L’intima relazionalità tra il vivente e ciò che lo “circonda” è un tema da cui difficilmente la ricerca contemporanea può prescindere. Cogliere l’organismo senza il suo ambiente sembra anzi essere diventato un vero e proprio errore metodologico, piuttosto che un mero riduzionismo. Sulla natura di questa relazione, però, c’è ancora molto da dire. In che senso l’ambiente “circonda” il vivente? In che modo a ciò corrispondono fenomeni di codeterminazione e interdipendenza? E che genere di valore euristico e ontologico ha l’atto di separare in interni ed esterni il biologico? Confini Aperti – Il rapporto esterno/interno in biologia si inserisce esattamente in questa dimensione problematica. Nei suoi dodici contributi, il testo propone una rilettura del carattere espressamente dicotomico che ha contraddistinto la concezione del rapporto fra organismo e ambiente. Un’operazione volta a ricucire quelle lacerazioni dualistiche rimaste più o meno latenti nelle attuali concezioni del vivente, e che prova a muoversi fra le intricate polisemie che termini quali “esterno”, “interno”, “ambiente” e “individuo” hanno ereditato nel tempo.Il volume, edito da FrancoAngeli e pubblicato nel 2013, è il frutto del ciclo di conferenze effettuate dal gruppo di ricerca RESViva, Centro interuniversitario di ricerche epistemologiche e storiche sulle scienze del vivente (www.resviva.it). Un lavoro che prosegue nella direzione indicata dai precedenti volumi (L’informazione nelle scienze della vita, Continenza, Gagliasso 1998; Selezione e selezionismi, Forestiero, Stanzione 2008), e che fa proprio dell’«attraversamento dei confini disciplinari» un approccio sistematico, proponendo il costante confronto fra lessici, visioni e sensibilità intellettuali.Esterno e interno rappresentano categorie interpretative forti in biologia, descrittivamente potenti e, proprio per questo, problematiche. Concetti che, se presi alla leggera, sembrano presupporre la facile istituibilità delle demarcazioni fra corpi, organi e sostanze. Ma il confine, per sua stessa natura etimologica, indicale e connotativa, appare piuttosto come qualcosa che sfugge, che opera tagli discreti sul mondo e che al tempo stesso implica unione e scambio. Questo, scrivono nell’introduzione Barbara Continenza, Elena Gagliasso e Fabio Sterpetti, curatori del volume, è più che evidente nella realtà della materia vivente, dove «ogni confine fisico, cellulare, ecosistemico è, per gli organismi, allo stesso tempo una chiusura contentiva e una membrana attraversata dallo scambio tra esterno e interno di materiali, di segnali, di contatti» (p. 10).Quella fra esterno e interno è anzitutto la storia di una distinzione categoriale segnata da secoli di interpolazioni linguistiche e rivolgimenti concettuali. Secoli in cui l’istituzione di confini nel regno del vivente ha spesso finito col ricalcare semantiche e metafisiche storicamente situate (p. 11), generando dicotomie che ancora oggi influenzano la nostra idea di vita biologica. Lungo le sue circa duecento pagine, il volume offre a tal proposito scorci storico-epistemologici ricchi di suggestioni. Una prima significativa sensibilità verso le condizioni esterne (viste non più come contesto inerte ma come agente fondamentale nei processi trasformativi dei viventi) viene individuata da Elena Gagliasso nel pensiero «post-cartesiano, anti-meccanicista e materialista dei sensisti, enciclopedisti e giacobini», uno spaccato storico in cui «importanti figure di naturalisti e medici» quali Cabanis, Condillac, de la Mettrie, Buffon e De Maupertuis, cominciarono a cogliere le «circolarità trasformative e attive tra gli ambienti e i loro abitatori» (pp. 28-29). Con la caduta del modello corpo-macchina cartesiano, un sistema, come definito da Carmela Morabito, che sembrava escludere «l’interazione dinamica» con «un ambiente in continuo cambiamento» (p. 174), cominciò a imporsi l’idea di scambio funzionale fra vivente “abitatore” e ambiente “modulatore”. È qui che va collocata l’opera di Jean Baptiste Lamarck, personaggio cui Giulio Barsanti dedica un saggio più che singolare. Il naturalista francese fu