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Edoardo Boncinelli – Perché non possiamo non dirci darwinisti [Rizzoli, Milano 2009, pp. 276, € 18]


A 200 anni dalla nascita di Darwin e a 150 anni dalla pubblicazione de L’Origine delle specie, Boncinelli ripropone i concetti essenziali dell’evoluzionismo biologico, mettendoli in relazione con i progressi finora raggiunti dalla scienza. Dalla delineazione dei concetti cardine della teoria, passando per le suggestive citazioni darwiniane, egli analizza gli sviluppi del neo-darwinismo, le critiche scientifiche nei riguardi di quest’ultimo, fino ad arrivare alle sfide e agli interrogativi posti dinanzi alla genetica contemporanea.

Il primo dichiarato intento dell’autore, che assume quasi il carattere di un’urgenza intellettuale, è restituire il darwinismo alla scienza e allontanarlo da quelle false interpretazioni che in esso hanno voluto ravvisare all’occorrenza una teoria filosofica, politica, sociologica e principalmente antireligiosa. Compiere un’operazione di purificazione è indispensabile, non solo per valutare le conseguenze dell’opera di Darwin in ambito scientifico, ma soprattutto per restituirle alla collettività: molti pregiudizi, disgraziatamente fin troppo radicati nella coscienza collettiva, devono infatti essere estirpati per consegnare all’attualità sia la teoria sia la complessa personalità dello scienziato. Le critiche, spesso tutt’altro che scientifiche, che da più parti sono state mosse alla teoria darwiniana in molti casi non sono partite né dall’analisi delle opere dell’autore né dalla significativa considerazione del fatto che Darwin è stato il primo che nei suoi testi, ma anche in altri contesti, è riuscito dialetticamente a criticare e problematizzare le sue stesse tesi.

Il testo non fornisce spiegazioni onnicomprensive ma, servendosi di un linguaggio semplice e scorrevole, armonizza la grandezza delle ipotesi di Darwin con i suoi difetti, le sue imprecisioni, e con tutto quello che resta ancora da chiarire. La teoria dell’evoluzione, in particolare, non spiega due eventi critici della storia della vita: la comparsa della vita e l’origine dell’uomo. Ma il genetista sottolinea più volte che una teoria è scientifica proprio quando non spiega tutto e si predispone a includere il nuovo; quando produce varietà ed è suscettibile di modificazioni. Se smarrisse questo suo intrinseco valore essa non sarebbe che una “professione di fede”. «Si deve diffidare delle soluzioni troppo limpide, lineari e baldanzose. All’occorrenza un vero scienziato deve affermare con umiltà di non sapere qualcosa, o di non saperlo ancora»(p. 222). Una cosa è certa: Perché non possiamo non dirci darwinisti è lo scritto di un uomo di scienza che, con trasparente semplicità e spirito critico, ci consegna un’indagine che non individua alcun antagonismo tra scienza e fede ma, puntando all’oggettività della conoscenza, raccomanda con forza di tenere costantemente distinti i due ambiti. Studiare biologia significa inseguire processi, reperire in essi una trama, fotografare ciò che permane in un fluire di modificazioni, di avanzamenti e di rinnovamenti. Ma mentre lo scienziato ricerca leggi costanti, trovare leggi stabili nell’ambito della storia della vita – in quella rete di processi biologici spesso interdipendenti tra loro ­– è a dir poco impossibile, nonostante la nostra natura ci spinga a formulare ipotesi sempre più nitide. Anche se i cambiamenti più importanti avvenuti sulla Terra sono stati chiariti dal neodarwinismo, non possiamo disconoscere la rivoluzionaria potenza del darwinismo, perché la teoria dell’evoluzione, come ben poche altre teorie scientifiche, a tutt’oggi non solo non è stata smentita, ma rappresenta uno dei principali pilastri della biologia evoluzionistica.

Nonostante l’esiguità delle conoscenze, imposta soprattutto dai tempi, Darwin ebbe l’audacia di compiere lunghe e minuziose analisi e di formulare ipotesi che in seguito si sono rivelate innovative e lungimiranti. Osservando i campioni biologici di piante, fiori, uccelli, funghi, animali, prelevati durante il suo viaggio, lo studioso intuì la comune discendenza dei viventi da un medesimo gruppo di organismi originari vissuti quasi 4 miliardi di anni fa e comprese che le specie non sono immutabili. Il saggio intende recuperare la grandezza di questo semplice, umile, ma acutissimo sperimentatore, insieme alla sua instancabile capacità di osservazione, al suo stupore e alla sua devozione verso la vita in tutte le sue forme.

