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Cronopolitica dell’eccezione. Pandemia e tardo capitalismo

Autore


Luigi Pellizzoni

Università degli Studi di Pisa

Insegna Sociologia dell’ambiente e del Territorio all’Università degli Studi di Pisa

Indice


  1. Introduzione
  2. Emergenza o eccezione?
  3. Pandemia e ontologia
  4. Modernità e politica del tempo
  5. La politica del tempo del tardo capitalismo
  6. Messianismo e tardo capitalismo
  7. Conclusione

 

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S&F_n. 25_2020

Abstract


Chronopolitics of the exception. Pandemic and late capitalism

The debate over the Sars-CoV-2 pandemic developed in the early months of 2020 set a contrast between those claiming the emergency measures to be extraordinary but justified and legally grounded and those who inscribed them in a process of normalization of the state of exception. After noting shortcomings of both positions, the paper argues that the state of exception that is being imposed is based on a peculiar ontology and anticipatory politics. The first, contrary to what is assumed by plenty of social theory, builds not on the affirmation but on a denial of the distinction between nature and society; the second relies on a temporal structure that is no longer the linear one typical of modernity, but is rather akin to Pauline messianism. To understand today’s dynamics of domination and assess the social forces opposing them, an accurate analysis of the politics of time established by late capitalism is indispensable

  1. Introduzione

L’esplosione della pandemia Sars-Cov-2 ha sollevato fin dai primi mesi un dibattito sulle risposte elicitate. Molti hanno insistito sul carattere straordinario ma legalmente fondato dello stato di emergenza, giustificato dalla preminenza del diritto alla salute. Altri hanno invece sostenuto che l’emergenza Covid-19 costituisce un ulteriore, forse cruciale, passo in direzione di una normalizzazione dello stato di eccezione.

In questo contributo provo a riflettere sulla questione collocandola nel quadro dell’ontologia e della politica del tempo tardo-capitalista. Nella prima sezione riassumo i termini della controversia sviluppatasi in Italia nella primavera 2020 rilevando insufficienze presenti in entrambe le posizioni. Significativa è la loro convergenza, da prospettive opposte, sulla distinzione tra natura e società; distinzione la cui negazione, sostengo, è invece proprio ciò su cui il dominio oggi si fonda. La connotazione amministrativa data alle misure di emergenza sottolinea inoltre il carattere processuale, piuttosto che puntuale, dello stato di eccezione. Per cogliere il modo in cui esso si dispiega mi concentro sull’evoluzione recente del regime delle anticipazioni. È nella struttura temporale della pre-emption e della preparedness, suggerisco, che si può cogliere il modo in cui procede la normalizzazione. Una struttura “messianica” affine, anche se non coincidente, con quella paolina. La conclusione è nel solco delle suggestioni di Benjamin sullo stato di eccezione e il tempo messianico come opportunità per un cambio di rotta. Ciò che appare indispensabile, al fine di una comprensione delle odierne dinamiche di dominio, è un’analisi accurata della politica del tempo instaurata dal tardo capitalismo.

 

  1. Emergenza o eccezione?

Nella primavera 2020 si sviluppa in Italia un acceso dibattito su come interpretare la risposta all’insorgere della pandemia, ossia la dichiarazione dello stato di emergenza e le conseguenti restrizioni a fondamentali libertà. Due le principali posizioni.

La prima è quella di chi legge lo stato di emergenza nei termini di una situazione straordinaria, richiedente azioni commisurate ma non eccedenti l’ordinamento giuridico. Emblematica al riguardo è la tesi del costituzionalista Gustavo Zagrebelski, secondo cui il carattere straordinario degli eventi ben giustifica le misure restrittive adottate dal governo. Esse non rappresenterebbero un vulnus a diritti fondamentali. Non solo lo stato di emergenza è una fattispecie prevista dalla legge, ma esiste in Costituzione una gerarchia di tali diritti al cui vertice stanno vita e salute, la cui tutela prevale quindi su ogni altro aspetto. Ne consegue, prosegue il giurista in un’intervista pubblicata su Repubblica il 21 marzo, che le restrizioni alle libertà in risposta a un’epidemia non possono essere assimilate a quelle imposte da regimi repressivi come quello di Pinochet in Cile. Vi sarebbe, insomma, una differenza qualitativa tra lo stato di emergenza instaurato a seguito di minacce biologiche o di conflitti politici e sociali. Su una simile linea di ragionamento si pongono molti altri intellettuali. Tra questi merita citare Paolo Flores D’Arcais, che in un intervento pubblicato il 16 marzo su MicroMega non solo sposa la tesi della piena giustificazione delle misure restrittive ma invoca un affidamento totale alla scienza, unica portatrice del sapere, ergo del bene comune, cui la filosofia (e presumibilmente ogni altra forma di cognizione) può solo svolgere un ruolo ancillare. La posizione “emergenziale” traccia quindi una linea netta tra tipi di emergenze, di origine sociale e non sociale, assegnando un ruolo prioritario nella gestione delle seconde agli scienziati, e considera le restrizioni quali misure amministrative finalizzate ad agevolare l’azione nel caso di «circostanze impreviste e momenti critici richiedenti un intervento immediato per ridurre i possibili danni derivanti dalla situazione» (così l’Enciclopedia Treccani definisce l’emergenza).