con ogni probabilità il primo a estendere la nozione di ambiente a fattori biotici e abiotici, elementi capaci di innescare la nota catena fisiologica che va dai besoins alle nuove strutture conseguite per uso e disuso. Gran parte della storiografia, sottolinea però Barsanti, si è sempre soffermata sul Lamarck del 1809, «spezzando il legame fra la teoria e il suo impianto fisiologico» e non curandosi dell’evoluzione stessa del pensiero lamarckiano (p. 49). Un pensiero che arrivò apparentemente a contraddirsi nei lavori fra il 1815 e il 1820, quando a emergere fu l’inaspettata ipotesi dell’immutabilità degli istinti. La dialettica fra esterno e interno fu protagonista anche della controversa teoria della pangenesi formulata da Charles Darwin. Il saggio di Barbara Continenza evidenzia in tal senso il rilievo preminente che il tema della variazione assunse nella riflessione del naturalista inglese. Darwin introdurrà la sua celebre ipotesi “provvisoria” solo nel 1868: un’idea considerata da molti come tesi difensiva nata per fronteggiare l’antiuniformismo caldeggiato dal fisico William Thomson (poi Lord Kelvin) e per rispondere alla critica sulla mescolanza dei caratteri mossa da Fleeming Jenkin. A ben vedere, però, quella della pangenesi può essere considerata come una vera e propria teoria della generazione, culmine argomentativo di un impegno intellettuale “persistente”, «che emerse pubblicamente solo nel 1868», ma che «era stato sempre presente e con tenacia indagato nei trenta anni precedenti, a partire dai fin dai primi Notebooks» (p. 76). L’analisi storico-epistemologica di Confini Aperti percorre dunque sentieri inusuali, mostrandoci come sia Lamarck che Darwin fossero rispettivamente meno “lamarckiani” e meno “darwiniani” di quanto si pensi, e facendo luce su confronti intellettuali talvolta meno noti. È il caso del saggio di Marco Celentano dedicato alle intersecazioni fra i modelli evoluzionistici post-darwiniani e la produzione filosofica di Nietzsche. Un’opera, quella del filosofo tedesco, che trovò nella «carica anti-teleologica della teoria darwiniana» un importante punto di riferimento, ma che finì con l’opporsi all’ortodossia mutuata dall’evoluzionismo häeckeliano: un’immagine della natura tesa a «presentare ogni aspetto di ogni organismo come se esso fosse, in ultima analisi, l’effetto di una selezione esterna» (p. 202).Ed è proprio sul carattere fortemente polare che esterno e interno hanno assunto tra XIX e XX secolo che si staglia gran parte dell’analisi offerta dagli autori del volume. Le varie ortodossie emerse durante il Novecento si sono infatti cristallizzate nell’incomunicabilità fra ecologia, genetica molecolare e genetica dello sviluppo (p. 22): un’anteposizione di confini disciplinari spesso mossa dall’esigenza pragmatica della praticabilità dei programmi di ricerca, ma che, negli ultimi decenni, ha lasciato spazio a un ripensamento radicale del legame fra ambienti e viventi. Seguendo tale prospettiva, il contributo di Marcello Buiatti prova a mettere in luce le «regole di coerenza dinamica» sussistenti fra le diverse gerarchie del vivente, ovvero quei livelli della biosfera dove le interazioni «verticali» tenderebbero a generare «ondate di modificazioni» non lineari. Cambiamenti altamente impredicibili, ma mai equiprobabili, proprio perché “vagliati” da vincoli strutturali e regole d’equilibrio (p. 40). Sullo sfondo c’è l’inevitabile riferimento a due scienziati eterodossi rispetto alla Teoria Sintetica: Cornad Waddington, con il suo concetto di stabilità omeorretica, e Lancelot Whyte, padre della teoria della “selezione interna”. Partendo proprio da quest’ultimo, il saggio di Silvia Caianiello esplora il confronto novecentesco fra l’esternalismo funzionalistico della Sintesi Moderna e l’internalismo strutturalista della biologia dello sviluppo. Nel proporre una selezione ontogenetica auto-stabilizzante delle mutazioni, Whyte non solo demarcò le condizioni di possibilità delle variazioni, ma istituì una dialettica (tuttora corrente nell’evo-devo) con la «concezione esternalista darwiniana» (pp. 104-105). È proprio nella biologia