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André Holley – Il cervello goloso – tr. it. a cura di A. Pizzone [Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 256, € 22]


Che i bambini di tutto il mondo non amino le verdure e stravedano per la cioccolata è un dato scontato per chiunque.

Il neuroscienziato francese André Holley, nel suo Il cervello goloso, ci porta a scoprire le basi neurologiche e evolutive di questi e altri apparenti misteri alimentari. Dalle narici al palato, dal nervo trigemino al cervello, il libro cerca di rispondere alla domanda sul gusto da un duplice punto di vista: mettendo in relazione le nozioni di sapore, aroma, stimolo, fame, sazietà e piacere alla luce delle attuali conoscenze biologiche, e affrontando la trasformazione dell’uomo in Homo tecnologicus e le ricadute alimentari che essa comporta. Il consumatore del nuovo millennio non ha più la necessità di affidarsi a naso e papille per sincerarsi della commestibilità di un cibo. Mentre si aggira tra gli scaffali del supermercato, basta un’occhiata alle tabelle nutrizionali riportate sulle confezioni per assicurarsi della non-tossicità di ciò che sta per comprare. Eppure, nonostante il cambio di ruolo, gusto e olfatto continuano a dimostrarsi decisivi per i circuiti cerebrali che presiedono alla decisione di mangiare. Odorato e gusto, infatti, sono due dei sistemi di rivelamento chimico che contribuiscono al sentore dei cibi. Il primo fornisce il proprio contributo percependo aromi, gli odori dell’alimento così come vengono avvertiti dal tratto che collega bocca e cavità nasale. Ma l’organo dell’olfatto, spiega Holley, fa anche di più, costruendo l’«immagine olfattiva», una rappresentazione dell’odore nella sua singolarità, resa possibile da centinaia di recettori differenti che codificano molte delle proprietà aromatiche. Un ruolo, questo, non sminuito dagli studi sul Dna umano che hanno provato la diminuzione delle potenzialità olfattive umane e il parallelo incremento di quelle visive: sembrerebbe, dunque, che, nel processo evolutivo, la vista abbia spodestato l’olfatto nelle sue funzioni adattive, puntando, soprattutto, sulla visione dei colori. Non a caso, il grado di maturazione di un frutto o la freschezza di un pezzo di carne sono immediatamente intuibili dalle loro qualità cromatiche. D’altra parte, per il gusto stricto sensu non è più sostenibile la tradizionale teoria dei sapori fondamentali che limitava ai soli dolce, salato, amaro e acido la vasta gamma di sapori recepiti dall’apparato gustativo. Le ultime ricerche in fatto di scienze del gusto suggeriscono tutt’altro scenario e prospettano nuove chiavi d’accesso al sostrato biologico della percezione. L’antico sistema va in pezzi sulla scia della determinazione dell’«umami», corrispondente al gusto sapido del glutammato, tipico di molti piatti asiatici e, soprattutto, cede sotto i colpi della scoperta di nuovi recettori che, già attualmente, superano i sapori fondamentali.

Al momento di mettersi a tavola una vera e propria «mobilitazione generale dei sensi» ci assale. Udito e tatto non sono esentati e partecipano alla valutazione del prodotto e allo sviluppo delle preferenze individuali. A ciò deve aggiungersi la multiformità del nervo trigemino che, con la sua sensibilità tattile, chimica, termica e al dolore è capace di rilevare ulteriori e decisive informazioni sui cibi. Reagendo per lo più a sostanze irritanti, il nervo è, ad esempio, responsabile delle sensazioni provocate dalle componenti del peperoncino, sensazioni volutamente ricercate da alcune persone. Tale fatto potrebbe trovare spiegazione nell’attrazione per un’esperienza dolorosa ma priva di effettive conseguenze. Gli stimoli trigeminali, infatti, libererebbero endorfine e oppiacei endogeni, inducendo stati simili a quelli esperiti dai tossicodipendenti. Ricordando, allora, che l’irritazione è biologicamente una forma di dolore, l’essere umano andrebbe a sfruttare un primitivo meccanismo di protezione e allerta per ampliare la ricchezza di stimoli che concorrono al piacere di mangiare. E con ciò il neuroscienziato francese tocca un punto determinante: mangiare procura piacere e il piacere non è affatto un che di accessorio rispetto ai meccanismi dell’alimentazione. Alla dimensione puramente qualitativa se ne associa sempre anche una edonica: entriamo affettivamente in relazione con sapori e odori che ci toccano emotivamente, determinando piacere o disgusto. Ed è chiaro, continua Holley, che si tratta di un edonismo adattivo volto a guidare le nostre scelte alimentari, instaurando una proficua interazione tra desiderio e fabbisogno. Non un piacere fine a se stesso, ma un’«invenzione dell’evoluzione» che spinge gli organismi a ingerire la giusta quantità di cibi adatti e garantisce la sopravvivenza e l’equilibrio nutrizionale. Sulla scorta di numerose neuroimaging, l’autore attraversa l’affascinante mondo del cervello che annusa, che assaggia, che avverte piacere o dolore perché «quando annusiamo, non sentiamo solo un odore, quando assaggiamo non sentiamo solo un gusto. Abbiamo ricordi. Soffriamo. Gioiamo. Speriamo. Odiamo. Dialoghiamo con il corpo nella sua totalità, pretendiamo, osserviamo. Non solo i romanzi, ma le immagini del nostro cervello lo dimostrano, perché è il cervello, non la nostra riflessione cosciente, a coordinare tutti questi processi» (p. 129).

