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Erwin Schrödinger – Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico – tr. it. di M. Ageno [Adelphi, Milano 2008, pp. 154, € 12]


«Il vasto e importante e molto discusso problema è il seguente: come possono, la fisica e la chimica, rendere ragione degli eventi spazio-temporali che si verificano entro i limiti spaziali di un organismo vivente?» (p. 18): è una delle domande più comuni da quando è “nata” la biologia moderna; e il problema è sempre lo stesso (si ripete dal momento della nascita della clinica agli inizi del XIX secolo), se sia possibile raggiungere una verità “chiara e distinta” sul fenomeno della “vita” o se in essa vi sia un qualche elemento sfuggente ed eccedente che non ne permetta la “definizione” in maniera universale e necessaria. La risposta che dà Schrödinger è perentoria: «la ovvia incapacità della fisica e chimica di oggigiorno a dare una spiegazione di tali eventi non è affatto una buona ragione per dubitare che le due scienze possano mai spiegarli» (ibid.); è il presupposto scientifico (par excellence) illuministico e positivistico: ciò che non è stato ancora spiegato e sembra avvolto nelle nebbie del “mistero”, sarà presto ricondotto, con lo sforzo congiunto dell’umanità in progresso costante, all’interno di una razionalità che lo addomestichi. Ma Schrödinger è uno scienziato troppo accorto per dare un peso eccessivo a tale paradigma e questo libretto è la testimonianza della maniera attraverso la quale un uomo di scienza (e profondamente legato al suo “metodo” e cammino) sia capace di mettere e mettersi in difficoltà e di problematizzare fino in fondo uno dei problemi insoluti della nostra “conoscenza”.

Il noto fisico di origine austriaca, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, si interroga sul problema cardine di tutta la biologia e lo fa attraverso gli strumenti della “nuova” fisica, quella quantistica, cercando di trovare una spiegazione che soddisfi i criteri di scientificità della domanda. L’esito sarà inaspettato e la conclusione veramente stupefacente.

Ma andiamo con ordine. Schrödinger, insignito del premio Nobel per la fisica nel 1933, si interroga su quale possa essere la natura fisica del materiale genetico, di quel materiale, in poche parole, all’interno del quale si trovano le informazioni ereditarie che permettono lo sviluppo armonioso di un organismo dal momento del “concepimento” fino alla morte. In primo luogo sente il bisogno di definire il modo attraverso cui agiscono e “funzionano” le leggi fisiche e chimiche che noi riteniamo assolutamente esatte: «tutte le leggi fisiche e chimiche, delle quali si sa che svolgono una funzione importante nella vita dell’organismo, sono leggi di natura statistica» (p. 28); il che significa che all’interno di un sistema macroscopico (come può essere quello di un organismo ma anche di un pezzo di materia “inerte”) quelle che noi chiamiamo “leggi” non sono altro che dei calcoli del comportamento medio di molte particelle, se, invece, interroghiamo, ipoteticamente, un sistema talmente microscopico da essere formato da “pochi” atomi notiamo che esso si comporta in maniera assolutamente “disordinato”. L’atomo non è assolutamente un centro d’ordine, ma è un centro di “disordine” e soltanto i legami molecolari rendono stabile qualcosa che è di per sé instabile. Ma questo ci conduce direttamente a un paradosso: «un organismo deve avere una struttura relativamente grande per godere del beneficio di leggi molto accurate sia per la sua vita interna, sia nelle sue interazioni con il mondo esterno» (p. 39) e questo è ciò che afferma la “fisica statistica”, ma la “biologia” ci dice che «dei gruppi incredibilmente poco numerosi di atomi, di gran lunga troppo poco numerosi perché possano per essi valere leggi statistiche esatte, hanno un’importanza dominante negli eventi estremamente regolari all’interno di un organismo vivente» (p. 42). In poche parole: il gene,che è necessariamente formato da un numero limitato di atomi, si comporta in maniera “stabile” e “ordinata” mantenendo l’informazione genetica anche attraverso i secoli. Il grande problema della vita risiede nel “mistero” del funzionamento del gene. Schrödinger cerca di uscirne attraverso la teoria dei quanti la quale «è consistita nello scoprire, nel libro della natura, dei caratteri di discontinuità in un contesto in cui qualsiasi cosa diversa dalla continuità sembrava assurda» (p. 86) e attraverso la sovrapposizione tra la nozione di “salto quantico” in fisica e quella di “mutazione” in biologia: gli atomi hanno determinate connessioni tra loro e vanno a formare un “sistema”, poi può avvenire il “salto” da una configurazione atomica a un’altra costituendo nuovi legami e nuove strutture a partire dagli stessi atomi; per cui la “mutazione” genetica funzionerebbe alla stessa maniera: il “salto quantico” che produce una nuova configurazione molecolare atomica «nelle applicazioni alla biologia […] viene a rappresentare un differente “allele” nello stesso “locus”» (p. 92). Se quanto appena detto è vero, allora, secondo Schrödinger, possiamo affermare che il gene, composto da “pochi” atomi, per avere la sua “stabilità” e “ordine” deve comportarsi come una molecola in maniera da poter mantenere in maniera “stabile” e “ordinata” l’informazione genetica. Le “mutazioni genetiche” sono eventi altrettanto rari quanto i “salti quantici” e ciò è facilmente osservabile e costatabile anche in maniera semplicemente “empirica”. Ma la domanda più complessa è ancora un’altra: se il gene è una molecola, di che tipo di molecola si tratta? e in cosa differisce rispetto alle molecole dei solidi “inorganici”? d’accordo il materialismo, ma di che tipo di materialismo si tratta? Ammesso che la molecola, seppur piccola, sia già una sorta di “solido” (per cui è “stabile” e “ordinata”) possiamo affermare che esistono due modi differenti attraverso cui la “natura” fabbrica i “corpi”: «uno è quello relativamente monotono di ripetere all’infinito la stessa struttura nelle tre direzioni», «questo è quello che si realizza nell’accrescimento dei cristalli», «l’altro modo è quello di costruire un aggregato sempre più esteso, senza ricorrere al banale espediente della ripetizione», «questo è il caso delle molecole organiche via via più complicate nelle quali ogni atomo e ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare, non interamente equivalente a quella di molti altri», «potremmo, in modo proprio, chiamare tale struttura cristallo o solido aperiodico» (p. 106). L’ipotesi del “cristallo aperiodico” , formulata forse ancora in maniera “metaforica” da Schrödinger, ha trovato successivamente riscontro con la descrizione di Watson, Crick e Wilkins che nel 1953 hanno identificato la struttura a doppia elica della molecola del DNA. Può sembrare eccessivo – come alcuni invece hanno sostenuto – ritenere che l’ipotesi “metaforica” di Schrödinger possa avere realmente aperto le porte alle scoperte successive, ma sicuramente bisogna dare atto del fatto che, nel momento in cui un fisico di fama mondiale si dedica alle domande della biologia, cercando di fornire risposte dal punto di vista fisico-chimico, ciò abbia contribuito fortemente a creare un clima scientifico adatto di colloquio e confronto tra scienze “differenti” portando poi la comunità scientifica a interrogarsi su questo tipo di problemi.