dello sviluppo che vanno allora individuati alcuni dei punti di maggiore svolta teorica per ciò che concerne il rapporto esterno/interno. Nell’ontogenesi, i programmi genici e le circostanze ambientali interagiscono tanto profondamente da rendere “inadeguato” quasi ogni determinismo. Come sottolinea Alessandro Minelli, infatti, «a parità di patrimonio genetico lo sviluppo può seguire strade differenti a seconda delle condizioni ambientali» (p. 95). In modo analogo, i più recenti studi provenienti dalle neuroscienze cognitive mostrano come l’indagine sul “mentale” metta in rilievo l’inestricabile intersezione fra geni e ambiente. Ciò consente anzitutto di superare l’errore metodologico che ha caratterizzato la sociobiologia più radicale: quel «tenere fissa e immutata la taratura dello strumento interpretativo – come spiega Emanuele Coco – sia quando si studia la relazione gene/anatomia, sia quando si studia la relazione gene/comportamenti basilari, sia quando ci si riferisca alla relazione geni/comportamenti complessi» (p. 225). In più ci permette di focalizzare l’attenzione su ciò che meglio si presenta come interfaccia fra corpo e ambiente: l’azione. Se, come sottolinea Carmela Morabito, esiste un cablaggio variabile delle reti neurali in base all’ambiente, ciò avviene in prima istanza in una dimensione esperienziale “motoria”, in un embodiment dove sfumano le «concezioni cognitive seriali fra percezione e azione» (come testimoniano nel loro saggio Leonardo Fogassi e Francesca Rodà) e dove frana la più tradizionale dicotomia post-cartesiana mente/corpo.In un contesto fatto di intrecci funzionali, di confini che slittano e sfumano, guardare al vivente in un quadro simbiotico diventa allora necessario. Capire gli scambi metabolici, i mutualismi e le reti di interazione simbiontiche significa in primo luogo comprendere la dimensione eco-sistemica che caratterizza i processi biologici. Fenomeni come quelli illustrati da Manuela Giovannetti, introducono piani d’interazione ben più profondi dei rapporti trofici, svelando di fatto network informazionali nelle reti fungine rizomatche dove i simbionti attuano risposte differenziali in base a chi si trovano davanti (p. 135). Tuttavia, come spiega Pietro Ramellini, il «paradigma simbiotico» non solo si sta rivelando in grado di influenzare ogni settore della biologia contemporanea, ma sembra addirittura assumere un valore concettuale extrascientifico e transdisciplinare (p. 154). Un modello cioè euristicamente fertile, capace di veicolare un’immagine della natura (e delle scienze che si occupano di essa) antidicotomica e integrata. Confini Aperti ci parla del vivente esattamente in questa prospettiva. Prescindere da una concezione «relazionale e circolare» dell’ambiente è un lusso che, verosimilmente, nessuna filosofia della natura odierna si può permettere. La realtà biologica è fatta di interdipendenza e di fenomeni coodeterminati dove ciò che è esterno si «introflette nell’organismo» (p. 19) e dove il bioma entra sistematicamente in relazione col micro-bioma: mondi «oggi unificati» in quel «milieu dei componenti» teorizzato da Gilbert (p. 23). Tuttavia, nello stemperarsi delle distinzioni categoriali, il valore ontologico della nozione di confine non si polverizza del tutto. Mutualismo e correlazione non significano necessariamente confusione, proprio perché la vita sembra darsi laddove vi è comunque «chiusura autopietica» (p. 21). Confini Aperti mira piuttosto a ricalibrare il valore euristico di «categorie dialetticamente definite» (p. 186) come esterno/interno, dicotomie che vanno necessariamente “allentate” proprio perché troppo spesso ontologizzate in una logica dualistica e contrappositiva. Ed è proprio in una tale prospettiva che si materializzano le nuove sfide della ricerca biologica. L’impresa è ardua, proprio perché l’esigenza di spiegare la fenomenologia del vivente tenendo conto di sovrapposizioni causali e dinamiche multifattoriali è ormai assoluta, ma il rischio di ricadere nella logica della praticabilità dei programmi di ricerca è costantemente dietro l’angolo.
David Ceccarelli
S&F_n. 11_2014