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Davide Tarizzo – La vita, un’invenzione recente [Laterza, Bari-Roma 2010, pp. 236, € 20]


Sul fatto che viviamo non c’è tanto da discutere. Al di là dei capricci di qualche genio maligno, finché siamo qui e finché arriviamo persino a interrogarci sul mondo che ci circonda, l’evidenza per cui noi che ci percepiamo come esistenti siamo per ciò stesso anche dei viventi è per l’appunto un’evidenza. Così com’è un’evidenza che il mondo sia pieno di «infinite forme bellissime e meravigliose». Travolto da tanta esuberanza vitale, Linneo ha provato a sistemare le cose in modo da dare a ogni forma di vita il suo giusto posto: ogni essere vivente, per il fatto stesso di essere tale, deve necessariamente appartenere a una specie, un genere, una famiglia, un ordine, una classe, un phylum, un regno. Si dirà, se è vero che ci sono dei viventi è altrettanto vero che c’è della vita. Se, cioè, è un’ovvietà dire che esistono delle forme viventi sarà un’ovvietà ancora più grossolana dire che esiste la vita. Eppure no. Nel leggere questo libro scopriamo infatti che prima di Darwin la vita non esisteva. Prima di Darwin il mondo pullulava di batteri, pesci, mammiferi, cetacei, uccelli e persino di ornitorinchi, ma di vita proprio non ce n’era. C’erano sì i viventi (e come negarne l’esistenza?), ma della vita proprio non c’era alcuna traccia. Se pure non amate i paradossi e state già pensando di allenare i vostri neuroni su qualcosa di più sensato considerate prima una cosa: i filosofi sono bravissimi a problematizzare l’ovvio, a revocare in dubbio quello che fino a un momento prima tenevamo come una certezza, e Davide Tarizzo è un filosofo di razza. Se, sulla scia di Foucault, ci suggerisce che la vita è un’invenzione moderna, c’è da fidarsi.

Spesso si dice che l’evoluzionismo darwiniano rompe con l’idea della grande “catena dell’essere”, ma cosa implica esattamente questo passaggio epistemologico da un mondo di forme viventi ordinate e gerarchizzate a un mondo di forme viventi prodotte ed estinte senza sosta dalla nuova forza della selezione naturale, ecco cosa ne è di questo cambiamento di paradigma non lo si spiega mai con altrettanta solerzia. Tarizzo, invece, costruisce i suoi ragionamenti proprio sul liminare di questa trasformazioni e nel farlo sceglie una strada interessante quanto originale. Evita di ripetere le ormai inflazionate comparazioni tra l’evoluzionismo darwiniano e le numerose teorie della vita fiorite tra XVIII e XIX secolo, evita quindi di porre la rivoluzione darwiniana sul piano esclusivo della storia del pensiero biologico o della biologia filosofica per porla invece su quello della filosofia tout court. Per capire la rivoluzione darwiniana non basta partire da Linneo, da Buffon o da Lamarck, bisogna partire da Kant. Eh sì, il pensatore più prossimo al teorico dell’evoluzione per selezione naturale è il teorico dell’imperativo categorico. Se il filosofo tedesco ha fondato l’autonomia della volontà, fissando con ciò stesso il crisma della modernità, il naturalista inglese ha fondato l’autonomia della vita, fissando con ciò stesso il crisma dell’epoca contemporanea. «Detto altrimenti, nella teoria darwiniana noi vediamo all’opera lo stesso modulo speculativo che già era all’opera nella teoria kantiana della volontà. Il modulo in questione è quello dell’aseità, un modulo speculativo che pone al centro della sua intelaiatura argomentativa l’ipotesi di un Sé, ora la volontà ora la vita, che istituisce se stesso, ora volendosi ora vivendosi, e si risolve tutto in questa autoistituzione, in questa autonomia» (p. 107). L’imperativo categorico e la selezione naturale sono quindi costruzioni tenute insieme dalla stessa forza, quella dell’autòs: «così come la volontà obbedisce solo a se stessa, secondo Kant, e tale è il senso autentico dell’“imperativo categorico”, parimenti la vita dovrebbe obbedire solo a se stessa, secondo Darwin, e tale dovrebbe essere il senso autentico della “selezione naturale”» (ibid.). La selezione naturale, con la sua cieca forza a null’altro imputabile se non a se stessa, svuota il mondo della sua pienezza e scompagina ogni possibile scala dell’essere.