La seconda posizione è quella di chi non solo ravvisa negli interventi assunti in nome dell’emergenza segni inequivocabili dello stato di eccezione, ma vi scorge anche indizi di una spinta decisiva alla normalizzazione di quest’ultimo. La tesi è che la risposta alla pandemia non configuri nulla di realmente nuovo rispetto alla casistica degli stati di eccezione della tarda modernità (da Pinochet a Guantanamo), ma rappresenti anzi l’occasione per accelerare il programma della sua imposizione quale stato permanente. Così, intervenendo sull’Huffington Post del 16 marzo, Nadia Urbinati si chiede se alla difesa della vita si debba sacrificare la libertà, tanto più se la minaccia deriva non solo dal virus in quanto tale ma anche da scelte politiche quali i tagli al sistema sanitario nazionale. In un intervento scritto per la BBC e pubblicato in Italiano sul blog Comune.info del 27 febbraio, Raúl Zibechi argomenta che l’epidemia offre l’opportunità di una grande esercitazione per l’applicazione di forme di macro e micro controllo sempre più oppressive, destinate a caratterizzare l’ordine sociale in via di costituzione, basato sulla potenza egemone della Cina e delle élite capitaliste. Alfiere della tesi dello stato di eccezione – e bersaglio di critiche feroci per la riproposizione senza modifiche del proprio schema analitico – è però Giorgio Agamben, ossia il filosofo che con più insistenza e maggiore successo internazionale ne ha elaborato la teoria quale dispositivo centrale della politica occidentale, dal peso sempre più schiacciante via via che, nel corso della modernità, il potere è andato focalizzandosi sulla gestione della vita individuale e collettiva[1]. Va notato che la natura amministrativa dei provvedimenti straordinari, addotta dagli “emergenziali” a prova del loro collocarsi nel recinto dello stato di diritto, diviene nella prospettiva di Agamben una conferma della normalizzazione in corso dello stato di eccezione. Quanto alla causa non sociale dell’emergenza, essa nell’argomentazione “eccezionalista” ha rilievo solo in quanto fornisce un solido pretesto all’accelerazione del processo.

 

  1. Pandemia e ontologia

Il dibattito così riassunto potrebbe essere ritenuto, a distanza di un anno, superato. La fiammata iniziale legata allo spiazzamento degli intellettuali di fronte a un evento inatteso, per quanto annunciato[2], ha lasciato il posto a considerazioni più pacate. Tuttavia, qualora anche (e non è certo) fossero stati compiuti passi avanti nella riflessione, la diatriba iniziale consente di cogliere aspetti problematici che non hanno perso di attualità.

In particolare, la tesi emergenziale trascura la differenza tra diritto individuale alla vita, senza difendere il quale viene meno la possibilità di esercitare ogni altro diritto, e priorità della salute per il corpo politico. A questo livello la compressione degli altri diritti non può che assumere una valenza fortemente biopolitica, non liquidabile appellandosi alla costituzionalità degli interventi. Ammesso che effettivamente dalla Costituzione risulti la gerarchia di cui parla Zagrebelski (leggendo il testo da comune cittadino non ne sono sicuro), si può dubitare che i padri costituenti avessero con questo in mente la fondazione di uno stato biopolitico, se non altro perché avevano avuto a che fare fino al giorno prima con il Nazismo. Il fatto poi che l’uso degli strumenti normativi, in particolare i DPCM, abbia sollevato discussioni molto accese non è riducibile a mere scaramucce tra fazioni politiche ma indica come in gioco ci sia il carattere della decisione sulla gravità della crisi, dunque il problema dell’eccezione sovrana. La reiterazione dei decreti e l’insistenza a classificarli come mere soluzioni amministrative ha enfatizzato ulteriormente la questione, per le ragioni anzidette. Lo stesso tema si pone per la ripresa economica, rispetto a cui nel momento in cui scrivo (Aprile 2021) si annunciano “indispensabili” eccezioni alle procedure di legge.

Dal canto suo, la tesi dello stato di eccezione sconta effettivamente una rigidità interpretativa, ma non nel senso indicato dai critici di Agamben. Il problema, infatti, non è tanto quello di uno schema la cui validità è pretesa estendersi dall’antichità a oggi, senza riguardo alle condizioni profondamente diverse in cui il biopotere si esplica nel corso del tempo. Il problema è semmai proprio ciò su cui Agamben e i suoi critici concordano: la distinzione tra società e natura, o tra politica e vita. Per gli “emergenziali” tale distinzione è scontata: su ciò si fonda la differenza tra Pinochet e il Sars-Cov-2, nonché l’appello salvifico alla scienza, senza specificazioni e senza considerarne il ruolo nel determinare le condizioni per l’insorgere delle zoonosi. Per Agamben la distinzione costituisce l’operazione fondamentale del potere, che occorre disinnescare nel solco di una politica “destituente”[3]. In entrambi i casi essa vige. In tal modo entrambe le prospettive mostrano di non considerare aspetti su cui ci si va interrogando, in particolare presso i science and technology studies (STS) e nell’ambito della costellazione che va sotto il nome di ecologia politica.

