Autore
- Il «non-discorso» prodotto da un’idea di scienza come sapere assoluto e oggettivo
- Narratività e testi argomentativi
- Il soggetto che «parla» attraverso la forma letteraria del saggio scientifico
- L’autore scientifico come narratore: la persona che racconta nell’analisi di Gérard Genette
- Applicazioni
- Conclusioni
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S&F_n. 33_2025Abstract
Subjectivity and Diegesis in Scientific Texts. Applying the Categories of Narrative Analysis to Bring Awareness of the Implicit Subjects of Scientific Communication
Modern scientific discourse has claimed itself as a “non-discourse”, devoid of references to the context of enunciation, to the enunciating subject and to the recipient. The evolution of contemporary science leads to taking into consideration the question of the subject as forming a system with the observed object. Here I use Genette’s narratological categories to highlight the possibility of detecting the presence of the narrating subject also in scientific texts.
Nella nostra civiltà, i testi prodotti secondo una metodologia che voglia dirsi scientifica devono mostrarsi adeguati al programma della ricerca scientifica dell’epoca moderna: l’obiettivo è tendere a un sapere vero di per sé, a prescindere dalle opinioni personali e dal punto di vista di chi osserva, grazie a esperimenti ripetibili e a teorie verificabili e in grado di offrire predizioni attendibili. Il linguaggio utilizzato in un testo scientifico deve sforzarsi di eliminare tutti i termini ambigui e i possibili riferimenti a una situazione enunciativa transitoria che non possa essere ricostruita ovunque e sempre[1]. Questa riflessione è particolarmente vera per l’ambito delle cosiddette “scienze dure”, ma può essere applicata anche alle scienze umane.
L’ideale di un sapere assoluto e oggettivo introiettato nella ricerca scientifica porta (o dovrebbe portare) non solo al perseguimento dell’onestà intellettuale, all’argomentazione rigorosa, al riferimento a dati precisi e verificabili, all’accessibilità delle fonti consultate, insomma a tutto ciò che garantisce la trasparenza, la solidità e la chiarezza della comunicazione dei risultati della ricerca, ma anche all’adozione di un linguaggio con precise caratteristiche lessicali e stilistiche.
Un esito estremo della ricerca di un linguaggio “assoluto” e “asettico” si ha in testi che si presentano come un “non-discorso”, sottratti alla collocazione in un luogo e in un tempo determinati, senza soggetto dell’enunciazione e quasi senza bisogno di destinatario che recepisca. Un linguaggio così fatto istituisce il genere letterario saggio/articolo scientifico, caratterizzato dai segnali linguistici della pretesa di oggettività: l’uso della terza persona[2], dell’impersonale e del «noi autoriale»[3], l’assenza di commenti dell’autore che esprimano partecipazione o emozione, il registro puramente descrittivo. L’impressione che deve risultare è quella di trovarsi all’esterno rispetto a ciò di cui si parla, eclissando quanto più possibile l’autore del testo. Questa impostazione di stile e di contenuto è stata espressa, per esempio, da David Hume in Ricerca sull’intelletto umano (1748) e ha trovato l’espressione più estrema nel formalismo logico del neopositivismo[4].
L’idea di scienza come unica forma di conoscenza autentica, concepita dopo la rivoluzione scientifica e cresciuta lungo l’epoca moderna, è andata in crisi nel XX secolo: non solo sono possibili immagini alternative del mondo – come mostrato dalle geometrie non euclidee e da Einstein con la teoria della relatività –, ma si è accettato come un assunto storico e filosofico che la scienza in sé sia rivedibile e si modifichi anche attraverso discontinuità[5].
L’idea di una forma canonica impersonale di discorso scientifico portava a vedere il genere letterario saggistico e quello narrativo come distinti, evidenziando l’incompatibilità che esisterebbe tra la visione del mondo veicolata dai miti e quella propria della conoscenza teoretica[6]. Oggi siamo propensi a rivalutare la coesistenza di discorso mitico e discorso scientifico come due forme complementari di conoscenza e di gestione del rapporto con la realtà[7]. I miti, intesi come narrazioni o immagini con cui teniamo insieme la nostra esperienza personale con la sovrabbondante molteplicità del reale, impossibile da concettualizzare e comprendere totalmente, appaiono come una dimensione ineliminabile delle culture e delle società. Essi non descrivono né spiegano fenomeni delimitati, come si propone di fare il discorso scientifico, ma propongono un senso e una soluzione (eventualmente contraddittori o controfattuali) a problematiche ampie: come rappresentare la realtà in un modo che abbracci le sue regolarità e le sue variabili, come stare insieme in società, come far fronte a ciò che è ingestibile, fuori dal nostro controllo e dalla nostra comprensione. Perciò il mito ha una sua forza intrinseca e una sua specifica collocazione negli universi culturali.
