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L’eccezione normale. La sovranità in Giorgio Agamben: violenza e salvezza

Autore


Marcello Boemio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Il popolo senza luogo
  2. Il sovrano biopolitico e la moltitudine
  3. Diritto e violenza
  4. Agamben e l’emergenza sanitaria

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S&F_n. 25_2021

Abstract


The normal exception. Sovereignty in Giorgio Agamben: Violence and Safety

The article examines the positions of Giorgio Agamben about the political and legal management of the pandemic crisis, trying to trace the theoretical assumptions in Agamben’s biopolitical reading of Hobbes and of the exception as a legal device used with increasing frequency. This reading finds its theoretical core in the denunciation of an indistinction between law and violence that leads to a confusion between normality and exceptionality, and disposes bare life to the grip of a biopolitical sovereign.

  1. Il popolo senza luogo

Il frontespizio del Leviatano presenta un enigma in forma di due piccole figure nere. La città che viene rappresentata è deserta, non è presente alcun uomo; solo militari in esercitazione – al di fuori del perimetro abitato – e due piccole figure nere in basso, nei pressi di una Chiesa. Francesca Falk nel suo Eine gestische Geschichte der Grenze rileva come le due figure indossino delle Schnabelmasken, ovvero delle maschere a becco, tipiche dei medici della peste del XVII secolo. Questo particolare le fa dire che qui siamo in presenza di una connessione tra: «epidemia, sanità e sovranità»[1].

La sua lettura di Hobbes è chiaramente biopolitica: «con la politica della peste furono istituite nuove strutture urbane e statali»[2]. Giorgio Agamben, nel suo testo Stasis, la segue lungo tale percorso, facendo notare come sia proprio della sovranità includere ed escludere, tracciare linee di demarcazione e operare selezioni. D’altra parte, il filosofo italiano sviluppa proprio tale discorso lungo tutta la sua opera Homo sacer, insistendo sul tema foucaultiano secondo cui il vero problema politico sia la vita biologica, la sua sussunzione e la sua presa in carico da parte del sovrano. La grande immagine del Leviatano che campeggia sulla città – ma tenendosi ben al di fuori di essa – formata dall’insieme dei cittadini, spiega, allo stesso tempo, sia il perché della città vuota, sia il fatto che lo Stato stia al di fuori della città stessa.

Il concetto di popolo è infatti di natura ambigua e scivolosa. Se è vero che il popolo è l’insieme dei cittadini che compongono l’unità, unum quid, titolari in quanto tali della volontà politica, è anche vero che tale unità non è mai immediatamente presente. Esiste piuttosto una rappresentazione dell’unità, in virtù della quale la pletora dei singoli si costituisce come popolo ed è pensata come tale. Già in Hobbes è all’opera tale frattura e dialettica popolo/moltitudine. Il popolo sovrano si rappresenta come unità e proprio per questo non esiste di fatto nella città; esiste solo come trascendentale dello Stato. Nella città è presente piuttosto la moltitudine e tale moltitudine, essendo consustanzialmente priva di unità, è di fatto irrappresentabile. Ecco perché la città è vuota. Vista così non può che essere un deserto. La moltitudine è rappresentabile solo attraverso: «le guardie che ne sorvegliano l’obbedienza e i medici che la curano»[3]. Qui ritorna la dicotomia demos/plethos, come lo stesso Agamben fa notare. In questo senso, mentre il demos è rappresentabile nella figura del gigante che domina la città – il cui corpo è composto dai cittadini stessi –, la moltitudine è invece irrappresentabile se non come passività che viene “presa in cura” dai maggiori strumenti del Leviatano stesso: medici e polizia.

La moltitudine, in quanto momento impolitico, non può che mostrare la propria assenza, alla stregua della spaventosa dissoluzione operata dalla peste di Atene di cui racconta Tucidide ne La guerra del Peloponneso, che tanto aveva colpito l’immaginazione di Hobbes.

Il popolo, di fatto, non è da nessuna parte, in nessun luogo. Qui è presente un’eco che rimanda alla stessa riflessione novecentesca che, a ben guardare, si muove proprio all’interno di tale orizzonte, al di là delle tante differenze specifiche. Hans Kelsen ha parlato del popolo come di un’unità logico-formale, mentre ciò che concretamente abita le città è piuttosto una massa di individui atomizzati che deve però costituirsi come comunità. Così come per Carl Schmitt il popolo è una finzione che vive all’ombra di una decisione, nella misura in cui è dalla decisione che si dà un popolo, non prima[4].

La moltitudine, in quanto corrispettivo passivo del concetto di popolo, è, per Agamben, ciò su cui si esercita la sovranità del popolo-re, inteso, invece, come momento attivo, cioè come potere titolare della decisione politica. Secondo tale lettura il popolo trasferendo la sovranità allo Stato – e vivendo in esso come corpo inteso in senso logico-formale – si dissolve automaticamente in una moltitudine passiva e impolitica. Secondo tale lettura, l’unità del popolo è, allora, allo stesso tempo, dissoluzione nella moltitudine. Anzi, ciò che abita la sovranità è proprio la dissoluzione. Per questo motivo Agamben può sostenere che «il popolo regna in ogni città, ma senza poterla abitare»[5].

