In questo lavoro Edoardo Boncinelli, riallacciandosi a tematiche già presenti nel suo Le forme della vita e facendo costantemente dialogare scienza ed etica, biologia e genetica, ricostruisce la genesi dell’umano attraverso una parabola narrativa che va dalla fecondazione fino alla costruzione dell’individualità. Lo fa con intenti divulgativi e con una spiccata semplicità espositiva, ma senza mai allontanarsi dal rigore dell’indagine scientifica. Una storia dello sviluppo della vita umana, quindi, che comincia nell’anonimato, in “terza persona”, e si conclude, in “prima persona”, con l’emergere della coscienza individuale.
Biologia e genetica non vanno di pari passo; è questa una delle premesse fondamentali del testo: i geni ci caratterizzano, ma non ci “determinano”. Infatti, se l’identità genetica è riconoscibile sin dalla fecondazione, l’identità individuale è il risultato di un processo. Alla componente genetica si deve aggiungere la “seconda nascita”, la componente socio-culturale, la biografia personale che rende ogni soggetto (specie a partire dal secondo, terzo anno di età) un individuo portatore di “unicità”. Il linguaggio, il riconoscimento dei volti e infine il riconoscimento di sé sono momenti fondamentali della strutturazione dell’identità. Parlare di coscienza significa riferirsi soprattutto a esperienze di vita, a una memoria e a un complesso di ricordi che restituiscono alcuni vissuti oscurandone altri, spesso senza che l’uomo possa capire perché. I processi biologici sopravanzano lo sguardo dell’uomo. La vita è un processo senza indugi, di cui uomo e ambiente sono soggetti-oggetti condizionanti e interdipendenti: la si può analizzare, approfondire, “conoscere”, ma non bisogna mai pretendere di ridurre la sua complessità alla ristrettezza di “uno” sguardo. La fase costruttiva dello sviluppo del corpo, ad esempio, è globale, prosegue in modo spesso non lineare e soprattutto – l’autore avverte – molte volte non vi è corrispondenza tra le nostre suddivisioni delle varie parti del corpo e le leggi che ne regolano lo sviluppo.
Il sottotitolo del testo “siamo uomini o embrioni?” ripropone la centralità della riflessione sull’embrione, inserendola nel dibattito contemporaneo, indotto e incrementato dalle stesse scoperte scientifiche, specie degli ultimi trent’anni. Infatti, i fenomeni di riconoscimento, di induzione tra diverse regioni embrionali — segmentazione, differenziazione e individuazione cellulare — sono il frutto di scoperte recenti, di esperimenti e osservazioni tutt’ora in corso. Grazie alla rivoluzione attuata dalla genetica, oggi possiamo ripercorrere le tappe dello sviluppo embrionale; sappiamo che per raggiungere la forma umana il proto embrione, attraverso l’organogenesi, formerà i vari tessuti, gli arti, gli organi di senso, fino ai vari sistemi, da quello respiratorio a quello nervoso, che è poi il sistema che ci consente di esistere come esseri umani. Possiamo, inoltre, parlare di “geni dello sviluppo” (geni regolatori, geni esecutori) che guidano lo sviluppo del corpo e presiedono alla strutturazione dell’embrione: attivati dalle proteine, alcuni geni prendono decisioni fondamentali, altri eseguono quelle indicazioni.
