Il Saggio sui dati immediati della coscienza è la tesi di dottorato di Bergson, pubblicata nel 1889, e costituisce dunque la prima vera opera filosofica dell’autore francese. In essa sono già contenuti i temi portanti della riflessione bergsoniana: la traduzione illegittima dell’inesteso in esteso, ovvero la confusione del tempo con lo spazio, la distinzione di un tempo quantitativo (il cosiddetto tempo della scienza, misurabile) da un tempo qualitativo (quello della nostra vita interiore), il paradosso del movimento cioè il falso movimento, quello retrogrado, che pretenderebbe di ricostruire il movimento vero a partire da qualcosa di in sé compiuto e stabile, in ultima analisi, di immobile. Temi, peraltro, che vengono trattati con la chiarezza e la naturalezza propria delle grandi menti, in una scrittura piacevole che non annoia. Il libro si compone di tre capitoli: il primo dedicato al problema dell’intensità degli stati psicologici con una particolare attenzione al dibattito contemporaneo di quegli anni sulla psicofisica, il secondo analizza il concetto di molteplicità (una molteplicità intesa non banalmente come somma, quanto piuttosto come mutua compenetrazione) e l’idea di durata, il terzo, infine, affronta – in pieno stile Bergson, verrebbe da dire – la questione della libertà.
Il senso comune abitualmente si pronuncia sulla differenza di quantità tra stati puramente interni: affermiamo di avere più o meno caldo, di sentirci più o meno tristi, etc. Questo fatto, che viene quotidianamente esperito da ognuno di noi, trova poi la sua conferma scientifica nelle indagini condotte dagli psicofisici, i quali assicurano che una sensazione può essere definita due, tre, quattro volte più intensa di un’altra della stessa natura. Bergson indaga la ragione profonda di un tale misurare chiedendosi se questa misurazione può esser valida anche nella «regione dei fatti soggettivi e delle cose inestese» (p. 5). Nella misurazione c’è un rapporto contenente-contenuto, ovvero ciò che è più grande contiene ciò che è più piccolo, ma come possiamo affermare che una sensazione più intensa ne contenga una meno intensa? C’è forse un rapporto di implicazione, forse che per giungere a uno stato di maggiore intensità bisogna attraversare quello di minore intensità? Insomma occorre domandarsi in che senso un’intensità possa essere assimilata a una grandezza. Affermare che esiste una specie di quantità intensiva che non comporta misura ma di cui si può, tuttavia, dire che è più grande o più piccola di un’altra intensità, non vuol dir niente, semplicemente si schiva la difficoltà. Una prima soluzione che si potrebbe avanzare nel determinare la misura dell’intensità di uno stato psicologico consisterebbe nel definire l’intensità di una sensazione attraverso il numero e la grandezza delle cause oggettive e quindi misurabili che l’hanno determinata.
Tuttavia un’analisi più attenta mostra subito l’inadeguatezza di una tale spiegazione, poiché spesso il paragone fra due intensità viene condotto senza tener conto del numero delle cause né del loro modo d’azione. Sembra piuttosto che l’analisi quantitativa sia effettuata sulla base delle contrazioni muscolari che traducono i vari stati psicologici; ma sarebbe erroneo credere che in Bergson ci sia un pieno materialismo psichico, infatti viene riconosciuto dal filosofo un elemento interno irriducibile, un’idea «che determina la direzione dello stato emozionale e l’orientamento dei movimenti concomitanti» (p. 22) e ciò che chiamiamo intensità è solo una maggiore estensione e numero di superfici interessate da quel movimento. I movimenti non sono banalmente l’espressione dello stato psicologico ma sono costitutivi di esso e ne permettono la misurabilità. In questo testo, che non a caso è stato definito come il più cartesiano fra quelli di Bergson, c’è una continua quanto complessa dialettica interno/esterno, che non viene ancora ricondotta a un unico movimento di spiegazione del reale (come avverrà ne L’evoluzione creatrice) e che sfiora la dicotomia. Quindi, in sintesi, la quantità negli stati psicologici deriva dai movimenti di reazione che li accompagnano, e se astraessimo da quelli percepiremmo la qualità pura. L’esito del primo capitolo pertanto è: «o la sensazione è una qualità pura, oppure se è una grandezza bisogna cercare di misurarla» (p. 48).
Nel secondo capitolo gli stati di coscienza vengono considerati non più separatamente gli uni dagli altri, ma nella loro molteplicità concreta, in quanto stati che interagiscono fra loro, svolgendosi nella pura durata. Ma come intendere questa molteplicità? Bisogna sfuggire all’immagine della serie numerica, il concetto di numero implica l’intuizione di una molteplicità di unità del tutto simili le une alle altre, omogenee, mentre la durata è eterogeneità pura; al concetto di unità Bergson contrappone quello di differenza per sottolineare l’unicità e l’irreversibilità propria di ogni istante nella durata. «Il tempo concepito sotto forma di mezzo indefinito e omogeneo – scrive Bergson – non è che il fantasma dello spazio che ossessiona la coscienza riflessa» (p. 66). Allora da un lato avremo una molteplicità per giustapposizione, cioè quella degli oggetti materiali, che forma immediatamente il numero, dall’altro una compenetrazione reciproca, una solidarietà tra i fatti della coscienza, che costituisce il tessuto cangiante della nostra vita interiore. Se è possibile avere due diversi tipi di molteplicità, allo stesso modo è possibile delineare due diverse concezioni di durata: una priva di ogni mescolanza, l’altra in cui interviene surrettiziamente l’idea di spazio, trasformando la pura e semplice successione in rappresentazione simultanea. La durata assolutamente pura viene così descritta da Bergson: «è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore» (ibid.). Quando invece esprimiamo la durata attraverso l’estensione «la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi» (p. 67).
