engelhardt tra i fautori del contrattualismo morale (a torto), a partire da The Foundation of Christian Bioethics comincia a emergere l’angolo visuale del Cristiano di matrice ortodossa che si interroga sulla possibilità di difendere una concezione sostantiva della morale. Dagli stranieri morali, quindi, agli amici morali, intesi come insieme di persone accomunate dalla stessa visione della morale e da medesime regole di inferenza. “Dopo Dio”, nel solco degli ultimi lavori, pertanto, si propone di indagare le conseguenze del fallimento del progetto Cristiano-cattolico prima e Illuministico poi di fondare la morale sulla ragione. Dall’attestazione di questo fallimento, però (e qui sta la novità del discorso engelhardtiano) viene tematizzata l’esigenza di recuperare, sotto la spinta (e grazie alle indicazioni) del Cristianesimo ortodosso, una dimensione dell’esistenza (un mondo-della-vita dice il nostro autore) che non sia schiacciata (completamente) da un assillo raziocentrico (totalizzante). Cosa significa vivere sulle rovine del Cristianesimo? Quali implicazioni ha tale avvenimento sulla possibilità di costruire una morale che sia, nel contempo, canonica e  universale? Quale relazione sussiste tra crisi del Cattolicesimo Romano e post-modernità? Questi sono alcuni dei plessi tematici messi a fuoco nel volume.Nel primo capitolo (pp. 25-49) vengono edificate le fondamenta della riflessione di Engelhardt. Il progetto culturale che consisteva nel legare fede e ragione per la costruzione di una morale canonica e universale è fallito e noi viviamo, precisamente, sulle macerie di questa implosione. Il Cattolicesimo Romano ha delle rilevanti responsabilità in questa vicenda. Esso, infatti, avendo deciso di voltare le spalle a Gerusalemme in favore di Atene; avendo deciso di abbracciare la filosofia e la ragione per la giustificazione delle sue affermazioni è rimasto intrappolato in un vicolo cieco. In effetti, questa la prospettiva del nostro autore, la fede non può che reggersi sull’incontro diretto con Dio e non sulla conoscenza di Dio e della morale che la ratio consente di dispiegare. Essendosi sgretolata la convinzione moderna di costruire una morale razionale, che potesse giustificare i suoi principi assiologici attraverso la corretta argomentazione, è fallito anche il progetto di ancoramento (cattolico) della fede nella filosofia.Questo ha determinato l’emergere di una pluralità di narrazioni morali dissonanti che non possono fondarsi su altro che su intuizioni (morali) fluttuanti nell’orizzonte del finito e dell’immanente. Di conseguenza, la morale privata di Dio e dei fondamenti, ha subito un processo di declassamento e ridimensionamento. Nel secondo capitolo dell’opera (pp. 51-105) si apprende, precisamente, che la secolarizzazione della morale ha significato un cambio di paradigma radicale. Si è passati da un’idea della morale come scienza del corretto agire a un’idea della morale come (semplice) questione di stile di vita (declassamento). L’incapacità di produrre una morale canonica, infatti, ha investito tutti gli ambiti dell’esistenza, dalle scelte che concernono il fine vita, alla nascita, al matrimonio, alla sessualità lato sensu. Questi aspetti (fondamentali) della vita di ciascuno, in una cornice privata di orizzonte oggettivo, senza fini ultimi cui guardare, diventano mere questioni di scelte individuali. Questo determina anche che «dopo Dio e dopo la metafisica il punto di vista morale non può più considerarsi come necessariamente prevalente sul perseguimento del bene delle persone che si hanno maggiormente a cuore, per esempio se stessi, la propria famiglia e gli amici, anche quando il venir meno di tale prevalenza mette al repentaglio il bene delle persone in generale e viola i diritti degli individui» (ridimensionamento) [p. 101].Se la morale diviene una macroscelta di stile di vita non è più possibile aspirare per essa a un contenuto canonico né alla, tanto invocata, universalità.Kant è stato l’ultimo autore che, pur consapevole della frantumazione di un mondo, ha tentato di riformulare la morale cristiana (i suoi principi) in modo da non perdere l’ancoraggio forte alla razionalità (tentativo di laicizzazione della morale cristiana). Eppure il suo progetto, inscritto nella stessa parabola fallimentare costruita dal Cattolicesimo Romano, non ha fatto altro che ribadire l’impossibilità di un ancoraggio forte della morale alla ragione. Ѐ stato Hegel, infine, che, primo autore del post-moderno, ha decretato la fine di una narrazione basata sull’equivoco che fosse possibile fondare la morale su una ragione sovra-storica, dalla quale discendessero, a un tempo, universalità e canonicità. Hegel ha sostenuto, infatti, che la morale non può che essere socio-storicamente determinata. Essa si costruisce a partire dalla specifica Sittlichkeit di un popolo. Con Hegel, quindi, la messa in chiaro della dissoluzione del progetto razionalista dell’Occidente è compiuto e le regole della condotta individuale non sono più affare di Dio ma dello Stato. Ma può lo stato vantare, effettivamente, un diritto di surroga rispetto a Dio e i fondamenti? Può esso sostituire l’autorità divina quale garante del rispetto