Per questa strada, nell’individuazione di un circuito cognitivo che coglie le proprietà dell’odore o sapore, e di uno affettivo che determina uno stato mentale, il libro avanza l’ipotesi che il secondo sistema sia costituito da due ambiti distinti ma connessi: la sensazione in base alla quale decidiamo della bontà o meno di un alimento e la dimensione dell’azione, l’impulso a consumare o ad astenersi da ciò che si ha di fronte. Accettare o rifiutare un cibo è perciò «parte integrante dei processi che portano complessivamente all’elaborazione affettiva» (p. 150). In tali riflessioni, un compito fondamentale è svolto dalle memorie sensoriale, dell’azione, del successo o del fallimento. Dal sapore alla risposta motoria il percorso non è, in effetti, lineare, ma, una volta ricevuta la stimolazione iniziale, è la rete neurale a ricercare la migliore decisione motoria, soppesando diverse concause. E, se si sceglie di mangiare, a entrare in gioco saranno le preferenze alimentari, frutto delle esperienze individuali ma anche del bagaglio evolutivo. Così, l’avversione per alcune verdure è geneticamente motivata da un vantaggio evolutivo, visto che l’amaro è spesso predittivo di tossicità: scontiamo l’essere onnivori e, con esso, il maggior rischio che i nostri antenati correvano di ingerire sostanze velenose, privi com’erano di apposite etichette nutrizionali.

Allo stesso modo, il piacere legato a grassi e zuccheri potrebbe possedere un significato adattivo, stimolando al consumo di prodotti ricchi di energia.

E oggi che ci troviamo nell’età della «transizione nutrizionale»? Con questo interrogativo si chiude il dettagliato saggio di André Holley, abbandonando il modello ideale di uomo fin qui tratteggiato e i suoi perfetti dispositivi psicofisici che assicuravano l’equilibrio nutrizionale. L’individuo del XXI secolo soffre di sovrappeso e obesità e, per quanto biologicamente identico al suo predecessore, non trova nella sola fisiologia la possibilità di regolare le riserve di grasso. A essere rivoluzionata è la condizione alimentare che la specie umana vive: programmati per reagire alla penuria, i nostri geni si trovano in evidente difficoltà nel tentare di fronteggiare la sovrabbondanza. S’insinua, qui, prepotentemente, il discorso sul business dell’industria alimentare che gioca a rialzo sulla passione umana per dolce e grasso, propinandoci le irresistibili «porcherie» da distributore automatico, zuccheri artificiali spesso preferiti ai naturali. E, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non troviamo nessun dito puntato sui lipidi. Non un inno alla lipofagia, ma nemmeno la sua crocefissione, solo la semplice presa d’atto che l’obesità contemporanea dipende da «un eccessivo apporto energetico rispetto al consumo».

Così, a scorrere tra le ultime pagine de Il cervello goloso è un silenzioso quanto persistente invito a rimettersi in ascolto del proprio corpo e delle sue autentiche esigenze, prestando attenzione ai messaggi che esso ci invia ogni giorno nel naturale atto di sedersi a tavola o nella fretta di trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

Pamela Mirra

01_2010

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