Come molti dei compagni che l’hanno preceduto negli anni recenti, il Sars-CoV-2 non appartiene né al mondo della natura né al mondo sociale, ma incarna l’annullamento della distinguibilità tra le due sfere. Una varietà di studi[4] mostra la stretta connessione tra intensificazione dell’estrazione di valore da parte dell’agribusiness da un lato, e sviluppo e circolazione di agenti patogeni sempre più pericolosi dall’altro. Ciò del resto fa il paio con quanto da tempo vanno dicendo le aziende biotecnologiche: ossia che quanto fanno – mescolare il materiale vivente – non solo lo si fa da che esiste l’agricoltura, ma lo fa la natura stessa, da sempre; che la tecnologia che esse mettono in campo non è insomma «altro che la biologia stessa, o la “vita stessa”»[5]. La tecnologia è natura, dice Big Pharma, e la natura è tecnologia. Cosa puntualmente riconosciuta dalla legislazione: no a regolamentazioni specifiche, in quanto gli organismi geneticamente modificati sono equivalenti ai loro omologhi “naturali”; sì però a brevettazione, perché i primi forniscono prestazioni superiori ai secondi. Da questo punto di vista, è facile pronosticare che la controversia sull’origine del Sars-CoV-2 sia destinata a rimanere irrisolta. Ciò non tanto per le reticenze del governo cinese o la credibilità compromessa dell’OMS, ma perché quanto più a fondo si spinge l’intervento sul materiale biologico, tanto più la distinzione tra “naturale” e “artefatto” diviene indecidibile. Uno degli obiettivi della ricerca sui virus – forse anche quella che si conduce a Wuhan – è il cosiddetto gain of function: l’esplorazione dei potenziali di letalità e trasmissibilità delle possibili varianti di un virus ottenute tramite modifica dei suoi tratti genetici[6]. In altri termini, per anticipare possibili mutazioni le si produce attivamente – per ogni evenienza: militare, ma anche industriale. Come con il “potenziamento” umano, così con i virus potenziati distinguere tra tecnica e natura, organismo e macchina, perde di senso[7]. Nulla cambia, peraltro, se il virus si è sviluppato spontaneamente, essendo tale “spontaneità” frutto dell’intensificazione estrattiva consentita dalla tecnica e richiesta dalla competizione globale, dunque ancora una volta posta oltre la distinzione tra sociale e naturale, politica e vita.

Mantenere salda tale distinzione, che ciò valga a marcare la differenza tra tipi di emergenza o a ribadire il fondamento dello stato di eccezione, significa dunque tenere lo sguardo rivolto all’indietro. Agamben evoca un tempo liberato in cui il bios coinciderà con la propria zoe; in cui cioè l’operazione fondamentale del potere, l’occultamento dell’unità ontologica del vivente, sarà destituita. Ma questo tempo è già qui. L’unione inscindibile e vitale di natura e tecnica, materia e capitale, è il mantra su cui si fonda l’attuale fase del capitalismo, nonostante un buon numero di filosofi e teorici sociali persista a celebrare tale unione come emancipativa[8], senza chiarire in che modo la decostruzione del dualismo umanista possa oggi funzionare contro l’ordine dominante; come si faccia concretamente a distinguere tra human enhancement “buono” e “cattivo”; cyborg capitalisti e anti-capitalisti[9]. Detto in altri termini, il problema su cui il Sars-Cov-2 interroga non è riconducibile all’homo sacer, il dispositivo di separazione-cattura del vivente, ma a quello inverso della negazione di qualsiasi separabilità: l’assimilazione senza residui della realtà all’ordine del capitale, entro cui la natura si palesa come mera, e sempre revocabile, differenziazione interna, a fini di produzione di valore[10].

Tutti, in un modo o nell’altro, ammettono che il Sars-Cov-2 non è un fenomeno “naturale”, per come la natura è stata definita nella storia dell’occidente: altro dall’umano, sfondo da cui questo emerge e su cui esso opera, ma che procede anche e innanzitutto per conto proprio. L’esternalizzazione del virus si consuma interamente entro un campo condiviso; non c’è un esterno da cui il nemico proviene e in cui può essere risospinto. Dire che da sempre il nostro corpo convive con organismi tanto utili quanto potenzialmente patogeni, e che solo il delirio immunitario della modernità può far balenare l’idea di una separabilità tra biologia umana e milieu biofisico[11], non coglie nel segno. Anche nella narrazione mediatica, più che un alieno il Sars-Cov-2 è l’avversario di una partita, dunque membro di una stessa collettività. Le sue mutazioni non fanno che renderlo ancor più “familiare”, parte inseparabile di noi. E tuttavia, nel riconoscere ciò, è difficile provare quel senso liberatorio che promana dai teorici politici e sociali che insistono da decenni a celebrare la detronizzazione dell’umano dalla pretesa signoria sul mondo. La sensazione è piuttosto che, quanto più stretto è l’abbraccio tra virus e umani, tecnica e pianeta, tanto più tale pretesa si erge e si espande. Dello sgravio di responsabilità implicato dal proclama antiumanista, il cui slancio vitalista ostacola il bagno di umiltà che pure esso consentirebbe[12], beneficia innanzitutto il tardo capitalismo, per legittimarsi come unico possibile ordine del mondo.

 

