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Gary Marcus – La nascita della mente. Come un piccolo numero di geni crea la complessità del pensiero umano – tr. it. a cura di L. Tancredi Barone [Codice Edizioni, Torino 2008, pp. 275, € 25]


La forma è l’essere dell’essenza e l’essenza dell’essere. Questa formula chimica del pensiero occidentale, che la filosofia scolastica ha portato a definitivo imprimatur rispetto al prontuario di espressioni aristotelicamente connotate, può trovare in un ideale formulario contemporaneo il suo rimando immediato nella locuzione Il cervello è l’essere dell’essenza e l’essenza dell’essere. Il cervello, “quell’apparato con il quale pensiamo di pensare”, come si esprime Ambroise Bierce, è diventato l’oggetto privilegiato di un vasto campo di studi interdisciplinari nel quale la neurobiologia, la genetica e le scienze cognitive svettano austeramente.

Il testo di Gary Marcus La nascita della mente si inserisce in questo solco orami ampiamente tracciato. Esso ha il pregio tipico dei volumi di carattere divulgativo: sintesi e attenzione per gli aspetti fondamentali sottesi alle questioni affrontate. Ma l’impianto generale dell’opera presenta anche alcune idee di fondo, molto interessanti, che vengono sostenute, argomentate e suffragate con dovizia di particolari. Gary Marcus combatte contro un ritorno implicito all’essenzialismo che si presenterebbe sotto le vesti della teoria del progetto inscritto nei meccanismi genetici dell’ereditarietà, e lo fa cercando di smentire la tesi secondo la quale il nostro patrimonio genetico è una sorta di programma pre-cablato senza possibilità di variazioni sul tema.

L’operazione di Marcus è quella di superare lo steccato invalicabile della dicotomia innato/appreso per fornire un resoconto più attendibile dell’organizzazione dell’individuo a partire dalla formazione del sistema nervoso. Egli inoltre cerca di attaccare il neo-essenzialismo encefalocentrico ponendo come fatto incontrovertibile la natura analogica delle cellule cerebrali rispetto a quelle somatiche. Le sue parole sono molto chiare a questo proposito: «i nativisti hanno ragione nell’affermare che parti significative del cervello sono organizzate anche senza che vi sia esperienza, e i loro oppositori hanno ragione a ribadire che la struttura del cervello è molto sensibile all’esperienza» (p. 57). E ancora per sottolineare la perplessità rispetto alla teoria del progetto: «molte persone immaginano il genoma come un progetto, piccole mappe di Dna per la crescita dell’organismo. Non è una cattiva metafora, ma solo fino a un certo punto: il Dna infatti fornisce un piano per la crescita di un embrione, ma, come abbiamo visto da più parti, la metafora del progetto ci porta fuori strada» (p. 57).

In effetti il concetto, ormai puntualmente richiamato, della plasticità del sistema nervoso non deve far pensare alla, paradossalmente rigida, impossibilità di accogliere un’idea, seppure debole, di programmazione. Se la metafora del progetto è fuorviante, non ugualmente tale pare essere quella di programmazione, in quanto «non c’è alcuna ragione per vedere la plasticità in contrasto con l’idea di una struttura congenita […]. Se una cosa è programmata non significa che non possa essere ri-programmata. Il tasso di plasticità del cervello non deve sorprendere» (p. 50). Sarebbe come dire che le cellule cerebrali sono flessibili perché istruzionalmente tali, ovvero “programmate alla flessibilità”.

Per quanto concerne poi la questione dello statuto ontologico delle cellule cerebrali, Marcus sferra qui un colpo decisivo all’idea per la quale il cervello (e le cellule che lo “impregnano”) rappresenterebbe un’eccezione nel processo evolutivo dell’uomo e una sorta di organo privilegiato dal punto di vista genetico e citologico: «gli scienziati devono davvero cercare con grande impegno per trovare geni che siano unici nel cervello e molti di questi sono solo varianti su vecchi temi, nuovi e più precisi assetti di vecchie proteine» (p. 89). Inoltre anche da un punto di vista comparato le differenze di natura tra le cellule cerebrali umane e quelle di altri animali, come possono essere i nostri parenti prossimi, le scimmie antropomorfe (e in particolare lo scimpanzé), sono minime se non praticamente nulle (per quanto concerne l’assetto genetico alla base dell’organizzazione del sistema nervoso e il relativo assetto proteico).

Il rischio che sembra correre, allora, l’opera dello psicologo americano è quella di un netto rifiuto di qualsiasi posizione antropocentrica sulla base di un rigido descrittivismo di natura scientifica, il quale non terrebbe, però, in debito conto le performance effettive dell’organo cerebrale, performance che concernono evidentemente non soltanto aspetti computazionali e quantitativi ma anche e soprattutto aspetti cognitivi complessi, quali i processi cerebrali alla base della creatività, della capacità astrattiva e consimili. La risposta di Marcus (o la sua replica se preferiamo) va cercata allora in due concetti, che mi paiono centrali (concetti che ritornano nell’opera di molti neurobiologi, come Changeux o Edelman): quello di ridondanza e quello della capacità combinatoria del materiale disponibile.

Se è vero, ad esempio, che il numero di geni presenti in homo sapiens è esiguo rispetto al numero complessivo di cellule cerebrali, è altrettanto vero che la «discrepanza si dissolve se ci rendiamo conto del vero potere del genoma» (p. 182). In primo luogo il meccanismo trasduzionale “un gene, una proteina” è ormai crollato sotto la scure di molteplici evidenze sperimentali che mettono in luce come processi ridondanti (ad esempio nella produzione degli aminoacidi) fungano da garanzia per la stabilità dell’organismo stesso. Inoltre, e qui abbiamo uno snodo decisivo, «i geni lavorano in combinazione, non da soli» (p. 184). Il terzo fattore è costituito dal fatto che i «genomi sono quello che un informatico chiamerebbe “extensible”. Schemi semplici di compressione a vettori hanno un numero limitato di funzioni primitive o atomi dai quali comporre la propria codifica […]. Sia nel cervello sia nel corpo, i gradienti consentono una variazione speciale sul tema: un mucchio di cellule può esprimere lo stesso gene, ma può farlo in quantità diverse» (p. 185). La straordinarietà di un sistema del genere sta appunto nella sua estrema flessibilità. Pertanto, obbedendo alle semplici (si fa per dire) leggi della materia, è possibile estrarre un quadro coerente e plausibile intorno alla natura dei processi cerebrali e più in generale alla natura dell’individuo nella sua complessità. Il nuovo vocabolario spazza via espressioni come anima, spirito, differenza ontologica, rigetta completamente qualsiasi visione dell’esistenza umana che voglia sganciare la stessa dal più articolato processo evolutivo e offre, invece, un campionario di espressioni, plasticità, ridondanza, flessibilità, ri-programmazione, combinatoria genetica, che fungono da nuovo sostrato per la delineazione di un’ontologia su base materialista, in cui il determinismo genetico è bandito così come il richiamo a qualsiasi principio di trascendenza o misteriosa superiorità dell’uomo.

 

Luca Lo Sapio

10_2010

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