Questa ipotesi, comunque, riesce a spiegare la prima delle due caratteristiche che deve avere il gene, la sua “stabilità”. Ma il secondo paradosso, quello dell’“ordine” deve essere ancora spiegato: «la vita sembra dipendere da un comportamento, ordinato e retto da leggi rigorose, della materia, non basato esclusivamente sulla tendenza di questa a passare dall’ordine al disordine, ma basato in parte sulla conservazione dell’ordine esistente» (p. 119). Il paradosso consiste nel fatto che il secondo principio della termodinamica afferma che tutti i sistemi isolati sono soggetti a un livello crescente di entropia, cioè a una redistribuzione dell’energia tale da portare a uno stato “disordinato” della materia, “disordinato” ma in equilibrio inerte (equilibrio che per il vivente corrisponde alla “morte”) e ciò entra in contraddizione con l’organismo che invece si fonda sul meccanismo della conservazione dell’ordine interno e della “vita”. La risposta che dà Schrödinger è ancora una volta non completamente scientifica: l’organismo «può tenersi lontano da tale stato [l’entropia massima cioè la “morte”] solo traendo dal suo ambiente continuamente entropia negativa […] meno paradossalmente si può dire che l’essenziale del metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita» (p. 123). In poche parole: il vivente è costituito in maniera tale da opporsi alla legge universale dell’entropia che conduce ogni cosa a uno stato caotico e inerte. E ciò avviene appunto attraverso lo scambio metabolico con l’ambiente.

A questo punto: che cos’è la vita? è quell’insieme di “originali” strutture fisco-chimiche che si oppongono alla disgregazione (o equilibrio termodinamico) a cui vanno incontro naturalmente tutti i “corpi”; questo a noi fa pensare alla famosissima definizione di Bichat per il quale la vita è l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte, non tanto per costruire filiazioni o parallelismi o ricostruzioni retrospettive e retrospicienti, le quali sono sempre “superficiali” e non “archeologiche”, ma soltanto per segnalare l’anomalia che il fenomeno della vita rappresenta e il principio della sua eccedenza rispetto a ogni tentativo di spiegazione.

Il breve saggio si chiude su una riflessione a carattere “strettamente” filosofico sulla questione (umana, troppo umana) del determinismo e del libero arbitrio: «secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici» (p. 147). Questo porta a due premesse: 1. «il mio corpo funziona come un puro meccanismo», 2. «io dirigo i suoi movimenti, dei quali io prevedo gli effetti, che possono essere gravi di conseguenze, nel qual caso io sento e assumo piena responsabilità di essi» (p. 148). La risposta che dà Schrödinger è assolutamente “metafisica” nel senso più limpido del termine: bisogna postulare l’esistenza di un “io” «che controlla il “movimento degli atomi” secondo le leggi di natura» (ibid.). Questo è l’esito inaspettato e la conclusione stupefacente di cui si faceva cenno all’inizio. Di questo “io” il fisico teorico non cerca spiegazioni, non brancica deduzioni, lo afferma e basta. Nelle ultime pagine sono protagonisti i veda, si sfiora Schopenhauer, si sente quasi la tonalità spinoziana del parallelismo di menti e corpi. Certo non possiamo attenderci una disamina filosofica troppo approfondita o argomentata da parte di un fisico teorico ma che egli abbia sentito l’esigenza di interrogarsi in questi termini, alla fine di un saggio condotto «sine ira et studio» (p. 147), non può che farci riflettere (ancora una volta!) sul ruolo svolto dal biologico nel riformulare in termini di eccedenza la percezione metafisica, esistenziale, epistemologica dell’esistente.

 

Delio Salottolo

S&F_n. 4_2010

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