La scienza stessa contribuisce a creare miti, sia perché nel momento in cui scopre nuovi aspetti della realtà ne mostra altri ancora inspiegabili, fornendo materiale a nuove spiegazioni mitologiche[8], sia perché per illustrare realtà impossibili da dimostrare sperimentalmente (come l’origine dell’universo o le dimensioni minime della materia) fa ricorso a immagini e narrazioni[9].
- Narratività e testi argomentativi
Poiché il mito si presenta in forma narrativa, contrapporlo al discorso scientifico porta alla distinzione tra racconti e testi logico-argomentativi: solo i secondi avrebbero la capacità di veicolare un “discorso vero”. Che queste due forme letterarie corrispondano a due diverse modalità di funzionamento della mente umana, cioè il pensiero logico-paradigmatico e il pensiero narrativo, entrambe basate sul principio di causalità, è la tesi dello psicologo Jerome Bruner[10]. Tuttavia, una simile distinzione tra due modalità di funzionamento, una utilizzata per raccontare casi legati a occorrenze specifiche, l’altra per spiegare i tipi generali attraverso argomenti logici, rende difficile spiegare come sia possibile passare dall’osservazione della realtà alla formulazione di teorie sulla stessa realtà[11].
Prescindendo da tale questione ancora aperta per le scienze cognitive e andando invece allo studio dei testi, in semiotica è diffusa l’idea che la narratività sia una proprietà strutturale di ogni discorso[12]. Algirdas Greimas parlava di programma narrativo come possibilità di sviluppo intrinseca e implicita di ogni termine[13]. Umberto Eco spiega questa possibilità attraverso il concetto di enciclopedia: ogni termine trae il proprio significato dalle connessioni con una rete di interpretanti (cioè contenuti culturalmente determinati), descrivendo percorsi all’interno dell’enciclopedia, cioè dell’universo del sapere condiviso in una cultura. La struttura semantica di ogni termine evoca non solo possibili sinonimi o caratteristiche culturalmente rilevanti, ma anche contesti e circostanze d’uso, interpretanti non verbali e interi racconti di cui il termine fa parte.
Sempre Eco, nel suo Lector in fabula[14], riporta un diagramma che descrive il modello dei livelli di cooperazione attraverso i quali si può attualizzare il contenuto di un testo a partire dalla sua manifestazione lineare. Tale modello può essere utilizzato anche per testi non narrativi perché anche in essi è possibile attualizzare una fabula, cioè una sequenza di azioni[15]. Eco fa l’esempio di un testo filosofico, l’incipit dell’Etica di Spinoza, in cui è possibile ritrovare ben due narrazioni, e accenna all’analisi dell’introduzione della Naissance d’Archange di Dumézil svolta da Greimas[16]. Secondo Eco, i testi narrativi contengono tutti i problemi teorici di qualsiasi tipo di testo, oltre a problemi propri, ed è per questo che la sua analisi si concentra su di essi.
Non occorre qui pronunciarsi sulla questione se la narratività sia effettivamente la modalità con cui organizziamo universalmente il senso, anche a livello cognitivo. Sta di fatto che, in forza della necessaria inserzione contestuale grazie alla quale interpretiamo un qualunque enunciato, è possibile espandere un atto linguistico elementare in una macroproposizione narrativa[17]. In questo senso, si può dire che non si ha reale contrapposizione tra testi narrativi e testi argomentativi; si potrebbe invece rimarcare la differenza tra testi narrativi e testi descrittivi, in cui si presenta una situazione ma non la trasformazione in un’altra situazione.