  1. Modernità e politica del tempo

In questa ontologia sta il fondamento dello stato di eccezione alla cui normalizzazione il Sars-CoV-2 sta contribuendo. Uno stato di eccezione che ha gli stessi obiettivi di dominio di quello descritto da Agamben, ma da cui si discosta per una strategia profondamente differente, se non opposta – non dichiarare bios e zoe cose distinte, ma schiacciare l’uno sull’altra in modo da far prendere alla vita la forma del capitale – e il fatto di aver sostanzialmente abbandonato, proprio per questo, il piano della politica a favore dell’economia[13]. Del resto, se non c’è un fuori rispetto all’ordine vigente, non c’è nemmeno spazio per un vero conflitto politico, che di un esterno almeno immaginato ha bisogno per fare leva contro di esso. Resta solo l’amministrazione: delle cose, delle vite. Le scaramucce politiche sulla gestione dell’emergenza e dei piani vaccinali riescono malapena a velare chi mena realmente la danza: Big Pharma e altre élite globali, incluse quelle stataliste di Cina e Russia, da cui del resto i giganti del biotech e del web, dotati di un potere – dispotico – ormai superiore a quello di gran parte degli stati nazionali, non si differenziano molto. L’abbraccio di capitale e tecnica espresso dai vaccini offre la soluzione a un problema da esso stesso creato, raddoppiando così l’estrazione di valore. E poiché il problema è dato come destinato a riproporsi con nuove varianti del Sars-CoV-2 o altre zoonosi, la doppia estrazione, già in essere ben prima dello scoppio della pandemia (si pensi a come varie patologie, dal cancro alle malattie autoimmuni, siano curate con farmaci che spesso provengono dalle stesse aziende produttrici degli inquinanti che ne stanno all’origine) assume un carattere sempre più scontato e permanente.

Lo stato di eccezione, in effetti, non si consuma tanto nell’atto della decisione sovrana, ma nella sua reiterazione. Non è un gesto ma un processo. Ha uno svolgimento. La prosecuzione dell’emergenza nel corso del 2020 e del 2021, con il saliscendi di livelli di allarme e di vittime da conteggiare, non solo evidenzia il carattere amministrativo dell’eccezione ma mette in luce la dinamica che ne rende possibile la continuazione; certo oltre la revoca formale dello stato di emergenza.

Per comprendere tale dinamica dobbiamo partire dal rapporto con il tempo instauratosi nella modernità. Come ha chiarito con esemplare nitidezza Niklas Luhmann, l’orientamento moderno al “nuovo”, cioè a un futuro concepito come aperto piuttosto che come ripetizione del passato, deviazione accidentale da schemi stabiliti o fine del tempo, rende problematica la connessione tra “futuri presenti” (cioè visioni attuali di futuri potenziali) e “presenti futuri” (cioè stati di cose determinati dalla catena degli eventi). E più, grazie alla tecnica, tale catena è vista allungarsi per l’estendersi della gittata dell’azione (“futurizzazione”), più diviene necessario trovare maniere per controllare (“defuturizzare”) l’indeterminatezza che ciò comporta[14]. Defuturizzare il futuro significa anticiparlo, renderlo «causa e giustificazione per qualche forma di azione nel qui e ora»[15]. Ciò include anche, e innanzitutto, l’anticipazione di eventi infausti. In altre parole, la politica del tempo – o “cronopolitica” com’è anche stata chiamata[16] – assume particolare importanza nella società moderna. Tra le molte indicazioni al riguardo, vi è quanto annota Reinhart Koselleck circa il fatto che, a partire dal tardo Settecento, il pensiero utopico si sposta da un immaginario spaziale a un immaginario temporale[17]. Non si pensa più a un altrove ma a un altrimenti.

Se riflettiamo sulle numerose epidemie che l’occidente europeo ha conosciuto in età moderna, ci rendiamo conto che l’approccio è rimasto a lungo quello usuale fin dall’antichità, e che rifacendoci a Foucault possiamo chiamare disciplinare. Un potere repressivo che entra in azione dopo che l’emergenza è esplosa, cui cerca di porre fine con misure che conosciamo da vicino: isolamento dei malati e/o dei sani e altre restrizioni. Dall’inizio del XIX secolo, tuttavia, la probabilità assume un ruolo governamentale crescente, nella forma dell’anticipazione statistica degli eventi. Su questa base si sviluppano i moderni istituti previdenziali, assistenziali e sanitari, incluse le vaccinazioni, che configurano il futuro come rischio[18]. La forza di questo approccio è che esso «defuturizza il futuro senza identificarlo con una sola catena di eventi»[19]. Da disciplinare la logica di governo diviene securitaria. Su questa impostazione si fonda tutta la medicina preventiva così come i sistemi assicurativi chiamati a gestire gli incidenti industriali o del traffico, gli eventi atmosferici e in generale tutto ciò che, non assumendo carattere di assoluta straordinarietà, è passibile di misure preventive. L’imprevedibilità, abbiamo visto, è una caratteristica dell’emergenza. Tuttavia, come attesta la creazione di servizi di protezione civile, ci si può attrezzare anche a gestire l’imprevisto, purché esso rientri in un campo di variabilità stimabile. Se l’emergenza è gestibile con mezzi ordinari, allora essa non è più, propriamente tale. È in qualche misura scongiurata. Per lo meno si potrà dire che l’approccio era corretto, anche se sfortunatamente «le cose sono andate in modo diverso dal previsto»[20].