Il divenire umano è processo. E tale processualità non può fornirci un sicuro momento di passaggio tra ciò che non è umano e ciò che poi lo diventa. Per delineare un presunto inizio dell’umano, lo scienziato delinea le quattro posizioni più accreditate dalla scienza: il concepimento, la gastrulazione, la comparsa dell’elettroencefalogramma alla 23esima settimana e la nascita. Egli mostra di aderire alla seconda posizione, poiché prima delle due settimane il concepito non è con certezza un individuo, ma solo il “progetto di individuo”. Nella fase della gastrulazione, a partire dalla seconda settimana, si attua la strutturazione del “bottone embrionale”, presente all’interno della blastocisti: il proto embrione ha assunto ormai una forma definita di tre millimetri, si polarizza, e mostra i primi tratti dell’area cefalica e del cuore. Diversamente, se si pone come inizio il concepimento, allora la blastocisti deve essere considerata un essere umano, con tutte le conseguenze che questo implica in termini di tecniche terapeutiche. L’autore specifica che la scienza non può dirci cosa è giusto, non può stabilire se l’embrione è o meno un individuo, ma di certo può dilatare la prospettiva a partire dalla quale riflettiamo sulla nostra esistenza. Da qui l’invito, che è poi una ragionevole speranza: collocarsi in una prospettiva aperta e non ideologica, lontana da pregiudizi, specie da quelli che interpretano la scienza in chiave riduzionista, e affidarsi alla “reinterpretazione della nostra stessa cultura” che muta col mutare delle acquisizioni scientifiche. Infatti, come frequentemente sottolinea l’autore, se oggi possiamo porci numerose domande, decisive, pregne di senso, e spesso prive di univoche risposte, lo dobbiamo certamente alla scienza e ai suoi progressi. Fermarli sarebbe negare all’uomo la sua capacità non di oltrepassare limiti invalicabili, ma di percorrere le strade della sua dignità di essere umano.
La stessa bioetica, intesa come laboratorio di riflessione sulle potenzialità e possibilità aperte dalle biotecnologie, è portatrice di interrogativi suscitati proprio dal progresso biomedico. La riflessione sulla vita, sul cominciamento della vita, o sulla liceità della sua interruzione, deve essere pertanto sostanziata, secondo l’autore, da un’altra riflessione preliminare, più acuta e più gravida di senso. Le possibilità aperte dalla scienza, se da una parte hanno aumentato le possibilità umane di intervento e di scelta, hanno parallelamente consegnato all’uomo un nuovo spazio di responsabilità. In questo spazio variegato – spesso intimo e assolutamente personale – affiorano questioni di “etica sociale” di fronte alle quali è opportuno prendere posizione. Il genetista analizza l’utilizzazione delle cellule staminali embrionali e la diagnosi pre-impianto. In merito alla prima questione sottolinea che, per scopi terapeutici, prima del 14esimo giorno deve essere possibile operare sulle otto cellule della blastocisti, proprio perché esse non sono ancora l’embrione: se queste cellule fossero già un embrione, infatti, non servirebbero come cellule staminali; per quanto riguarda la diagnosi pre-impianto, Boncinelli ci ricorda che in Italia la proibizione – che impedisce la nascita di bambini gravemente malati, evitando anche il trauma dell’aborto – è in contraddizione con la possibilità concreta di effettuare forme di diagnosi genetiche, nonché l’aborto terapeutico fino al sesto mese. Il timore, l’angoscia, di fronte alle possibili derive delle innovazioni in campo biomedico è assolutamente comprensibile, ma proibire la ricerca scientifica sulle cellule staminali o impedire la diagnosi pre-impianto significherebbe negare all’uomo la possibilità di vita e di salute, l’opportunità concreta di salvare vite umane e di migliorare la qualità della sua esistenza.
A coloro che pensano, spesso vittime, anche inconsapevoli, di un fondamentalismo mascherato, che, modificando troppe cose, l’uomo stia sfidando la natura e venendo meno alla propria dignità, questo semplice ma esplicativo saggio ricorda che da sempre – la storia ce lo insegna – la prospettiva futura dell’uomo, quella dimensione progettuale spiccatamente umana, si è costruita su scelte e su svolte, spesso portatrici di cambiamenti e di strappi epistemologici considerevoli. In un mondo fatto di complessità, di riscritture e rimaneggiamenti e non più di simulacri di certezze, il progresso è chiaramente dipendente dal congedo dai dogmi. Cosa resta a guidare l’azione? Il dubbio, la precarietà delle acquisizioni raggiunte e, soprattutto, l’auspicio che queste ultime vengano presto attraversate e superate, in un contesto in cui scienza e sapere ritrovino la loro dimensione “sociale”.
Autilia Tramontano
11_2009