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Clay Shirky – Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzare – tr. it. a cura di F. Fasce [Codice Edizioni, Torino 2009, pp. 248, € 23]


Nel 1501, qualche decennio dopo l’invenzione della stampa da parte di Gutenberg, un giovane stampatore veneziano, tale Aldo Manuzio, pensò bene di apportare una piccola modifica ai “prodotti editoriali” correnti. Perché non stampare dei libri un po’ più piccoli, in octavo, e renderli così più facili da trasportare e oltretutto anche più economici? Detto fatto: da allora il formato ideato da Manuzio divenne un format (è proprio il caso di dirlo) di successo e, sebbene incomparabile rispetto all’invenzione dei caratteri mobili, anche l’invenzione dell’octavo fu a suo modo rivoluzionaria. L’avvento dei libri tascabili (in realtà i libri erano pensati a misura di “bisaccia”) favorì una maggiore produzione di copie, una moltiplicazione delle fette di mercato e persino la sperimentazione di nuove forme narrative: l’abbattimento dei costi permise infatti di uscire dal must della riproduzione dei classici. Ma la vicenda di Manuzio è importante anche per quel che ci dice sull’atteggiamento mentale di questo giovane stampatore: egli considerava la rivoluzione di Gutenberg come un fatto assodato e quindi, invece che provare nostalgia per i vecchi amanuensi o rimanere inutilmente meravigliato di fronte all’avanzare del  nuovo, si rese protagonista di un piccolo miglioramento a suo modo comunque straordinario. Come osserva Clay Shirky: «Il futuro appartiene a chi dà il presente per scontato» (p. 226). Ne sono oggi una prova lampante giovani come Mark Zuckerberg, Biz Stone, “Jimbo” Wales e Larry Sanger, rispettivamente fondatori e cofondatori di social netwok come Facebook, Twitter e Wikipedia. Come il giovane stampatore veneziano, anche gli attuali guru delle reti sociali hanno dato per assodata la fine di un’era della comunicazione e si sono adoperati per tracciare le traiettorie di quella a venire. Mentre il più degli osservatori (soprattutto quelli sopra i 40!) era ancora impegnato a valutare i pro e i contro di internet, i creatori di questi social network hanno dato per scontato il presente, sono cioè partiti da un presente totalmente immerso nella rete e così hanno inventato nuove, rivoluzionarie, forme di comunicazione. «I nuovi strumenti sociali non migliorano la società moderna, la sfidano» (p. 81). Nel suo nuovo lavoro, Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzare, Clay Shirky, docente alla Columbia University ed esperto degli effetti sociali dei new media, ci guida in quello che ancora molti stentano a recepire come «il periodo di più grande espansione delle capacità espressive della storia dell’uomo». I social network non sono un nuovo strumento per fare meglio quel che già prima si faceva, essi piuttosto rappresentano il detonatore di una incredibile crescita della nostra abilità di condivisione, collaborazione e aggregazione al di là delle collaudate forme istituzionali.

Se fino a ieri organizzare un qualsiasi gruppo allo scopo di raggiungere determinati obiettivi ha sempre richiesto l’intervento di un management, cioè di un ulteriore gruppo specializzato nell’organizzazione del gruppo subordinato (una squadra di calcio, un esercito, una piccola azienda, la chiesa cattolica, e così via), oggi i fenomeni di aggregazione in rete stanno dimostrando nuovi stupefacenti modi di realizzare compiti complessi senza altrettanto complesse intermediazioni. La nuova era dell’informazione sta cioè dimostrando che è forse possibile «organizzare senza organizzare». Pensate un po’ a Wikipedia, la celebre enciclopedia open source, e confrontatela con l’Enciclopedia Britannica: divisione spontanea e “disorganizzata” del lavoro, da un lato, e un’accuratissima e costosissima opera di valutazione, selezione, preparazione e verifica, dall’altro. Sì vabbè, ma tra i due prodotti non c’è confronto, direte voi. E invece no, almeno stando a quanto sostenuto qualche tempo fa niente poco di meno che da “Nature”, che tra prevedibili clamori le ha giudicate «sostanzialmente equivalenti».

Non rimane che chiedersi, insieme a Shirky, «Che cosa può accadere a una società nella quale l’aggregazione è così diffusa e incredibilmente semplice?». Per rispondere a questa domanda il guru dei new media fa leva su due ragionamenti. Il primo ha a che fare con il «valore della rete»; secondo Shirky la maggiore flessibilità e il maggiore potere di gruppo favoriti dal web non possono che preludere a cambiamenti dal segno positivo: sebbene molti cadano nella fallacia del lump of labor, secondo cui esisterebbe una determinata quota di lavoro nelle società, la rete ha dimostrato ancor più dell’invenzione della carta stampata che la “massa di lavoro” non è fissa e che se nuovi media mandano in soffitta vecchie figure, per esempio gli amanuensi, ne possono creare tante e più di prima. «Quando i costi crollano, il tempo e i soldi che si risparmiano possono essere utilizzati per fare cose nuove, cose che non erano pensabili in precedenza» (p. 222). Il secondo ragionamento riguarda invece il valore politico della rete. Anche da questo punto di vista i segni del cambiamento sono positivi, perché la rete aumenta a dismisura i margini di libertà e «si suppone che la crescita di varie forme di libertà, specialmente per quanto riguarda le libertà di parola, stampa e associazione, sia desiderabile di per se stessa» (p. 224). Sebbene tanto ottimismo abbia indubbiamente un suo fondamento e altrettanto indubbiamente faccia bene al cuore di ognuno di noi, è comunque utile mantenere una certa diffidenza. Non tanto dei nuovi strumenti sociali, quanto di chi li usa.

Verso la metà degli anni ’60 un gruppo anarchico olandese chiamato “Provo”, persuaso, come tutti gli anarchici, della naturale bontà dell’uomo, lanciò il progetto White Bycicle. Distribuirono decine di biciclette interamente bianche, senza lucchetti e senza alcuno strumento identificativo, per le strade di Amsterdam, in modo che tutti potessero riconoscerle e utilizzarle alla bisogna per poi lasciarle a disposizione degli altri. I membri di “Provo” intendevano dimostrare «la semplicità della vita, opposta alla sfarzosità e allo sporco dell’automobile». Una piccola rivoluzione ci fu, di fatto venne messa su un nuova infrastruttura a bassissimo costo. Purtroppo durò poco, perché a distanza di un mese gran parte delle bici fu rubata o gettata nei canali. L’uomo, messo nelle “giuste” condizioni, è una canaglia.

Fatta questa piccola precisazione, non c’è dubbio che le nuove tecnologie della comunicazione stanno inaugurando una «architettura della partecipazione» che ci vedrà tutti, inevitabilmente, coinvolti e «Quando cambiamo il modo in cui comunichiamo cambiamo l’intera società» (p. 15).

Cristian Fuschetto

01_2010

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