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Arturo Martone – Mettere (in) bocca. Sei studi semiolinguistici [Edizioni ETS, Pisa 2013, pp.217, € 21]


«Io credo che il leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo: un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti anche se soltanto raramente ho colto il bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia incessantemente continuato a mirare». Con questo passo di Wittgenstein si chiude la raccolta di saggi di Arturo Martone, Mettere (in) bocca. Sei studi semiolinguistici. Cominciamo dalla fine per scoprire come l’intero discorso, anziché proseguire linearmente, si sviluppi in maniera circolare, contenendo in sé una serie continua di rimandi reciproci, che svelano il terreno comune di questa serie di studi condotti indipendentemente l’uno dall’altro.Mettere bocca, mettere in bocca, i sei saggi chiamano in causa la lingua nella sua duplice funzione di organo di produzione linguistica e di sede della ricezione del gusto, rivelando, in questo confronto, inattesi scenari per nuove formazioni di senso. Scritti in tempi diversi, i testi sono venuti a comporre una rete che ha mostrato la presenza, in ognuno di essi, di un significato del tutto nuovo. L’autore ricorda che «tale rete si è fatta vedere solo dopo, in quell’esercizio della memoria vivente, accompagnato da quello della lettura, e in un tempo che è sempre sfasato e sfalsato rispetto a quello della scrittura, ma che pure sembra capace, anche se non sempre, di tramutarsi in un gesto nuovo di essa» (p. 9). Gli studi prospettano incroci inaspettati, che spingono il lettore a un’autonoma e continua operazione di riflessione. A fare da cornice all’intero impianto del testo un inedito fuori-studio, Di una natura umana? Il punctum etico di Wittgenstein (pp.183-193), che si presenta in questa sede come elemento unificatore degli scritti (p. 14).La perpetua osservazione, libera da ogni presupposto teorico, che caratterizza il pensiero wittgensteiniano viene qui a esplicitare la forma e lo stile dell’intero volume, che sfugge a ogni tentativo di inglobarlo in un ambito settoriale univoco e dà luogo a una riflessione che fa tesoro di un continuo confronto tra molteplici orizzonti disciplinari. In questa lettura si tocca con mano una perenne eccedenza di senso, che va oltre il significato veicolato dal libro e che prosegue con il gesto del lettore, che nel corso dell’opera è portato a intraprendere un continuo esercizio riflessivo, a «fare da sé» (p. 188).Nell’offrire un breve assaggio dei nuclei tematici presenti nell’opera, non si può fare a meno di sottolineare ancora una volta come essi vengano analizzati da più fronti e si richiamino l’uno all’altro in un movimento perpetuo. I saggi si offrono a molteplici livelli di letture, prospettando inedite linee di ricerca. In questa sede, chiarisce l’autore, essi vengono «presentati secondo una scansione che non coincide coi tempi della loro pubblicazione, ma che viene già prefigurando l’allestimento di quella rete di senso di cui si diceva» (p. 10).Il primo saggio, Fra palato e parlato. Lingua del gusto e gusto della lingua (19-43), definisce l’orizzonte entro cui si muovono le riflessioni, nella misura in cui «problematizza il rapporto tra ciò che compete alle percezioni gustative […] e quanto è invece di pertinenza della lingua quale sistema ordinato di generazione e produzione di senso» (p. 10). L’indagine viene messa in atto lungo il terreno d’incontro tra l’estetica da un lato e la semiotica e la teoria dei linguaggi dall’altro. Punto di avvio dell’indagine viene a essere la differenza tra gustare e apprezzare, nella misura in cui se il primo fa riferimento a un immediato gradimento legato all’esperienza gustativa, il secondo rimanda a una conoscenza del prodotto assaporato e implica una competenza che affina la medesima esperienza, consentendo di viverla con maggiore consapevolezza (pp. 20-21). In quest’ottica, il gusto rientra a pieno titolo nell’orizzonte dell’estetica, il cui fine, richiamando Baumgarten, «è