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Vandana Shiva – Ritorno alla Terra. La fine dell’Ecoimperialismo – tr. it. a cura di G. Bottani e S. Levantini [Fazi, Roma 2009, pp. 246, € 18,50]


L’ultimo libro di Vandana Shiva si inserisce con forza nell’attuale dibattito sulla crisi, le sue cause e soprattutto le sue conseguenze. Ribaltando la prospettiva di chi, negli ultimi mesi, ha inteso la crisi economica come una tragedia scatenata dal prevalere del “cattivo capitalismo” (della speculazione finanziaria), sul capitalismo buono, produttivo ed etico, Vandana Shiva legge la crisi globale, economica ma soprattutto ecologica, come punto di non-ritorno, ma anche come occasione per smettere di fare orecchie da mercante di fronte al rapido sgretolarsi delle certezze dell’Occidente, sviluppato e predatore, e all’emersione delle contraddizioni e del conflitto nei vari Sud del mondo, depressi e predati. Tutto il testo ruota intorno alla ricerca di una strada per liberare l’umanità dalla dipendenza di fonti energetiche non rinnovabili. Questa liberazione passerebbe per l’acquisizione di un nuovo punto di vista, di una nuova mentalità capace di intendere la debolezza di chi è sfruttato come strumento rivoluzionario. L’India, paese emergente, ma anche da sempre sfruttato e colonizzato per eccellenza, è il cuore pulsante di questo testo, incarna il sogno, la speranza rivoluzionaria dell’autrice, ma anche il suo incubo, la manifestazione concreta dei suoi timori e delle sue preoccupazioni per un mondo che sembra votato all’autodistruzione.

La crisi di cui si parla nel testo è triplice, surriscaldamento globale, peak oil e messa a rischio della sovranità alimentare di ciascun paese si intrecciano costituendo il tessuto di un’unica vitale questione: quali e quante siano le possibilità della Terra di sopravvivere all’avvelenamento e alla depredazione compiuta dall’uomo. Sottolineando la cesura tra Nord e Sud del mondo, la Shiva individua nei diseredati, nei contadini sfruttati dell’India, dell’Africa del Sud America i pionieri di una vera e propria rivoluzione culturale, che finisce poi per diventare anche economica; il loro immobilismo, la loro incapacità, o mancanza di desiderio, di adattarsi ai tempi e ai modi di un mondo globalizzato, il loro resistere ai margini, più o meno passivamente, rappresenta l’unica forma di contrasto possibile all’omologazione del pensiero e al dilagare dello sfruttamento. Come ne Il ventre di Parigi di Zola, assistiamo a una lotta tra i Grassi borghesi e i Magri idealisti, tra chi del cibo e della sua abbondanza fa una malattia, divenendo moralmente e fisicamente obeso, carico del peso di ettari di terra e di foresta divorati per far spazio a moderni impianti industriali, saturo di cibi malsani e ipercalorici e chi, dall’altra parte della barricata, muore per la totale assenza di ciò che potrebbe sfamarlo, di terra, di spazio, di dignità.

Gli eroi della Shiva sono proprio questi Magri, rappresentano la salvezza, la risorsa e la vera e propria redenzione di un mondo grasso, egoista, corrotto. Proseguendo la strada tracciata dallo scheletrico Gandhi, la studiosa indiana compie la sua marcia non violenta testimoniando a ogni passo la sua fedeltà alla lotta contro il «nuovo apartheid ambientale internazionale [che] prevede che le attività economiche che inquinano e devastano l’ambiente siano spostate nel Sud del mondo. Noi non osiamo cambiare ciò che abbiamo verificato come reale alla luce dell’esperienza. Molti offrono i loro consigli all’India, ma essa rimane ferma. Questa è la sua bellezza; questa è l’ancora della nostra speranza» (M. K. Ghandi, Hind Swaraj or Indian Home Rule, cit. a p. 94).

Laureata in fisica e militante d’avanguardia dei movimenti ambientalisti, anche nella scelta delle fonti Vandana Shiva rivela la sua doppia anima: da un lato utilizza i rapporti delle organizzazioni internazionali, tabelle e dati di ricerche scientifiche super partes, mostrando, con un insistenza che finisce in alcuni punti per risultare ridondante, che, nonostante il taglio fortemente ideologico dato alle argomentazioni, la base del suo ragionamento ha un carattere quanto più possibile oggettivo. D’altra parte sono frequentissimi nel testo i rimandi agli scritti più squisitamente politici di altri attivisti, suggestioni e digressioni poetiche, racconti di esperienze di vita che l’hanno segnata. Sebbene questa ricchezza e mescolanza di spunti serva a rendere la lettura più scorrevole, l’asimmetria delle fonti può causare uno spiacevole senso di straniamento: a nessuna delle due anime viene data piena voce e, allo stesso tempo, non si percepisce quella complementarità, sia pure nella radicale differenza, che richiami diversi, ma ben amalgamati tra loro, avrebbero potuto avere. Nonostante l’intento chiaramente divulgativo del testo, alcuni passaggi sfuggono, le connessioni tra il mondo dei numeri e quello dei sogni e le speranze di Vandana divengono evanescenti.