del Bene? Il capitolo 3 (pp. 107-153) è dedicato a una critica serrata di questa posizione. Engelhardt, infatti, ritiene che l’autorità dello Stato Laico non possa che derivare dalla forza. Lo stato non può sostituire Dio e non può produrre, da sé, un discorso morale canonico e universale poiché esso è un prodotto dell’uomo e come tale fluttuante nell’orizzonte del finito e dell’immanente.Alla luce di ciò è evidente, per il filosofo texano, come l’emergere di stati (che egli definisce fondamentalisti laici) che pretendono di imporre agli individui la loro morale pubblica nasca da un fraintendimento della reale natura della forza statuale. Di conseguenza, gli stati dovrebbero incidere quanto meno possibile sulle scelte degli individui (stato minimo alla Nozick) e non dovrebbero imporre principi assiologici e regole di inferenza che, evidentemente, non sono condivise da tutti. Un esempio in tal senso è l’obiezione di coscienza sollevata da quegli operatori sanitari che, condividendo i principi del Cristianesimo, rifiutano di eseguire aborti o di prescrivere la pillola del giorno dopo (obiezione della quale, rileva Engelhardt, alcuni vorrebbero revocare il diritto in nome della laicità).Qual è, allora, l’unico appiglio in grado di mettere d’accordo individui caratterizzati da profondissime divergenze sul piano morale? Se non è lo Stato, impossibilitato a essere garante di una morale canonica e/o universale che appiani i contrasti, esso può essere solo il permesso che le persone liberamente accordano le une alle altre.In un mondo post-moderno e post-cristiano, quindi, in cui è fallito il progetto di legare fede e ragione indissolubilmente e  in cui Dio e i fondamenti sono respinti, qual è lo spazio di manovra possibile per i credenti? Essi sono destinati a essere riassorbiti dalla cultura laica dominante? La risposta di Engelhadt, a partire dal capitolo 4 (pp. 155-188), non lascia margine a equivoci: bisogna riscoprire le autentiche radici della fede, al di là di sterili appelli alla ragione. Il Cristianesimo ortodosso (al quale il nostro autore si è convertito nell’anno 1991) conserverebbe il richiamo alla genuina spiritualità cristiana, avendo evitato di far proprio il corno razionalistico di Eutrifrone. Questo significa che per gli Ortodossi il bene non può essere conosciuto sola ratione e a prescindere da Dio, ma solo a partire dall’incontro con Lui.Fatte proprie queste premesse, l’idea che anima il mondo Cattolico, di contrastare la crisi della religione nel mondo occidentale (ancora) attraverso la filosofia e la corretta argomentazione morale (questa la posizione di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), è destinata a sbattere contro un muro infrangibile. Solo la ripresa della via antiqua, della vita cristiana accompagnata dalla fede e dal rapporto con Dio e il Trascendente può costituire un’alternativa alle pretese fallimentari della teologia razionalistica (pp. 229-268).Se una cultura comune non esiste, se la bioetica è contrassegnata da una polifonia di discorsi morali contrastanti, che non consentono di strutturare piattaforme per il dialogo (pp. 209-228), l’unica strada da imboccare per uscire dall’impasse nella quale ci siamo cacciati è ridestare l’orecchio per ascoltare la voce di Dio.In effetti, l’uomo messo di fronte alle domande fondamentali si trova sempre prima o poi davanti a Dio. Il problema è la risposta che si articola a partire da quest’incontro.Affidarsi alla ragione è un itinerario (già) sperimentato, e fallimentare. Non resta che abbracciare il corno teocentrico dell’Eutifrone (vale a dire fondare il bene su Dio e non su una ragione in grado di camminare da sola).Solo marcando la propria distanza dalla cultura laica secolarizzata e dai nemici morali che la abitano si può avanzare la legittima pretesa di fare esperienza del mondo-della-vita cristiano (pp. 269-285).Le posizioni di Engelhardt ricordano molto da vicino quelle del primo Karl Barth, per il quale era necessario abbandonare una visione di Dio a partire dall’uomo e segnalare l’assoluta Alterità del Trascendente rispetto all’umano.Abbracciata questa posizione, però, non si torna più indietro. Riconoscere un’idea forte di Verità può essere estremamente vantaggioso per la costruzione di un orizzonte di senso non autoreferenziale o socio-storicamente determinato. Essa però costituisce (anche) la premessa per l’emergere di fondamentalismi che determinate persone utilizzano per imporre le proprie idee in contesti che, volendo invertire l’espressione coniata dal filosofo texano, possono essere definiti stati fondamentalisti religiosi.I punti di forza del discorso di Engelhardt vengono, così, a essere anche i suoi punti deboli. La vera sfida della modernità sta nel tentativo di strutturare un concetto di verità che prescinda dalla trascendenza, ma non si abbandoni, nel contempo, a forme, più o meno robuste, di relativismo e nichilismo. Engelhardt ha voltato le spalle a questa sfida, scegliendo quella che egli definisce la via antiqua. Qui è riposta la suggestione della sua opera insieme ai suoi aspetti più paradossali e contradditori.

Luca Lo Sapio

S&F_n. 11_2014

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