la perfezione della conoscenza sensibile» (p. 24).Il peso che l’esperienza assume in ambedue i momenti, quello del gradimento e quello dell’apprezzamento del prodotto, conduce a mettere in campo il problema della soggettività, affrontato nel saggio nell’ottica di un «realismo […] non ingenuo», per il quale «una soglia qualitativa non è qui istituita fra il soggettivo e l’oggettivo […] ma fra il meno esercitato e il più esercitato» (p. 24). Al centro di questo discorso troviamo, dunque, proprio l’esperienza, che mediante il linguaggio si appresta a diventare accessibile, almeno in una certa misura, a un altro. L’autore giunge a questo punto a fare i conti col problema «di un possibile rapporto fra lingua del gusto (come lingua del palato) e gusto della lingua (come lingua del parlato)» (p. 26), valutando la proposta secondo cui «il gusto non è estraneo alla lingua» (ibid.). La condizione stessa di possibilità di un tale rapporto consente di riabilitare la vividezza della conoscenza sensibile, a lungo tenuta in una posizione marginale da un orientamento culturale razionalistico (p. 25), e di metterla «a disposizione, ma in maniera non regolativa, della lingua, della lingua del parlato» (p. 27).Ci si chiede, a questo punto quale possa essere la lingua capace di riflettere l’esperienza gustativa (p. 29). La risposta viene da un passo del racconto di Alessandro Vinci, che fa da sfondo all’intero studio. In esso l’assaggio di pietanze esotiche viene descritto e reso accessibile ai lettori attraverso il ricorso alla metafora, che presenta bruchi come gamberi, vermi come gnocchi (p. 31). Più che mero artificio retorico, la metafora consente di categorizzare le esperienze, di ri-significarle (p. 35), per renderle, così, familiari. Cruciale diventa, al tal punto, la continua e mai compiuta opera di traduzione che il linguaggio fa dell’esperienza gustativa, nel tentativo di sottrarla sempre di più alla sua irriducibile opacità. In questo incontro perenne, fondato su una reciproca permeabilità di gusto e linguaggio, la lingua stessa si fa «gustosa» (p. 43), lasciandosi vivificare di volta in volta dai contenuti stessi dell’esperienza.Gli esiti di questo imprescindibile incontro di esperienza e linguaggio vengono approfonditi nei successivi due saggi. Il secondo, La mente ingegnosa di Vico. Senso comune e Intelligenza naturale (pp. 19-43), nel valutare l’ipotesi avanzata da Vico di un radicamento dell’ingegno nel terreno d’incontro tra mente e corpo, si sofferma su due concetti chiave: quello di senso comune, nella sua duplice accezione di facoltà di sentire e attribuzione di senso e quello di universale fantastico. Se il primo introduce la possibilità di un accordo tra gli uomini non più in base a convenzioni, bensì in virtù di un «sentire diffuso (e al tempo stesso proprio)» (p. 63), il secondo riscopre il carattere poetico nella lingua delle origini (p. 57), peculiarità che consente al linguaggio di dar voce alle esperienze sensoriali, di renderle familiari. «L’espressione poetica», e con essa la metafora, viene a essere «attribuzione di senso a quanto prima ne era sprovvisto, sol perché prima il sentito cadeva fuori dal sentire, non avendo ancora avuto il tempo, il sentito, di farsi sentire» (p. 65).Il ruolo della metafora quale strumento linguistico che consente una categorizzazione dell’esperienza viene approfondito nel terzo capitolo, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca (pp. 45-72), intrecciandosi con un’analisi della nominazione, quale «schema fondante di ogni categorizzazione linguistica» e, in quanto tale, sempre «in gioco nei processi di riattribuzione di senso» (p. 11). Nel saggio l’autore ricorda che «una metafora genera una nuova conoscenza […] in quanto categorizza […]qualcosa nei termini di qualcos’altro» (p. 76). Imprescindibile risorsa cognitiva, la metafora mette in luce l’originaria creatività del linguaggio e mostra ancora una volta l’ineludibile rapporto di quest’ultimo con l’esperienza.Tale problematica relazione viene a essere la protagonista del