Nella prima delle quattro parti che compongono il testo, l’autrice si sofferma sulla questione del cambiamento climatico e sulle false soluzioni che i paesi industrializzati starebbero cercando di dare per porre rimedio alla catastrofe. La Shiva sottolinea come non sia possibile porre rimedio a un problema di proporzioni così gigantesche se non effettuando una rivoluzione copernicana, ponendo nelle mani delle vittime, dei paesi più poveri, che devono auto-organizzarsi, autoregolarsi e rendersi indipendenti, il potere di risolvere il problema. I paesi industrializzati, seguendo i principi dell’Ecoimperialismo, ovvero la difesa dei loro affari e dei loro profitti a scapito delle risorse del pianeta e degli altri paesi, non possono che trovare soluzioni che finirebbero per aggravare, piuttosto che per risolvere il problema: «La globalizzazione imposta dalle multinazionali concepisce il pianeta in termini di proprietà privata. Al contrario i nuovi movimenti difendono le risorse locali e globali del territorio perché lo intendono come ben comune. Le comunità che insorgono in ogni continente per contrastar la distruzione delle loro diversità biologiche e culturali, dei loro mezzi di sostentamento e delle loro stesse vite costituiscono l’alternativa democratica alla trasformazione del mondo in un gigantesco supermercato, in cui beni e servizi prodotti con costi ecologici, economici e sociali estremamente alti vengono rivenduti a prezzi stracciati» (V. Shiva, Il bene comune della terra, trad it. Feltrinelli, Milano 2006, p. 8). L’energia nucleare, sponsorizzata sempre più negli ultimi anni anche nel nostro Paese, mano a mano che il ricordo dei terribili avvenimenti di Cernobyl si fa più sbiadito, non può essere considerata in alcun modo né sostenibile, né sicura, né pulita, non può in questo senso rappresentare un’alternativa valida o una soluzione al problema del surriscaldamento globale. Allo stesso modo la modifica delle radiazioni solari tramite la diffusione nell’atmosfera di diossido di zolfo, soluzione contemplata dall’U.S. National Academy of Science, più che una vera e propria soluzione non sarebbe altro che il ribaltamento dei termini della questione: il sole e non le attività industriali sarebbero la “causa” del riscaldamento globale. «Giocare con Gaia come se fosse una scatola di Lego non può essere una risposta adeguata in un momento in cui l’intervento umano sui sistemi naturali della Terra sta minacciando la nostra stessa sopravvivenza» (p. 54).

Nel secondo capitolo di Ritorno alla terra si espongono i rischi di una vera e propria invasione di autovetture in territori prettamente agricoli, poco industrializzati e occidentalizzati come quello indiano. Più auto significano non solo maggior consumo di combustibili, ma anche più autostrade e meno campi e foreste. L’euforia degli indiani per la velocità e per la modernizzazione, che passa anche per l’abbandono dei mezzi di trasporto tradizionali, viene paragonata dall’autrice all’esaltazione per le conquiste tecnologiche e per il progresso dei nazionalsocialisti: l’India, ci mette in guardia la Shiva, con forse troppa enfasi, «dovrebbe costruirsi sull’eredità di Gandhi e non di Hitler» (p. 99). L’elogio del cammello e dell’energia degli animali da traino (cfr. Gli animali: un’energia vivente alternativa per la mobilità, pp. 116-122), del lavoro in piccoli campi che va ad arginare con un’economia di sussistenza l’ondata travolgente dell’industrializzazione, sono certamente suggestivi, ma finiscono per essere “indiocentrici”, a dispetto di una prospettiva e di uno sguardo che pretendono, sulla carta, di essere globali.

Chi legge può optare per il lasciarsi trascinare da quest’idillio bucolico, o piuttosto rimanere incredulo, distante, non coinvolto. In questa allegoria, nell’elogio della vita rurale, l’autrice, che vuole colpire al cuore l’occidente, perde la mira e fallisce il bersaglio. Tornano alla mente le poesie di Pascoli oppure il paragone stridente con i quadri di Jean François Millet in cui il lavoro contadino, per quanto onesto e dignitoso, viene descritto in tutta la sua dolorosa fatica, attraverso le schiene piegate e i volti induriti dal sole. 