L’emergere della precauzione, negli anni ‘80 del secolo scorso, indica la crescente salienza di eventi capaci di trascendere il campo di variabilità stimabile, e con ciò il ruolo governamentale della probabilità. Fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000 si sono moltiplicate le regolamentazioni pubbliche (nazionali e internazionali, hard e soft) e private (codici di condotta ecc.) che includono questo principio, su temi che vanno dal cambiamento climatico alle coltivazioni geneticamente modificate (OGM) o le radiazioni elettromagnetiche; principio i cui fondamenti concettuali sono rinvenibili nell’“euristica della paura” e il conseguente “imperativo della responsabilità” formulati da Hans Jonas[21]. L’argomento di Jonas è che, di fronte a tecnologie sempre più potenti e dagli effetti sempre più estesi nel tempo e nello spazio, dunque sempre meno prevedibili, è necessario ragionare in termini di worst case; minacce di enorme portata, in certa misura immaginabili ma propriamente incalcolabili. Agire precauzionalmente significa allora intervenire a fronte di evidenze non conclusive di minacce incombenti, nell’assunto che attendere fino al momento di acquisire dati esaurienti potrebbe implicare un’azione tardiva, inefficace o enormemente costosa (in ogni senso). Scongiurare l’emergenza significa in questo caso agire d’anticipo senza poter propriamente calcolare il rapporto tra costi e benefici dell’azione. Ergo, possiamo aggiungere, significa esporsi a un peculiare paradosso: quanto più la misura anticipatoria sarà stata efficace, tanto più essa risulterà esagerata. Così, nel corso dell’emergenza Covid-19, chi ha sostenuto la necessità di anticipare l’andamento del virus, prendendo i dati sui contagi come mere indicazioni su tale andamento rispetto a cui “tenersi larghi” e non come soglie su cui tarare gli interventi, è stato accusato di voler segregare inutilmente la gente e creare danni ingiustificati all’economia, e ciò in modo tanto più veemente quanto più le chiusure hanno mostrato di funzionare.

 

  1. La politica del tempo del tardo capitalismo

Per quanto diverse nella logica d’azione (rispettivamente deterministica, probabilistica, prudente), disciplina, prevenzione e precauzione sono accomunate da tratti importanti: in particolare, la struttura del tempo in cui operano (passato, presente e futuro si susseguono linearmente), l’obiettivo dell’intervento (scongiurare l’attualizzarsi della minaccia) e l’ontologia sottesa (sostanzialmente cartesiana: l’attore è immaginato parte di un mondo fisico che tuttavia osserva e su cui opera come dall’esterno). Nel corso degli anni ‘90, e con salienza marcatamente crescente in quelli successivi, sono tuttavia emersi approcci anticipatori profondamente diversi, tanto nella concezione della minaccia quanto negli obiettivi dell’azione e nella struttura temporale in cui essa si svolge. La dottrina della pre-emption, posta al centro della strategia securitaria americana dopo l’11 settembre, si indirizza a minacce indeterminate in quanto non ancora manifestatesi, e tuttavia da affrontare ora, «prima che emergano»[22]. L’azione ha una funzione incitativa, assumendo che «poiché la minaccia tende comunque a proliferare, l’opzione migliore è aiutarla a proliferare di più – ossia, sperabilmente, più nel modo desiderato»[23]. Invece di puntare all’eliminazione della minaccia si prende a riferimento la sua futura deflagrazione (imprecisata ma certa) e si guarda indietro per vedere cosa si può fare per gestirla. In questo modo non si possono propriamente fare errori – l’azione si rivolge a minacce potenziali e non effettive – e soprattutto si produce la realtà che dimostra come tale azione fosse corretta fin dall’inizio. Secondo G.W. Bush, eliminare Saddam Hussein si è dimostrato giusto poiché l’Iraq è in effetti divenuto una centrale del terrorismo[24]. In questo modo la verità diviene retroattiva, non nel senso tradizionale del senno di poi, del passato riletto alla luce del presente, ma nel senso che è nell’anticipazione del futuro che il passato rivela la sua verità. Esso diviene un luogo di cose senza le quali ciò che è venuto a esistenza non potrebbe sussistere; senza le quali la minaccia non avrebbe potuto formarsi – anche se lo ha fatto proprio grazie all’azione compiuta[25]. Questa vertiginosa struttura temporale distrugge ogni senso di linearità, ma anche di circolarità nel senso di un ritorno dell’uguale. La relazione dell’attore con il tempo assomiglia piuttosto a quella discussa da alcuni psicologi, dove passato, presente e futuro «si ripiegano all’indietro e in avanti come un origami giapponese, […] collassando l’uno sull’altro, emergendo l’uno dall’altro e determinandosi l’uno con l’altro»[26].

Non dissimile, da questo e altri punti di vista, è la preparedness. La sua comparsa è grossomodo coeva alla pre-emption. Benché concepita nel quadro dell’anticipazione di attacchi nucleari, il suo campo elettivo è divenuto ben presto il biologico: dapprima il bioterrorismo, poi il tema delle insorgenti o risorgenti infezioni epidemiche. La nozione suggerisce l’idea di prontezza di risposta a una minaccia che ha carattere “emergente”, nel senso che può celarsi e accumularsi anche a lungo prima di esplodere improvvisamente, cogliendo di sorpresa il suo bersaglio. L’OMS ha fatto proprio questo approccio in risposta alle epidemie verificatesi dall’inizio del nuovo millennio (Sars, Mers, H5N1, H1N1 più ritorni violenti di virus come Ebola e West Nile)[27]. È vero che, leggendo la letteratura sulla preparedness, si trova inclusa una combinazione di approcci precauzionali, come la costruzione di scenari, e (in base alla loro specificità) a cavallo tra il precauzionale e il preventivo, come le scorte di farmaci, strumenti protettivi, vaccini e macchinari. Ciò che risulta cruciale, è però la “vigilanza”, imperniata su dispositivi sentinella, biologici o meno[28]. Si palesa così l’assunzione che la minaccia non può essere evitata ma solo gestita, ovviamente tanto meglio quanto prima viene individuata. Rispetto alla pre-emption l’accento è sulla captazione piuttosto che l’elicitazione della minaccia. Ma si tratta di una distinzione sottile; forse più una questione di punto di vista che di sostanza. Come notato più sopra, il Sars-CoV-2 è stato elicitato, in un senso piuttosto preciso, che ciò sia avvenuto dentro o fuori il laboratorio di Wuhan. Quanto alla guerra preventiva, essa presume costante vigilanza rispetto all’insorgenza di una minaccia dai contorni imprecisati[29]. Punto centrale è che, come per la pre-emption, obiettivo della preparedness è modulare, amministrare la minaccia, sullo sfondo di una catastrofe sempre incombente[30]. In questa cornice eventi passati, rischi presenti e pericoli futuri «non sono considerati eventi distinti e sequenziali […] ma eventi simultanei portati a coesistenza»[31]. In entrambi i casi, poi, siamo lontani non solo da una struttura lineare del tempo ma anche da un’ontologia cartesiana. Se infatti un processo può produrre la sua causa e dunque conoscenza e realtà, attore e mondo, si possono aggiustare l’un l’altro, allora ci troviamo in un orizzonte ontologico radicalmente non-dualista. È questa, come abbiamo visto, l’ontologia cui si riferiscono le aziende dell’agro-biotech; la stessa sottesa alla ricerca sul gain of function virale e al Sars-CoV-2 nella sua baruffa di famiglia con gli umani.