Prima della sua “invenzione” da parte di Darwin, il fenomeno vita era l’espressione di una volontà superiore e intelligente, per cui “vita” era sinonimo di pienezza di forme, ognuna ordinata per gradi secondo una intangibile graduatoria che da quella meno perfetta conduceva senza soluzione di continuità a quella più perfetta. Prima che l’idea della selezione naturale facesse la sua comparsa sul palcoscenico del pensiero biologico, la vita si esauriva dunque nella tassonomia delle sue forme e queste, a loro volta, esaurivano in se stesse ogni ulteriore ipotesi di “slancio vitale”. Non è un ceto un caso se Herder, Buffon, Maupertuis, Lamarck, Diderot, ma anche Goethe e Blumembach, insomma tutti i principali pensatori che tra Sette e Ottocento hanno messo in questione il fenomeno vita, sono accomunati dall’ossessione del «prototipo» (teleologico, eziologico o morfologico), ovvero dall’ossessione di «trattenere la vita nei confini della Forma» (p. 90). Tanto per fare un esempio, anche un trasformista incallito come Lamarck non avrebbe mai potuto pensare un vita autonoma al di là della forma, magari una vita in via di formazione proprio perché in continua trasformazione. No, per lui come per tutti i pensatori predarwiniani la vita è innanzitutto l’espressione di una volontà eteronoma e quindi anche se in continua trasformazione la forza vitale di ogni essere sarà sempre preceduta dal “contenitore” organico preparatole dal grande Architetto: «tutto ciò che dà l’impressione di disordine, sovversione e anomalia, riconfluisce senza posa nell’ordine generale, e anzi vi concorre; e dappertutto la volontà del sublime Autore della natura e di tutto ciò che esiste viene eseguita, immancabilmente» (da Lamarck, cit. p. 93).

Mentre nel pensiero biologico predarwiniano insiste un radicata logica orientata alla cosiddetta legge della “conservatio vitae”, in nome della quale ogni vivente è sempre proteso alla propria statica conservazione e il sistema naturae è altrettanto proteso al mantenimento dello status quo, è solo con Darwin che si comincia a pensare alla vita come una forza dinamicamente protesa alla sua costante redenzione ed evoluzione. In questo senso, suggerisce Tarizzo in un accostamento che è uno dei momenti più riusciti e interessanti del suo “lungo ragionamento”, Darwin si pone sulla scia di Schelling, che per primo avvicenda alla statica della “conservatio vitae” la dinamica della “salus vitae”, e dona alla parola vita una nuova semantica per cui essa non indicherà più necessariamente un singolo vivente ma comincerà a indicare la forza astratta che ogni volta lo precede e lo pone in essere. Certo, avverte Tarizzo, rispetto a Schelling a alla Naturphilosophie, «Darwin appartiene a un altro mondo» (p. 104), eppure allorché proietta la volontà nella vita ne ripete «a suo modo lo stesso gesto metafisico» (p. 105).

Ma di quale volontà stiamo parlando? La domanda è dirimente, perché hai voglia di spiegare che si è passati da un mondo statico dominato da un’architettura gerarchizzata di forme date una volta per tutte a un mondo dinamico da riempire indefinitamente di nuove forme, hai voglia di spiegare che si passa dalla legge della conservatio vitae a quella della salus vitae, ma se poi la natura continua a essere attraversata da una volontà è chiaro che si presta il fianco al peggiore dei finalismi. Ma per l’appunto, non è così. Il gesto metafisico compiuto da Darwin «è dei più antichi e reiterati»: porre la volontà nel bíos; fatto salvo però «che non si tratterà più di proiettarvi una volontà eteronoma, che scompone e sgretola la vita nelle sue multiple e variegate forme vitali/finali, bensì di proiettarvi una volontà autonoma, che sgancerà per sempre la vita dalle sue forme naturali e ne farà una pura forma della finalità, una finalità priva di scopi. Questo è il gesto metafisico che prima Kant, poi Fichte e infine Schelling compiono con radicalità crescente parlando prima di “riflessione”, poi di “cambio” e infine di “identità” tra vita e volontà. Ed è questo il gesto che Darwin non copia da nessuno, ma compie da par suo, seguendo un percorso assolutamente originale» (p. 105).