Gli ultimi due capitoli trattano sostanzialmente la questione dei biocombustibili, ovvero dei propellenti ricavabili da mais, grano, canna da zucchero. Negli ultimi anni, ci mette in guardia la Shiva, la soluzione individuata per risolvere il problema dell’esauribilità e tossicità dei combustibili fossili è quella della loro sostituzione con i biocarburanti, ma, come nel caso dell’energia nucleare, la cura finisce per essere peggiore del male: questa sostituzione presuppone infatti il ricorso a un’agricoltura di tipo industriale e comporta l’inevitabile innalzamento dei prezzi delle materie prime necessarie a ottenere il cosiddetto “petrolio verde”. I paesi meno industrializzati dovranno quindi far fronte anche a questa sorta di carestia artificiale, indotta, che li priverà degli alimenti alla base delle diete povere. Nonostante l’evidente interesse di questo argomento nel dibattito mondiale sulle fonti rinnovabili e le energie alternative, anche qui l’autrice sembra sprecare un’occasione: il nodo centrale, il rapporto tra la superpotenza statunitense e i paesi in via di sviluppo, viene appena accennato. Comprendere meglio questa relazione sarebbe forse servito a gettare un fascio di luce sulle politiche ambientali degli USA messe in campo una volta fallito il progetto dell’ALCA e perse quelle “guerre lampo” che avrebbero dovuto riaffermare la loro egemonia nell’estrazione e nella vendita del petrolio. Affermare l’ecocompatibilità dei biocarburanti significa infatti poter tagliare il cordone ombelicale che lega le potenze occidentali a partners parzialmente affidabili e stabili (Nigeria, Sudan, Angola, etc.) o totalmente inaffidabili (Iran, Venezuela, etc.).

Gli spunti forniti da Vandana Shiva in merito alle problematiche strettamente connesse all’ecologia e alla sostenibilità sono, tutto sommato, attuali, interessanti e incisivi. Il giudizio sul testo diviene invece più severo se si pongono sotto la lente d’ingrandimento le questioni di carattere più specificamente politico messe in gioco dall’autrice come palinsesto al testo stesso. Sono fondamentalmente due i passaggi spinosi in cui l’esposizione sembra scricchiolare e farsi scivolosa: in primo luogo, è stato già accennato, c’è nell’autrice un disprezzo per la tecnologia che a tratti muta in un vero e proprio sacro terrore. Senza voler arrivare agli eccessi futuristi dell’elogio per la velocità, per il rumore, per tutto ciò che è artificiale e meccanico, non si può negare il potenziale “volto umano” della tecnologia. È scontato dire che i macchinari e gli impianti industriali, oltre al loro denso fumo, portano con loro la possibilità di ridurre la fatica e il tempo impiegato per il lavoro. La disoccupazione, secondo l’autrice, sarebbe causata dalla sostituzione della forza dell’uomo con quella delle macchine: «Il lavoro è energia. Due crisi del nostro tempo sono profondamente collegate: quella climatica e quella dovuta alla disoccupazione. […] La sostituzione del lavoro dell’uomo con il lavoro delle macchine che consumano carbonio fossile è uno dei principali contributi all’inquinamento dell’atmosfera e alla crisi climatica. Riportare il lavoro alle persone e le persone al lavoro può rappresentare una soluzione significativa per a crisi delle risorse umane e per quella dovuta alla mutazione climatica» (p. 220), e non da una cattiva e iniqua distribuzione del lavoro. La Shiva arriva alla conclusione che per vivere meglio, avere tutti un lavoro, basta smettere di usare il petrolio, utilizzare i cammelli al posto degli scooters e i buoi al posto delle macchine agricole. Seguendo questo ragionamento potremmo dire, per paradosso, che per far diminuire la disoccupazione femminile basterebbe smettere di usare lavastoviglie e lavatrice, e tornare a lavare piatti e abiti per ore lungo i fiumi o nei lavatoi: di fronte alle mani gonfie e screpolate a sangue delle nostre nonne siamo certi che anche il più fedele sostenitore della Shiva cambierebbe idea. Casi virtuosi come quello di Cuba (cfr. pp. 121-122), dove la crisi del 1989 ha fatto ripristinare, a causa della scarsità di carburante, l’utilizzo massiccio degli animali da traino in agricoltura, sono dettati, più che da scelte etiche ed ecologiche, dalla necessità di sopravvivere. La demonizzazione della tecnologia tout court e l’apologia del lavoro manuale fatte dall’autrice finiscono per far passare in secondo piano anche i ragionamenti più interessanti e fondati, esposti meglio e più organicamente nei suoi testi precedenti che hanno decretato il meritato successo di questa studiosa.