 

  1. Messianismo e tardo capitalismo

L’approccio governamentale alle anticipazioni è andato insomma assumendo negli anni recenti una struttura del tutto estranea alla dinamica di futurizzazione e defuturizzazione instauratasi nella modernità, basata sull’assunto di una connessione irreversibile tra passato, presente e futuro. Il tempo ora si flette, ma non riprende la struttura circolare tipica del mondo premoderno. La forma che emerge può essere definita messianica. Infatti, come abbiamo visto, l’incertezza non riguarda più l’evento (dato per certo, pur se imprecisato) ma il tempo che retrocede dal suo verificarsi, che richiede di essere gestito opportunamente. Abbiamo quindi un eschaton, un evento finale, e un katechon, una forza che lo trattiene, modulando l’espressione delle energie che lo preparano. Come il messianico è «il tempo che si contrae e comincia a finire»[32], così la politica del tempo tardo-capitalista schiaccia il futuro sul passato, mescolandoli in un presente segnato dal peso dell’origine e dal presagio della fine e in ciò indefinitamente prolungabile.

Rispetto all’escatologia paolina, dove il katechon trattiene un Male (l’Anticristo) che è premessa necessaria per l’avvento del Bene (il Regno di Dio), il tardo capitalismo sdoppia per così dire le funzioni. Nel caso dell’attacco terroristico al cuore della civiltà, del cataclisma climatico o della pandemia inarrestabile, l’eschaton è l’evento che segna il trionfo del Male, e il katechon è una forza benefica che lo allontana, anche quando agisce omeopaticamente (l’attacco rintuzzato mediante la guerra preventiva; il disastro ecologico combattuto con la mercificazione che ne è all’origine, come avviene con l’economia dei mercati del carbonio e dei servizi ecosistemici[33]). All’inverso, tuttavia, l’eschaton può essere anche soglia per il trionfo del Bene e il katechon è allora chi, per ignoranza, incapacità o interesse, ne ostacola la realizzazione. Così accade ogni volta che si annuncia l’avvento della Soluzione Tecnologica Finale (OGM contro la fame nel mondo; automazione contro la fatica del lavoro; genetica contro la morte o l’invecchiamento) e, in formato ridotto, ogni volta che si evoca il mantra dell’innovazione “dirompente” (disruptive), che ogni brava organizzazione pubblica o privata è chiamata a perseguire, promuovendo l’“eccellenza”. Dirompenza risolutiva sempre annunciata, sempre prossima a realizzarsi, ma che malauguratamente per farlo sempre necessita di qualcosa: più soldi, più mercato, più competizione, meno protezioni sociali. Di fronte al mistero insoluto della narrazione paolina, che colloca l’escatologia in una dimensione tragica, il capitalismo segue così ancora una volta la via “amministrativa”. I toni da commedia non devono però ingannare: è proprio di questo che si nutre la normalizzazione dello stato di eccezione. Normalizzazione che, tra l’altro, fa cadere la distinzione tra emergenze “veloci” (eventi catastrofici) ed emergenze “lente” (forme prolungate di oppressione e ingiustizia)[34], pur utile a comprendere vicende come il post-uragano Katrina, vari post-terremoto italiani, l’Ilva di Taranto e la Terra dei Fuochi. Non c’è più un inizio e una fine, almeno immaginata, dell’emergenza; solo una modulazione sincopata di manifestazioni improvvise e provvisori ritiri della minaccia, ove non è più il passato a ipotecare eventualmente il futuro o il futuro a condannare o assolvere il passato, ma l’uno e l’altro si inseguono e si superano in un presente senza fine.

Che le cose stiano così è confermato da chi, come Dario Gentili[35], nota che il concetto di crisi (centrale, come abbiamo visto, nella nozione di emergenza) ha assunto una connotazione completamente diversa da quella moderna, dove essa corrispondeva a un momento decisivo di conferma o ribaltamento dell’ordine politico[36], assumendo l’aspetto di una condizione permanente, da cui non c’è uscita. Conferma giunge anche dagli innumerevoli studi che negli anni recenti si sono concentrati sul regime del debito instauratosi in seguito alla crisi degli anni ‘70 tramite una combinazione di politiche monetarie, deflazione salariale, riduzione dei servizi pubblici e riduzione dell'imposta sulle società[37]. Regime in cui il default appare come un futuro certo anche se indeterminato negli effetti a livello nazionale e globale e l’austerità è un katechon omeopatico che gestisce il debito lasciandolo espandersi. Anche da questo punto di vista il Sars-CoV-2 si annuncia come meccanismo acceleratore. Come ci si affretta a sottolineare, il flusso di denaro generato per sostenere il ritorno alla crescita non è gratis. Si iscrive così un’ipoteca gigantesca sul futuro, in cui la simultanea necessità e impossibilità di ripianare il debito imporrà infinite modulazioni, in un’alternanza di strette e concessioni, inviti a spendere e rimproveri per aver speso troppo. Tutto ciò, del resto, era stato anticipato da Benjamin cento anni fa, nella sua descrizione del capitalismo: culto che impone una celebrazione permanente, modulata da un inestinguibile senso di colpa[38].