Variazione, selezione e adattamento, i tre concetti capitali della teoria darwiniana, vengono a questo punto riletti in modo affatto originale. Consapevole della pressoché totale ignoranza sulle cause della variazione nelle forme organiche («La nostra ignoranza delle leggi della variazione – scrive ne L’Origine – è profonda»), Darwin assume la vita stessa come causa prima e ultima delle variazioni puntualmente rinvenibili anche tra gli animali di una stessa famiglia. Con Darwin la vita diventa una «variazione imprevedibile delle forme di vita; [essa diventa] una variabile sconosciuta che viene prima delle sue varianti e le induce a variare senza posa. La vita è ciò che sta sotto, il subiectum, l’hypokeimenon, la variazione fluttuante che sta alla base delle mutevoli fogge dei viventi. È così – osserva Tarizzo – che Darwin astrae la forza della vita dalle sue tante forme, facendone coincidere innanzitutto «la vitalità con la variabilità» (p. 111). L’intensità della vita, la vitalità, è un punto cruciale nell’architettura concettuale messa in piedi dal filosofo per spiegare il gesto metafisico compiuto da Darwin. Come per la variazione, anche per l’adattamento la vitalità svolge un ruolo essenziale. L’adattamento di cui parla Darwin non è, infatti, una passiva forma di adeguamento al contesto esterno o a uno scopo originariamente impresso nella forma di vita, esso è invece adattamento alla vita stessa, null’altro. In termini kantiani possiamo dire che qui abbiamo a che fare con una “finalità senza scopo” perché il “più adatto” sopravvive non perché ha voluto più degli altri una forma-di-vita, bensì perché ha voluto più degli altri la vita stessa. Da questo punto di vista acquista un nuovo significato anche il concetto di perfezione, che in Darwin si spoglia dell’immotilità della forma per assumere la mobile «perfettibilità di un organismo». La tradizionale perfezione del “tipo” della biologia fissista viene trasfigurata nella dinamica tendenza interna di ogni forma di vita a variare: «Quanto più la specie è perfettibile e adattabile, ossia tende a variare, tanto più essa risulta perfetta e adatta alla vita in quanto tale» (p. 115). Ed eccoci all’«architrave dell’impianto teorico di Darwin» (p. 118), e cioè alla selezione. Lo abbiamo appena visto, per Darwin non si dà alcun adattamento passivo delle singole forme viventi all’ambiente, non ci sono condizioni di esistenza precostituite da rispettare, non ci sono cioè cause finali cui i viventi sarebbero chiamati a tendere. Se questo è vero è evidente che insieme all’idea di perfezione delle forme viventi cade anche ogni ipotesi di intelligenza che ne orienterebbe e, appunto, ne perfezionerebbe i processi evolutivi. Darwin fa piazza pulita delle cause finali in nome di un generico adattamento del vivente alla vita e alla riproduzione. La selezione, in questo quadro, non persegue né mai potrebbe perseguire alcun presunto utile, se non quello rappresentato dalla forza vitale in quanto tale. Detto in altri termini, nonostante le numerose ambiguità linguistiche messe in campo dallo stesso Darwin su questo punto, la selezione naturale non persegue alcun principio di utilità, semmai segue un principio di vitalità: «Le variazioni che vengono selezionate non sono variazioni relativamente utili all’organismo, sono variazioni assolutamente vitali per la sua sopravvivenza. Le variazioni sono per la morte o per la vita, solo questo vede la selezione naturale. Che, di riflesso, non ha bisogno di alcuna intelligenza. […] La selezione naturale è l’atto di una volontà. Ma questa volontà, anonima e impersonale, non va associata all’intelligenza di uno scopo: l’“utile”. Va associata, semmai, alla stessa condizione di possibilità della selezione naturale: la vitalità» (p. 121). In breve, la selezione naturale opera in modo da poter continuare a selezionare, «la vita decide ogni volta di vivere per Darwin, così come la volontà decide ogni volta di volere per Kant. La volontà autonoma trapassa, con questa decisione, nella vita autonoma» (p. 122).

Il «dramma metafisico in tre atti» della teoria darwiniana, vale a dire: 1) la scissione della forza della vita dalle forme-di-vita; 2) frantumazione della grande catena dell’essere; 3) avvicendamento dello schema della conservatio vitae con quello della salus vitae, viene poi messo a confronto con alcune specifiche questioni, di biologia e di filosofia (anche se pagina dopo pagina si tocca con mano che a differenziare i due ambiti è solo una questione di sfumature). Si assiste così a uno stimolante confronto tra la biologia darwiniana e la tanatologia freudiana, alla ridefinizione della questione dell’identità alla luce dell’“ultradarwinismo” dawkinsiano, fino alla rielaborazione del concetto di libertà, in particolare in dialogo con Dennett. Molto coraggiosa è , infine, l’ultima parte del libro, Sull’utilità e il danno della vita per la storia, dove Tarizzo fa il punto sull’«ontologia polemologica» darwiniana e sulla caratterizzazione biopolitica restituitaci da questo scenario. Senza falsi pudori e senza falsi timori reverenziali, Tarizzo indica chiaramente che è solo con Darwin che diventa possibile ipotizzare la costruzione dell’“uomo nuovo”, anzi nella prospettiva darwiniana «l’uomo diventa per definizione l’“uomo nuovo”, infinitamente variabile, perfettibile, vitale, poiché l’uomo è vita e poiché la vita si rivela, ancor più a fondo e in generale, l’aseità inconscia di ogni forma di vita, la sua forza anonima e cogente» (p. 174).

Cristian Fuschetto

S&F_n. 3_2010

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