A partire da quanto detto finora va quindi osservato che il sapere scientifico non prescinde di per sé dalla forma narrativa, anzi, la presuppone nel momento in cui si debbano descrivere procedure e processi, ossia dei cambiamenti da uno stato iniziale a uno stato finale[18]. Eco ha mostrato con chiarezza, in un suo breve articolo[19], che la definizione non basta per conoscere una realtà: «il nostro sapere (anche quello scientifico e non solo quello mitico) è intessuto di storie». Per spiegare a un bambino che cosa sia un cane si può ricorrere all’ostensione (gliene mostriamo uno e gli diciamo: «Questo è un cane») oppure possiamo raccontargli una storia («È quell’animale che abbiamo visto l’altro giorno, quando siamo andati…»). Invece una definizione tassonomica, per quanto corretta e accettata presso la comunità scientifica, non ci verrà in nessun modo in aiuto.
L’oggetto di una ricerca scientifica può diventare l’inizio di un racconto, prima ancora che il soggetto di una definizione[20]. Dal momento che la narratività non può essere considerata estranea al discorso scientifico (come a nessun tipo di discorso), è possibile applicare anche al testo scientifico alcune categorie dell’analisi narrativa.
Uno spunto di riflessione importante riguarda il soggetto: ogni testo presuppone una istanza di enunciazione[21], ossia un soggetto che ponga in essere il testo stesso. Nei testi scientifici, come accennato sopra, l’enunciatore invece tende a sparire dietro ai dati, ai fatti e alle evidenze della realtà osservata. Di fronte alle consapevolezze acquisite dalla scienza nel XX secolo, l’idea che l’osservatore scientifico, applicando le corrette procedure, possa mantenersi esterno a ciò che osserva si è dimostrata irrealistica. L’esperimento della doppia fenditura, con cui si mostra visivamente l’effetto di interferenza quantistica prodotto dalla natura ambigua delle particelle subatomiche, è un esempio del fatto che l’osservatore fa inscindibilmente sistema con ciò con cui interagisce osservando.
Al di là dei segnali posti dal genere letterario scientifico per demarcare la propria assolutezza, oggettività e, in alcuni casi, indipendenza da un qualsiasi punto di vista, la presenza del soggetto resta ineliminabile in un testo, che è atto di significazione e comunicazione. Dietro a uno scritto, nella sostanza della sua espressione e prescindendo dal contenuto e dal genere letterario, c’è un soggetto o più soggetti umani, coinvolti in più modi con ciò che osservano (vi fanno fisicamente sistema) e con la descrizione di ciò che osservano (perché vivono una partecipazione emotiva, perché la loro visione è parziale, perché c’è sempre un punto di vista, ecc.). Questa presenza empirica non può fare a meno di manifestarsi nelle strutture testuali, sia come distanziamento (débrayage) che oggettiva il discorso (a prescindere dall’intenzione di renderlo il più neutrale possibile), sia nei simulacri che fanno riapparire l’enunciatore attraverso commenti o riferimenti alla situazione di enunciazione (embrayage). Evidentemente il testo non permette mai di risalire alla persona concreta dell’autore o degli autori, in quanto esso è un’oggettivazione del pensiero che crea di per sé una distanza (Greimas e Courtès parlano di «scissione creatrice»[22]), eppure porta le marche peculiari della propria produzione concreta e oggettuale.
Ci si potrebbe chiedere anche se il testo scientifico prescinda da un interlocutore, da un destinatario convocato non solo a porsi in ascolto, ma anche a muovere le proprie obiezioni, a interagire con quello che gli viene comunicato per metterlo alla prova ed eventualmente rispondere con un esperimento e una nuova pubblicazione scientifica. Di per sé, ogni testo postula, anzi, costruisce attraverso una strategia testuale il proprio destinatario ideale: un testo viene emesso in vista di qualcuno che lo attualizzi[23].
Seguiamo dunque la suggestione che l’autore (o, più precisamente, l’istanza di enunciazione) di un testo scientifico possa essere paragonato a un narratore. Genette ci offre alcuni strumenti per analizzare un racconto seguendo le categorie grammaticali del verbo, dunque assumendo che la struttura di base di ogni racconto sia l’azione[24]. La categoria della voce (nel senso della voce verbale, dell’uscita del verbo coniugata a un tempo e una persona, dunque considerata nel suo rapporto con un soggetto) permette di prendere in considerazione l’istanza di discorso, la narrazione come enunciazione da parte del narratore (figura fittizia da non confondere con l’autore empirico)[25]. Genette fa notare che si possono distinguere i tipi di narratore in base al livello narrativo e in base all’inserimento nel racconto.