quarto saggio, Un bambino grida – si è fatto male? Sul ‘linguaggio d’azione’ di Condillac (pp. 101-139), che ha per oggetto la tematizzazione del concetto di linguaggio d’azione delineato dal filosofo francese. La riflessione si focalizza sullo scarto temporale tra la pura e istintiva espressione di una sensazione, quale è, per esempio, quella del dolore, che viene manifestato mediante il grido, e la sua relativa enunciazione linguistica, appresa e usata con consapevolezza solo in un secondo momento. La narrazione linguistica, nel suo rivolgersi a un destinatario, manifesta un’intrinseca valenza comunicativa, di cui è sprovvista la spontanea emissione del grido. La mancanza di un destinatario che caratterizza tali forme di espressioni denuncia la condizione di isolamento che caratterizza il vissuto individuale e induce a chiedersi se davvero il gusto sia depositario di una propria specificità rispetto alle altre forme di conoscenza sensibile. L’argomento viene affrontato nel quinto saggio, Giudizi di Gusto. Del senso del sapore e di qualche sua aporia (pp. 141-160). Qui si evince ancora una volta che l’esperienza gustativa, al pari di ogni vissuto endocorporeo, porta con sé un’aporia: se da un lato si fa portatore di un’interna certezza, dall’altro si mostra inaffidabile intersoggettivamente, proprio perché tale certezza non risulta mai pienamente condivisibile mediante il linguaggio (142). Tale forma di comunicazione poggia sulla credenza, per la quale chi si aspetta di essere creduto per la propria esperienza deve dimostrarsi disposto a credere a sua volta (p. 153). La condizione di possibilità di una comunicazione del giudizio di gusto viene a essere quella di una fiducia reciproca, in base a cui «si dà, certo, competenza, autorevolezza, performatività di un giudizio che si mostra capace di credibilità e testimonialità, ma solo fin quando altre competenze, altre autorevolezze, altre performatività non vengono a interromperne il decorso» (p. 154).La conclusione richiama alla mente la possibilità di una comunicazione dell’esperienza gustativa, discussa nel primo saggio. Martone ritorna sull’argomento nel sesto e ultimo saggio, Del problematico rapporto tra forma e funzione. A partire dal Gusto (pp. 161-181), in cui, ancora una volta, l’attenzione viene focalizzata sulla portata estetica del giudizio di gusto. Oggetto di analisi in questa sede è la prospettiva presentata da Leroy Gourhan, che esclude le esperienze gustative e olfattive dal giudizio estetico nella misura in cui esse scaturiscono da funzioni sensoriali che, a differenza della vista e dell’udito, svolgono una funzione puramente ricettiva, essendo sprovviste di un organo complementare capace di tradurre le suddette esperienze in simboli (pp. 162-163). Riscattando l’esperienza gustativa, capace, al pari di ogni altra forma di conoscenza sensibile, di accedere a una forma simbolica (pp. 169-174), Martone rilegge il discorso di Leroy Gourhan in un’altra chiave, che riconosce nel linguaggio un’inevitabile sbilanciamento verso l’udito, per l’oralità, e verso la vista, per la scrittura (p. 179). Il problema, allora, diventa quello di una possibile traducibilità delle esperienze gustative e olfattive nei termini di un linguaggio così strutturato. Ed è qui che, fa notare l’autore, «se per dar forma e usare una lingua (vocale) abbiamo bisogno di vista e udito e per assaggiare una pietanza occorrono olfatto e gusto […], non è tuttavia men vero che c’è un organo corporeo sia per le prime due che per le seconde, ed è quello della bocca» (p. 179). Al contempo sede di produzione verbale e di ingestione di cibo, la bocca si presenta come l’organo di quel rapporto di alternanza reciproca tra linguaggio ed esperienza gustativa che abbiamo incontrato all’inizio dell’opera. Ancora una volta la lingua mostra il suo radicamento nell’esperienza, trovando in essa il nutrimento per quella inesauribile produzione di senso che chiama tutti noi a partecipare.

Anna Baldini

S&F_n. 11_2014

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