Come adeguatamente sottolinea Boncinelli: «Spesso si confonde ciò che si spera sia vero con ciò che è vero. Troppe volte si sostituisce la speculazione all’indagine sperimentale. E questo porta quasi sempre fuori strada» (p. 221). Molti degli errori entrati a far parte dell’immaginario comune sono il frutto di una riduzione antropocentrica che tende a ritrovare fini e scopi nel mondo naturale. Gli uomini, per spiegare ciò che li circonda, tendono ad applicare al mondo vivente i propri criteri di giudizio, a trasferirvi le proprie emozioni, fino a delineare un disegno causale che è ben lontano dal riprodurre la dinamica naturale. La natura non fa progetti: essa progredisce secondo criteri e ritmi non solo diversi dai nostri, ma spesso insondabili. Il significato di termini come selezione naturale e adattamento, per esempio, viene spesso ancora oggi distorto. Innanzitutto bisogna rilevare che sia l’adattamento sia il residuato del secolare prodotto della selezione naturale sono fenomeni osservabili soltanto “a posteriori”; in secondo luogo, è opportuno chiarire che gli organismi non reagiscono agli stimoli ambientali, adattandosi e rispondendo positivamente a essi, ma è l’ambiente che passivamente li seleziona, predisponendone alcuni alla proliferazione. L’idoneità di un organismo rispetto all’ambiente in cui vive non dipende né dalle risposte dell’organismo stesso, né da un presunto disegno naturale predeterminato, ma è un processo spontaneo, casuale, che non significa “privo di causa”. Spesso si ritiene che vi sia un parallelismo tra ontogenesi, lo sviluppo individuale, e filogenesi, lo sviluppo di una specie, ma non è così. Se ci osserviamo, possiamo dedurre che le nostre caratteristiche, le nostre particolarità si sono rivelate adeguate, “adatte”, ma niente ci garantisce che continuerà a essere così.

Bisogna inoltre congedarsi da quel primitivo pregiudizio che interpreta il genere umano come il punto d’arrivo della catena evolutiva e anche questo Darwin l’aveva ben capito: l’evoluzione non è sinonimo di progressione e avanzamento, ma spesso è fatta di eventi ciechi e senza scopo, di discontinuità. Un’innovazione biologica non deriva necessariamente da una serie di cambiamenti precedenti; fattore determinante dell’evoluzione è infatti il caso, che con gli sviluppi del neodarwinismo ha acquisito un peso sempre maggiore. Darwin ha avuto il merito di riconoscere la giusta importanza al concetto di variante, quella singolarità che in inglese si definisce spot; anche se questa deduzione può apparire scontata, essa scatenò nello studioso una serie di domande e di questioni fondamentali. Se non ci fosse stata la diversificazione dei viventi, che ha condotto alla nascita di diverse specie, per esempio, esisterebbe una sola specie e non potremmo parlare di evoluzione. Le differenze biologiche, secondo Darwin, sono a loro volta il risultato di due fenomeni biologici: la produzione di varianti nelle popolazioni attraverso le generazioni e l’azione della selezione naturale, processo guida dell’evoluzione.

 Oggi la scienza, coniugando lo studio morfologico con quello molecolare e genetico, definisce queste variazioni “mutazioni”, piccole o grandi alterazioni a carico del genoma di un dato organismo, ineliminabili e casuali. Molte delle novità biologiche che il processo creativo della vita struttura non si affermano e vengono cancellate. L’evoluzione agisce sul fenotipo, che è un riflesso del genotipo, ed è quest’ultimo che si evolve e si tramanda nel corso dei secoli, anche se un fenomeno evolutivo può anche essere il risultato di cambiamenti genetici che si sono succeduti nel tempo ma senza essere accompagnati da cambiamenti visibili. In ogni specie il fenotipo influenza indirettamente il genotipo e nella specie umana questa azione tende progressivamente a dilatarsi; i progressi delle biotecnologie ci fanno infatti immaginare che in breve tempo la nostra specie potrà intervenire direttamente sul proprio genoma.

La vita è un intreccio di cambiamento e permanenza: dietro alle varianti, le differenze, si nasconde una continuità, che corrisponde a un’unitarietà di fondo degli esseri viventi che utilizzano un identico codice genetico. L’originalità della teoria di Darwin sta proprio nell’aver presupposto indirettamente l’attività dei geni in un momento storico in cui quasi tutto si ignorava di questi ultimi. La genetica oggi non fa che confermare e lentamente perfezionare la teoria dell’evoluzione. Esiste, infatti, una gerarchia genica: i geni master, cioè i geni regolatori (generalmente comuni tra più specie), danno indicazioni a geni esecutori diversi, che a loro volta regolano strutture e funzioni diverse. Se un gene regolatore muta, le conseguenze possono essere anche devastanti e determinare così significativi mutamenti evolutivi, anche in più direzioni. Compiendo studi sul moscerino della frutta, la Drosophila melanogaster, si è osservato ad esempio che la mutazione di un gene poteva far nascere un moscerino con quattro ali e non due, o con un paio di zampette sul capo al posto delle antenne. Non a caso, le attuali ricerche si concentrano proprio sul controllo dell’attività genica, che è il problema fondamentale della biologia molecolare.

Boncinelli chiude il suo testo con un significativo passo de L’Origine dell’uomo, che altro non è se non una penetrante sintesi di tutto il testo, una summa della lezione darwiniana: «L’uomo con tutte le sue sublimi doti si ritrova al vertice della scala evolutiva, ma continua inevitabilmente a portare su di sé il marchio indelebile della sua modesta origine». La teoria dell’evoluzione di Darwin ha detronizzato l’uomo ma gli ha restituito un luminoso presente fatto di cognizione e consapevolezza, inspirandogli quell’umiltà che può essere l’indicazione di un futuro ancora più dignitoso e ancora più nobile.

 

Autilia Tramontano

11_2009

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