L’atto enunciativo che produce il racconto configura il primo livello narrativo, quello della voce narrante che apre il racconto e ci introduce nella storia. In questo caso si parla di narratore extradiegetico. Quando invece è un personaggio interno al racconto a prendere parola (ma può trattarsi anche di un testo scritto riportato nella storia o di un sogno che viene raccontato), si parla di narratore intradiegetico e il livello narrativo sale (metadiegesi)[26].
Guardando al coinvolgimento del narratore nella storia che racconta, si può distinguere tra un narratore che non fa parte del racconto (eterodiegetico) o che ne fa parte (omodiegetico). Questa differenza non corrisponde all’uso della prima o della terza persona: Virgilio e altri poeti epici iniziano le loro composizioni in prima persona («Arma virumque cano»), esplicitando il proprio atto narrativo, ma non sono personaggi di esse. Se il narratore poi non solo è un personaggio della storia che narra, ma narra la propria storia, abbiamo un grado forte dell’omodiegesi (narratore autodiegetico)[27].
I due modi di classificare il narratore possono essere combinati, in modo da ottenere una tabella a doppia entrata[28]. Nel testo di Genette non compare il termine allodiegetico, ma è difficile risalire a chi lo abbia introdotto per primo[29].
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Livello narrativo ® Rapporto ¯ |
Extradiegetico | Intradiegetico |
| Eterodiegetico | Narratore di primo livello che racconta una storia di cui non è personaggio (Omero) | Narratore interno alla storia che racconta una storia di cui non è personaggio (Sherazad) |
| Omodiegetico | Allodiegetico: narratore di primo livello che racconta una storia di cui fa parte, ma di cui non è il protagonista (dottor Watson)
Autodiegetico: narratore di primo livello che racconta la propria storia (autobiografia, reale o fittizia) |
Allodiegetico: narratore interno che racconta una storia di cui fa parte, ma di cui non è il protagonista (Nestore che racconta la guerra a Telemaco)
Autodiegetico: narratore interno che racconta la propria storia (Ulisse che racconta le sue peripezie ad Alcinoo) |
Classificazione del narratore secondo Genette
Stabilite queste coordinate, possiamo vedere come si applicano a un testo scientifico.
Va da sé che l’autore di un saggio, nel momento in cui si mette a scrivere, pone in essere una istanza narrativa, una voce – per utilizzare il termine più generico, visto che non si tratta del narratore di un racconto vero e proprio – che conduce l’argomentazione; in questo modo viene istituito il primo livello testuale: si tratta di una voce extradiegetica. Tale voce può essere esplicita, nel caso in cui si palesi attraverso alcuni segnali morfologici, o implicita, quando non viene in nessun modo segnalata (può essere il caso delle dimostrazioni matematiche costruite attraverso frasi impersonali e sequenze di formule).
La voce intradiegetica nei saggi è tipicamente rappresentata dalle citazioni. Esse istituiscono dei livelli testuali, creano incassature, chiamano in causa voci distinte da quelle dell’autore (e che hanno valore proprio in quanto distinte, rafforzando la tesi che viene sostenuta), mostrano in filigrana la complessità intertestuale che sta dietro la ricerca scientifica.
L’autore può essere eterodiegetico, se parla di esperienze altrui o riporta descrizioni in modo distaccato, oppure omodiegetico, quando descrive esperienze di cui è parte come osservatore (nel senso scientifico del termine), utilizzando la prima persona. In questo caso la situazione di voce autodiegetica si ha se l’autore in qualche modo coincide con l’oggetto della ricerca, cioè racconta esperienze personali di cui è protagonista e che lo hanno coinvolto personalmente, mentre la voce allodiegetica riporta esperienze che ha vissuto come osservatore.
- Applicazioni
La ricerca filosofica e scientifica in realtà ha sempre fatto ricorso alla forma narrativa: c’è un filo rosso che unisce i dialoghi platonici al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) di Galilei. L’idea di mettere in scena un colloquio artificioso su un argomento teorico ha la funzione di coinvolgere il lettore nel tema trattato, dandogli l’impressione di trovarsi all’interno del dibattito e facendogli seguire l’argomentazione passo passo, esplicitando le eventuali obiezioni che possono venire sollevate. Il genere del dialogo ha dunque un preciso orientamento verso il suo fruitore e delinea una strategia narrativa empatica, costruisce una disposizione teatrale in cui le idee si muovono personificate dagli interlocutori. La posizione dell’autore emerge dall’andamento del dialogo: solo alla fine avremo in mano la tesi e le argomentazioni e capiremo chi ha “avuto la meglio”.