L’illusione del pensiero che ci induce a confondere tempo e spazio ci porta, altresì, al fraintendimento del movimento. Quest’ultimo viene ricostruito a partire dallo spazio percorso; ma lo spazio fisicamente percorso non andrebbe confuso con l’atto tramite il quale lo si percorre. Il processo di endosmosi, cioè l’erronea mescolanza, tra una rappresentazione estensiva dello spazio e la sensazione puramente intensiva della mobilità è ciò che dà origine ai sofismi della scuola di Elea. Ma la riduzione del tempo a tempo spazializzato e del movimento a spazio percorso non deve stupirci, basti pensare che «la scienza opera sul tempo e sul movimento solo a condizione di eliminarne prima l’elemento essenziale e qualitativo. La durata per il tempo e la mobilità per il movimento» (p. 75) e la ragione di ciò è ravvisabile in primo luogo in quell’inadeguatezza costitutiva del linguaggio a descrivere il movimento e la complessità qualitativa del tempo, da qui il valore assegnato da Bergson alle immagini e alle metafore (il Saggio, ad esempio, è intessuto di metafore musicali e immagini uditive). La stabilità della parola si scontra con la motilità della vita cosciente, «la parola brutale, […] annulla o per lo meno ricopre le impressioni delicate e fuggitive della nostra coscienza individuale» (p. 85). Significativa è l’importanza del sogno come luogo in cui la durata torna a essere percepita qualitativamente: il sonno, abbassando la soglia delle funzioni organiche, modifica la superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne, per cui nel sogno smettiamo di misurare la durata, semplicemente la sentiamo. Se precedentemente aveva distinto due possibili sensi di molteplicità e di durata, a conclusione del secondo capitolo, Bergson distingue anche due aspetti della vita cosciente, «a seconda che la si percepisca direttamente o per rifrazione attraverso lo spazio» (p. 88). Nel primo caso avremo l’io reale e concreto, nel secondo una ricostruzione artificiosa di esso, ovvero una sua rappresentazione simbolica.
Tale concezione difettosa dell’io ci introduce alle tematiche affrontate nel terzo e ultimo capitolo. Qui Bergson mette a confronto due tipi di determinismi, quello psicologico e quello fisico. Il determinismo fisico è la teoria che ci rappresenta l’universo come un ammasso di materia, che l’immaginazione risolve in molecole e atomi. Queste particelle eseguirebbero movimenti senza posa, e ciascun fenomeno fisico, dal calore all’elettricità, si risolverebbe nei movimenti di queste particelle elementari. Ma il determinismo fisico fa un passo indietro quando si tratta di spiegare come i movimenti che si compiono nel cervello influiscano, o meglio determinino i fatti psicologici (è bene ricordare che il contesto scientifico cui fa riferimento Bergson è quello di fine ‘800, la psicologia come scienza sperimentale inizia a formarsi proprio in quegli anni, e per lo sviluppo delle neuroscienze bisognerà aspettare ancora qualche decennio). Allora al determinismo fisico Bergson affianca un’altra forma di determinismo più sottile, quello psicologico, che fa riferimento a una concezione associazionistica dello spirito la quale ci rapporta lo stato di coscienza attuale come necessitato dagli stati anteriori. Il determinismo associazionistico si rappresenta l’io come una somma di stati psichici, non coglie la verità della durata né la molteplicità degli stati psicologici, che vengono intesi come compartimenti stagni e la nostra coscienza passerebbe dall’uno all’altro come percorrendo i punti di una retta. «Il nostro io concreto, il nostro io vivente si ricopre di una crosta esterna di fatti di coscienza nettamente disegnati, separati gli uni dagli altri, e di conseguenza, fissati» (p. 108); ma contro questo io fantasma agisce al modo di una rivolta l’atto libero, allora «l’io dal basso risale alla superficie, la crosta esterna scoppia sotto una spinta irresistibile» (p. 109). L’azione libera è l’espressione della pura durata, la rottura della catena delle cause necessitanti è, come scriverà ne L’evoluzione creatrice, «la punta che si insinua nel futuro dischiudendolo senza posa» (Bergson, L’evoluzione creatrice, 2002, p. 167). Agire liberamente significa, in ultima analisi, ritornare a sé, riprendere possesso di sé, ricollocarsi nella durata.
Alessandra Scotti
11_2009