L’altra riflessione che, pur costituendo il sottotesto dell’intero libro, risulta fragile, riguarda la Shakti, ovvero l’energia creativa, la forza autorganizzante e autorinnovante dell’universo. Questa energia femminile che è la «personificazione dell’energia primordiale» (p. 128), consentirebbe un eterno rinnovamento e costituirebbe il presupposto a ogni forma resistenziale che si para contro la travolgente forza distruttiva del processo di industrializzazione globale. La relazione tra possibilità del singolo (del singolo individuo o del singolo villaggio) e imposizioni della comunità economica mondiale, finisce per risultare poco chiara, le sue eventuali forme organizzative e di gestione del potere non sono descritte se non approssimativamente. La Shiva ci descrive Davide che trionfa su Golia proprio in virtù della sua piccolezza: le microscopiche comunità locali, le produzioni agricole di nicchia riescono a infilarsi nelle maglie dell’intricato reticolato industriale, ma non ci spiega in che modo i piccoli avanzamenti in senso ecologista vadano a scardinare un sistema globale e complesso senza perdersi come gocce nel mare. Se i poveri del mondo sembrano avere la facoltà di resistere e di cercare di trasformare il mondo in virtù del loro attaccamento alla tradizione, di una sacrosanta indolenza, di un’incapacità di tenere il passo, risulta ancora più modesta la chance concessa all’occidentale, che è ritratto come forte solo del suo potere d’acquisto e del suo ruolo di consumatore. Un consumo di beni ed energetico consapevole ed etico diviene il confine della sua azione possibile, irrimediabilmente individuale nella sua radice, anche se agita in compagnia di altri: «Qualsiasi cosa facciamo o rinunciamo a fare – il nostro sciopero privato non cambia nulla al fatto che ormai viviamo in un mondo per il quale non hanno valore “il mondo” e l’esperienza del mondo, ma il fantasma del mondo e il consumo dei fantasmi» (G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca moderna, tr. it. Bollati Boringhieri, Milano 2003, vol. 1, p. 37).

In fin dei conti se ci si chiede se era possibile fare a meno di Ritorno alla terra. Fine dell’Ecoimperialismo, la risposta, di primo acchito sembra essere affermativa. Ma poi, se per caso ci si imbatte in Ecoimperialismo. Potere verde morte nera (P. Driessen,Eco-imperialismo : potere verde morte nera, tr. it.Liberilibri, Macerata 2004),bibbia dell’anti-ambientalismo scritta nel 2003 dall’ecologista pentito Paul Driessen, la prospettiva sull’ultimafatica di Vandana Shiva cambia tutta d’un tratto. Driessen riesce in poco più di duecento pagine a mettere in fila i più rivoltanti, superficiali e capziosi giudizi sull’ambientalismo che si possano immaginare. Il risultato di quest’altra analisi sull’Ecoimperialismo è grottesco, tutto ciò che nel testo della Shiva ci sembrava scontato, banale, come la necessaria attenzione da porre rispetto al problema del surriscaldamento globale o all’utilizzo degli OGM, è qui congedato come una bufala inventata di sana pianta da paranoici ambientalisti, semplice leggenda e superstizione da scacciar via in nome del progresso. Driessen ci illumina poi anche su un altro punto affrontato più volte da Shiva, il rapporto tra Nord e Sud del mondo: per lo studioso statunitense i paesi poveri sono di fatto gli unici e soli responsabili della loro miseria e rovina, la cui causa esclusiva sarebbero i leader corrotti, incapaci e avidi da cui si fanno guidare. L’apoteosi di questo capolavoro sta poi nelle considerazioni finali, secondo le quali il movimento ambientalista sarebbe portatore di una vera e propria cultura della morte: rispetterebbe più gli esseri animali e vegetali che l’uomo stesso, considerato come una sorta di cancro, di elemento degenerato che guasta e corrompe l’armonia della Natura. Di fronte a tutto questo non possiamo che affermare con forza “Lunga vita a Vandana Shiva!”: abbiamo ancora tanto bisogno di lei, anche quando il suo genio, come in quest’ultimo libro, sonnecchia.

Viola Carofalo

 S&F_n. 2_2009

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