Sull’altro versante stanno Aristotele e Newton, che comunicano le loro scoperte e speculazioni nella forma del trattato. L’incipit della Metafisica, «Tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere», delinea uno sguardo netto, universale: la voce del saggista (il narratore della forma letteraria “saggio”) ci introduce direttamente nelle conclusioni generalizzanti che trae dall’osservazione della realtà. È proprio questo, prosegue Aristotele, che distingue l’esperienza empirica dall’arte, dalla techne, e quindi produce e giustifica proprio il tipo di discorso che sta svolgendo. Viene presentata una constatazione che chiunque può fare, purché applichi la ragione all’osservazione. Newton invece struttura il suo Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687) attorno a definizioni, proposizioni e problemi. Per quanto possano apparire asettiche, statiche e descrittive, queste pagine arrivano a conclusioni generalizzabili attraverso esperienze mentali che possono essere strutturate come narrazioni (specialmente quando si tratta del moto dei corpi). Proporre un esperimento significa invitare a porsi nel ruolo dell’osservatore: è implicito un punto di osservazione da cui poi riferire quanto si è osservato.
L’articolo con cui Einstein introduce la relatività speciale, L’elettrodinamica dei corpi in movimento (1905), parte dalla constatazione che la teoria di Maxwell lascia spazio ad asimmetrie e lo mostra invitando il lettore a visualizzare il caso di un magnete e di un campo elettrico in movimento reciproco. Poi l’autore comincia a costruire l’esperienza mentale del sistema stazionario, in cui ci sono osservatori e orologi, e quindi applica le formule matematiche con le quali, in un linguaggio formalizzato e comprensibile da chi ne conosce il codice, si descrivono sia stati di cose che relazioni di proporzione o di equivalenza. È interessante che questo articolo si concluda con il ringraziamento a Michele Besso “per avermi assistito mentre lavoravo a questi problemi, fornendomi anche alcuni preziosi suggerimenti”. L’aspetto umano, il dettaglio di vita vissuta, emerge e quasi deborda ai margini dell’indagine intellettuale condotta con gli strumenti astratti e formalizzati della matematica, come un segnale di embrayage, denunciando la precisa collocazione storica dell’articolo, che non potrebbe essere stato scritto in un’altra circostanza.
Nel campo delle scienze umane, negli stessi anni Freud lavorava ai casi clinici. La forma letteraria utilizzata è necessariamente narrativa: la presentazione della storia del paziente o della paziente procede per raccolta di elementi autobiografici in cui Freud inserisce i propri commenti finalizzati a illustrare il processo interpretativo e terapeutico. Il caso di Dora, Frammento di analisi di un caso di isteria (1905), è preceduto da una nota introduttiva che colloca lo scritto all’interno del suo percorso di scrittura e di pubblicazione e in cui Freud parla in prima persona dell’esperienza fatta. La figura dello scienziato-terapeuta non può essere nascosta, anzi, proprio la necessità di renderla esplicita è alla radice del concetto di controtransfert. Il racconto del caso produce al suo interno più livelli narrativi e più istanze narranti nel momento in cui viene data voce alla paziente e al racconto dei suoi due sogni (narratore intradiegetico e omodiegetico).
Ludwig Wittgenstein decide di strutturare il Tractatus logico-philosophicus (1922) come una sequenza di proposizioni atomiche dalla cadenza solenne, assoluta; l’incipit sembra al di là di tempo e spazio: “Il mondo è tutto ciò che accade”. Eppure anche quest’opera, per il lessico che usa e per come è strutturata in paragrafi con numerazione decimale, porta i segni linguistici della propria enunciazione in un determinato momento della storia del pensiero.
Ci sono casi di lavori scientifici attinenti ai campi dell’antropologia e della sociologia che possono essere ascritti alla categoria della narrazione allodiegetica: accade quando il ricercatore intende studiare un gruppo di cui fa parte (il caso limite è quando si ha come oggetto un aspetto che riguarda tutti gli esseri umani). La descrizione di spezzoni di comportamenti, di riti e di usanze (intradiegesi) da parte del ricercatore che, pur facendo parte del gruppo, si pone come osservatore dell’avvenimento – può essere il caso di un etnografo che voglia registrare gli usi del proprio villaggio natale o di un sociologo cattolico che analizzi la situazione della Chiesa di cui fa parte – portano a dover elaborare un punto di vista in qualche modo coinvolto nel caso di studio. Fatto che, se portato a consapevolezza, non è necessariamente un disvalore, perché consente di accedere a significati e interpretazioni dall’interno, sicuramente di parte ma forse meno arbitrari rispetto a quelli avanzati da osservatori esterni che coltivassero inconsciamente la presunzione di essere più “oggettivi”.