 

  1. Conclusione

Proprio Benjamin, come sappiamo, è tuttavia latore di una visione emancipativa del messianismo. Nel frammento sul capitalismo egli accenna a un balzo apocalittico come conversione, cambio di rotta[39]. La figura della redenzione, nella forma dell’interruzione, dello scarto laterale rispetto al fluire catastrofico degli eventi, è poi al centro delle Tesi sul concetto di storia[40], dove appare l’idea che allo stato di eccezione come regola del dominio può opporsi uno stato di eccezione diverso, capace di rendere giustizia al passato dei perdenti e degli oppressi e in ciò indicare il senso del presente. In effetti, almeno sulla carta, il kairos messianico non corrisponde solo alla formidabile opportunità di intensificazione dello status quo di cui qui si è discusso, ma a una altrettanto formidabile possibilità di spezzarlo. Questo nella misura in cui, seguendo ancora Benjamin, la percezione lancinante del pericolo fa afferrare l’attualità del passato come leva per sottrarsi a quello che, secondo i dominatori, è necessario e inevitabile e rispetto a cui, come i media unificati non si stancano di ripetere, there is no alternative.

Può la pandemia del Sars-CoV-2 offrire un’occasione del genere? E chi può essere in grado di coglierla? Si apre qui il dibattito tra chi, nonostante le delusioni accumulate, continua a guardare alle mobilitazioni “prefigurative”[41] che punteggiano il Nord e il Sud globale come la più promettente, se non l’unica, possibilità per una politica che miri alla trasformazione in una situazione in cui le rappresentanze parlamentari, anche quelle “populiste”, rivendicano al massimo più spazio al banchetto senza discutere quel che c’è in tavola e che proviene dall’estrazione selvaggia di valore dal mondo e dai corpi, e chi vede invece nell’incapacità mostrata da Occupy Wall Street e simili effervescenze di inceppare i meccanismi cui provavano a sottrarsi (molte vivono una breve stagione; altre perdurano ma riducendosi a stili di vita, nicchie di mercato) la necessità di rivitalizzare forme di organizzazione e di conflitto tradizionali[42].

Non è possibile affrontare qui tale dibattito. Scopo del presente lavoro era solo cercare di capire come porre i termini della questione posta dalla pandemia del Sars-CoV-2, partendo dalla diatriba sviluppatasi nei primi mesi della crisi. Se il ragionamento svolto coglie minimamente nel segno, allora è chiaro che una maggiore comprensione delle odierne dinamiche di dominio richiede un’analisi accurata della politica del tempo instaurata dal tardo capitalismo, anche al fine di valutare potenzialità e limiti delle forze sociali che provano a spezzarne l’incantesimo.


[1] Agamben ha raccolto i suoi interventi della primavera 2020 in un volume: G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020.

[2] Cfr. p. es. R. Wallace, Big Farms Make Big Flu, Monthly Review Press, New York 2016.

[3] G. Agamben, What Is a destituent power?, in «Environment and Planning D», XXXII, 1, 2014, pp. 65-74.

[4] Cfr. R. Wallace, op. cit.; D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie (2012), tr. it. Adelphi, Milano 2014.

[5] E. Thacker, The Global Genome, MIT Press, Cambridge, MA 2007, p. XIX.

[6] Cfr. A. Lakoff, Unprepared. Global health in a time of emergency, University of California Press, Oakland 2017.

[7] Per posizioni opposte sul tema dell’human enhancement, cfr. N. Agar, Liberal Eugenics. In Defence of Human Enhancement. Blackwell, Oxford 2004; M. Sandel, The Case Against Perfection. Ethics in the Age of Genetic Engineering, Harvard University Press, Cambridge, MA 2007.

[8] Cfr. p. es. D. Coole, S. Frost (eds.), New Materialisms, Duke University Press, Durham, NC 2010; E. Grosz, Becoming Undone, Duke University Press, Durham, NC 2011.

[9] Un esempio al riguardo è R. Braidotti, The Posthuman, Polity Press, Cambridge 2013.

[10] Sulla visione della natura come differenziazione interna mi permetto di rinviare a L. Pellizzoni, Ontological Politics in a Disposable World: The New Mastery of Nature, Routledge, London 2016; L. Pellizzoni, The environmental state between pre-emption and inoperosity, in «Environmental Politics», XXIX, 1, 2020, pp. 76-95.

[11] Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.

[12] Cfr. p. es. Braidotti, op. cit.; J.Bennett, Vibrant Matter, Duke University Press, Durham, NC 2010.

[13] Sull’economia come cifra dell’ontologia politica moderna Agamben ha peraltro svolto considerazioni importanti. Cfr. G. Agamben, Opus dei. Archeologia dell’ufficio, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

[14] Cfr. N. Luhmann, The future cannot begin: temporal structures in modern society, in «Social Research», XXXXIII, 1, 1976, pp. 130-152.