La scienza moderna ha nutrito la pretesa di potersi presentare come conoscenza oggettiva e assoluta, a prescindere da qualunque punto di vista e collocazione socioculturale. La crisi dei modelli scientifici che ha attraversato il XX secolo ha smontato questa pretesa. Il genere letterario del saggio o dell’articolo scientifico è stato plasmato nelle sue forme linguistiche dalla pretesa moderna e ancora oggi spesso si richiede da esso che presenti le caratteristiche dell’impersonalità e dell’oggettività assoluta. Qui ho cercato di mostrare che si può essere più consapevoli delle dinamiche sottese alla struttura comunicativa e ai presupposti impliciti di un testo che intende presentarsi sotto le vesti della scientificità se lo si accosta con gli strumenti dell’analisi narrativa.
Nei casi di scienze che comportino descrizioni di procedure e di processi, le sequenze operative e osservative generano di per sé una struttura in qualche modo narrativa, e la narrazione non è estranea ai nostri processi di conoscenza. Tutti abbiamo fatto esperienza che «il sapere si propaga attraverso storie»[30]. La voce dell’osservatore e l’intenzione di dirigersi a un destinatario competente a recepire e rispondere a quanto riportato nel testo (dunque, i soggetti che strutturano qualunque atto discorsivo[31]) sono elementi normalmente sottovalutati (e in alcuni casi resi deliberatamente impliciti), ma presenti anche in un testo scientifico. L’altissimo grado di rarefazione del soggetto nel caso di articoli che trattano dimostrazioni matematiche non deve far dimenticare che si tratta comunque di una comunicazione tra soggetti umani circa sistemi di rappresentazione che hanno sussistenza solo all’interno delle menti dei soggetti capaci di formalizzarli ed esprimerli.
Portare a consapevolezza la posizione della «istanza narrativa» anche in un testo non esplicitamente narrativo può permettere di capire molte cose sul punto di vista e sui preconcetti dell’osservatore scientifico, come anche la sua implicazione con l’oggetto di studio. Osservatore e oggetto costituiscono in ogni caso un sistema; il tipo di narratore che si può individuare in filigrana all’osservatore ci dice qualcosa del loro modo di fare sistema. Rendere consapevole tale rapporto sistemico può offrire uno sguardo più critico su un discorso che vuole proporsi come scientifico, con la coscienza che l’oggettività assoluta non è possibile e che occorre valorizzare i punti di forza offerti da ogni specifico punto prospettico, con le sue parzialità.
La questione che qui ho delineato diventa tanto più urgente nella misura in cui il panorama delle pubblicazioni scientifiche si sta saturando a causa di una cultura che spinge verso la moltiplicazione delle pubblicazioni a scapito della qualità e della significatività[32]. L’introduzione di tecnologie per la scrittura automatica mediante Intelligenza Artificiale complica la questione[33]: chi è il soggetto scrivente dietro a un testo verosimile basato su dati scientifici forniti da ricercatori ma materialmente elaborato da una macchina? L’istanza di enunciazione generata artificialmente può dirsi astratta, oggettiva e assoluta o ha anch’essa una collocazione (e quale)?
[1] Cfr. W.V.O. Quine, The Scope and Language of Science, in «The British Journal for the Philosophy of Science», VIII, 29, 1957, pp. 1-17.
[2] Cfr. E. Benveniste, La natura dei pronomi (1956), in Id., Problemi di linguistica generale (1966), Il Saggiatore, Milano 2010, p. 302.
[3] Id., Struttura delle relazioni di persona nel verbo (1946), in ibid., p. 280.
[4] Cfr. R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio (1931), in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino 1969, pp. 504-532.
[5] Cfr. S. Gattei, La rivoluzione incompiuta di Thomas Kuhn. La tesi dell’incommensurabilità e l’eredità del Neopositivismo, UTET, Novara 2007, pp. 7-9.
[6] Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche. Fenomenologia della conoscenza (1929), t. III, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 103.
[7] Cfr. P. Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019, pp. 105-106.
[8] Cfr. ibid., pp. 104-105.
[9] Cfr. M. Niola, Miti d’oggi, Bompiani, Milano 2012, p. 10.
[10] Cfr. J. Bruner, La mente a più dimensioni (1986), Laterza, Roma-Bari 1988.
[11] Cfr. V. Pisanty, Narratologia e scienze cognitive, in A. M. Lorusso, C. Paolucci, P. Violi (a cura di), Narratività. Problemi, analisi, prospettive, Bologna University Press, Bologna 2012, pp. 265-267 e p. 266, nota 6.
[12] Cfr. A.M. Lorusso, C. Paolucci, P. Violi, op. cit., p. 9.
[13] Cfr. A.J. Greimas, Les Actants, les Acteurs et les Figures, in C. Chabrol (a cura di), Sémiotique narrative et textuelle, Larousse, Paris 1973, p. 174.
[14] Cfr. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979, p. 72.
[15] Cfr. ibid., pp. 105-107.
[16] Cfr. ibid., pp. 109-110. L’analisi di Greimas di trova nel saggio Des accidents dans les sciences dites humaines, pubblicato in «VS», IV, 12, 1975, pp. 1-31, e in A.J. Greimas, Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni (1983), Bompiani, Milano 1984.
[17] Cfr. U. Eco, Lector in fabula, cit., pp. 105-106.
[18] Questo sarebbe il requisito fondamentale per un testo narrativo, cfr. ibid., p. 108.
[19] U. Eco, Ecco l’angolo retto, in «L’Espresso», 28 aprile 2005.
[20] Eco cita un brano di Charles S. Peirce che elenca una serie di modi in cui si potrebbe definire operativamente il litio, al di là dell’indicazione del peso atomico. Cfr. U. Eco, Lector in fabula, cit., p. 37.
[21] Per i concetti di istanza dell’enunciazione, débrayage e embrayage, cfr. A.J. Greimas, J. Courtès, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio (1979), Bruno Mondadori, Milano 2007.
[22] Cfr. ibid., p. 69.
[23] Cfr. U. Eco, Lector in fabula, cit., pp. 52-53. Tale strategia testuale è chiamata da Eco «Autore modello».
[24] Questo modo di analizzare il racconto fu proposto da Tzvetan Todorov in un contributo del 1966, Les catégories du récit littéraire; cfr. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), Einaudi, Torino 1976, p. 77.
[25] Cfr. ibid., p. 259.
[26] Cfr. ibid., pp. 275-279.
[27] Cfr. Ibid., pp. 291-293.
[28] Cfr. Ibid., p. 296.
[29] F. Pennacchio, Allofiction. Appunti su Latronico, Siti, Orecchio, in «il verri», XXII, 64, 2017, p. 73, nota 5: «In Italia è probabile che il primo a parlare di narratore allodiegetico sia stato G. Goggi, nel 1983, in Assurdo e paradigma di realtà: alcuni nodi del fantastico (raccolto in R. Ceserani et al., La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa 1983, 75-176), mentre l’anno successivo il termine appare in F. Brioschi-C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Principato, Milano. Nel 1991 è invece C. van der Voort a parlare di un allodiegetic narrator in De analyse van verhalend proza, in P. Zeeman (ed.), Literatuur en context. Eeninleiding in de literatuurwetenschap, Sun, Nijmegen, pp. 24-58; e nello stesso anno, sul numero 85 di “Poétique”, G. Brulotte, in Petite narratologie du récit dit érotique (3-16), scrive che si potrebbe “qualifier d’allodiégétique (Genette ne l’ayant pas dénommé)” un narratore omodiegetico non protagonista della storia che racconta».
[30] U. Eco, Ecco l’angolo retto, cit.
[31] Cfr. E. Benveniste, La soggettività nel linguaggio (1958), in op. cit., p. 312.
[32] Cfr. J. Brainard, New tools show promise for tackling paper mills, in «Science», CCCLXXX, 6645, 2023, pp. 568-569.
[33] Cfr. M. Májovský et al., Artificial Intelligence Can Generate Fraudulent but Authentic-Looking Scientific Medical Articles: Pandora’s Box Has Been Opened, in «Journal of Medical Internet Research», XXV, 2023, e46924; H. Else, ‘Tortured phrases’ give away fabricated research papers, in «Nature», CLIII, 596, 2021, pp. 328-329.