[15] B. Anderson, Preemption, precaution, preparedness: anticipatory action and future geographies, in «Progress in Human Geography», XXXIV, 6, 2010, p. 778.

[16] Cfr. M. Kaiser, Reactions to the future: the chronopolitics of prevention and preemption, in «Nanoethics», 9, 2015, pp. 165–177; S. Opitz, U. Tellmann, Future emergencies: temporal politics in law and economy, in «Theory, Culture & Society», XXXII, 2, 2015, pp. 107–129.

[17] R. Koselleck, The temporalization of utopia, in Id., The practice of conceptual history: timing history, spacing concepts, Stanford University Press, Stanford, CA 2002, pp. 84-99.

[18] Cfr. I. Hacking, The Taming of Chance, Cambridge University Press, Cambridge 1990; F. Ewald, Insurance and risk, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds.), The Foucault Effect: Studies in Governmentality, University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 197–210.

[19] N. Luhmann, The future cannot begin…, cit., p. 141.

[20] N. Luhmann, Observations on modernity, Stanford University Press, Stanford 1998, p. 70.

[21] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità (1979), tr. it. Einaudi, Torino 2009.

[22] Così G.W. Bush. Cfr. President Bush delivers graduation speech at West Point, June 1 2002, https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2002/06/20020601-3.html  [accesso 11 gennaio 2018].

[23] B. Massumi, Potential politics and the primacy of pre-emption, in «Theory & Event», X, 2, 2007, § 16.

[24] Cfr. B. Massumi, op. cit., § 17.

[25] Cfr. L. Pellizzoni, The environmental state…, cit.

[26] M. Johnson, S. Sherman, Constructing and reconstructing the past and future in the present, in E.T. Higgins, R.M. Sorrentino (eds.), Handbook of Motivation and Cognition: Foundations of Social Behavior, Vol. 2, Guilford Press, New York 1990, p. 482.

[27] Cfr. WHO, Pandemic Influenza Preparedness and Response: A WHO Guidance Document, World Health Organization, Geneva 2009.

[28] Cfr. A. Lakoff, Unprepared…, cit.; F. Keck, Asian Reservoirs, Duke University Press, Durham, NC 2020.

[29] Che esista una relazione stretta tra pre-emption e preparedness è riconosciuto da alcuni autori. Secondo Melinda Cooper, ad esempio, la prima è una modalità operativa della seconda, nel senso di una contro-emergenza scatenata come risposta anticipata all’emergenza. Cfr. M. Cooper, Pre-empting emergence, in «Theory, Culture & Society», XXIII, 4, 2006, pp. 113–135. Personalmente sono propenso a vedere nella preparedness una variante della pre-emption, in cui l’elemento della vigilanza assume salienza rispetto a quello dell’elicitazione.

[30] Cfr. Lakoff, Unprepared…, cit., p. 20.

[31] I. Samimian-Darash, Governing through time: preparing for future threats to health and security, in «Sociology of Health & Illness», XXXIII, 6, 2011, p. 942.

[32] G. Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 63.

[33] Sulla logica dei mercati per i servizi ecosistemici mi permetto di rinviare a L. Pellizzoni, Commodifying the planet? Beyond the economy of ecosystem services, in «Stato e Mercato», XLI, 1, 2021 (in corso di stampa).

[34] Cfr. R. Nixon, Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Harvard University Press, Cambridge, MA 2011; B. Anderson, K. Grove, L. Rickards, M. Kearnes, Slow emergencies: temporality and the racialized biopolitics of emergency governance, in «Progress in Human Geography», XXXXIV, 4, 2019.

[35] Cfr. D. Gentili, Crisi come arte di governo, Macerata, Quodlibet 2018.

[36] Cfr. R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre Corte, Verona 2012.

[37] Cfr. D. Graeber, Debt. The First 5,000 Years, Melville House, New York 2011; M. Lazzarato, La fabbrica dell'uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive/Approdi, Roma 2011.

[38] Cfr. W. Benjamin, Capitalismo come religione (1921), tr. it. Il Nuovo Melangolo, Genova 2013.

[39] Ibid., p. 45.

[40] Id., Sul concetto di storia (1940), tr. it. Einaudi, Torino 1997.

[41] Prefigurative sono definite mobilitazioni che sostituiscono la politica convenzionale e la protesta con un’azione sociale diretta, volta a creare alternative nel qui e ora: dalle comunità dell’energia alle banche del tempo, dalle fabbriche autogestite all’agricoltura e l’energia di comunità, dalla genetica partecipata alle zones à défendre (ZAD), dall’open source ai nuovi movimenti di piazza. Cfr. ad es. M. van de Sande, The prefigurative politics of Tahrir Square: an alternative perspective on the 2011 revolutions, in «Res Publica», XIX, 3, 2013, pp. 223–39; L. Yates, Rethinking prefiguration: alternatives, micropolitics and goals in social movements, in «Social Movement Studies», XIV, 1, 2015, pp. 1-21; V. Asara, Untangling the radical imaginaries of the Indignados movement: commons, autonomy and ecologism, in «Environmental Politics», 2020.

[42] Cfr. p. es. C. Mouffe, Agonistics, Verso, London 2013. Per considerazioni sulla diatriba mi permetto di rinviare a L. Pellizzoni, Prefiguration, subtraction and emancipation, in «Social Movement Studies», XX, 3, 2021, pp. 364-379.

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