Se il popolo svanisce nel sovrano, nella città non può restare che un’irrappresentabile moltitudine impolitica alla mercé della decisione sovrana.

 

  1. Il sovrano biopolitico e la moltitudine

A questo punto, per comprendere il suo discorso, bisognerebbe chiedersi di quale decisione si parla. È ovvio che, quando si tira in ballo la decisione politica, il riferimento obbligato sia Carl Schmitt. Ma qui siamo in un orizzonte molto diverso da quello del giurista tedesco che, sebbene citato da Agamben, si muoveva nell’ottica secondo la quale la decisione fosse orientata all’ordine. Quello che, invece, viene fuori dalle pagine di Agamben è che non esiste alcun orientamento ordinativo ma, piuttosto, una natura arbitraria del potere che ha come fine, e come ratio interna, la presa diretta della vita. In altre parole, qui siamo di fronte a un sovrano biopolitico che si serve dell’eccezione come istituto giuridico e che, dosando diritto e violenza, ne disarticola il rapporto, rendendoli di fatto la stessa cosa. Si spiega proprio così come Agamben resti un pensatore della sovranità – anche se del tutto al di fuori rispetto ai suoi luoghi classici, e in forme del tutto deformate e ripensate –; perché la sovranità c’è e resta un momento fondamentale per la comprensione delle società complesse contemporanee – qui è oltre Foucault – ma deve essere letta come un dispositivo che rende del tutto indistinguibili vita e morte, ordine e disordine.

Salus populi suprema lex scriveva Hobbes. Ma è proprio la decisione su cosa sia tale salus populi a istituire un arbitrio a disposizione del sovrano, che trova di fronte a sé una moltitudine irrelata di individui. E ciò a partire dal fatto che la struttura stessa della sovranità si trova nell’ambiguità di una “unità dissolvente”. Qui Agamben pensa che non sia mai realizzabile la traduzione dell’uomo in cittadino, nella misura in cui la dissoluta multitudo nasce con lo stesso atto fondativo che istituisce la sovranità stessa e dunque persiste come fondo perpetuo a cui lo schema sovrano fa costantemente riferimento.

Mentre in Carl Schmitt è all’opera una teologia politica cattolica, che tiene assieme eccezione e sovranità – in cui tra l’altro il filosofo italiano vuole rintracciare una strutturale ambiguità –, la teologia politica a cui Agamben si richiama significa, invece, che l’eccezione è a disposizione del sovrano, che se ne serve per esercitare una presa diretta sulla vita[6]. In questa direzione la vita è, allo stesso tempo, qualcosa da decidere e dunque da sussumere. Non a caso egli ritiene che in Hobbes il sovrano emerga proprio in seguito a una richiesta del lupus, cioè dell’uomo dotato di lex naturale, d’avere salva la vita. Insomma, qui Agamben vede la salvezza del corpo singolo nella posizione del grande corpo artificiale del sovrano. Seguendo il suo discorso la posta in palio diviene chiaramente biopolitica. Il sovrano, in altre parole, si appropria dell’eccezione e la utilizza per poter tracciare linee di demarcazione, di pertinenza, di discriminazione, tra ciò che è salute e ciò che non lo è, tra ciò che è ordine e ciò che non lo è, tra ciò che rientra nella salus populi e ciò che ne è escluso. Tratta il proprio corpo, sebbene artificiale, come un corpo naturale. Ogni biopolitica della moltitudine è allora identica alla cura degli appestati, sottostà alle medesime logiche ed è inscritta nelle medesime strategie di governo della vita e della morte. Nella città, se così stanno le cose, non possono che esserci unicamente medici della peste a rappresentare l’azione di sorveglianza e di cura, che il grande corpo del sovrano mette in atto.

Appropriandosi dell’eccezione come di un dispositivo, che utilizza in vista della sussunzione della vita, il sovrano abita, alla lettera, uno spazio anomico in cui il diritto e la violenza non esistono più come ambiti distinti, ma si riconoscono come indistinzione originaria in cui sopravvive unicamente una «zona di anomia, in cui agisce una violenza senza alcuna veste giuridica»[7]. In questo luogo, diritto e violenza sono tutt’uno, ed è proprio il dispositivo dell’eccezione a segnare lo spazio di tale indistinzione.

Se il fine del sovrano, per sua stessa costituzione, è quello di prendere la nuda vita, allora, sebbene in una situazione di normalità funzioni un diritto e in situazioni abnormi funzioni invece una violenza di fatto, questi non sono che due momenti ugualmente a disposizione di un apparato nichilistico che si muove secondo scale d’intensità. Non è un caso che Agamben ritenga essenziale un pensiero della violenza «come cifra dell’azione umana» e in quanto oggetto specifico della politica[8]. Sta provando a leggere Hobbes sostenendo la tesi che il punto centrale non stia tanto nel patto che viene istituito – in cui è all’opera una razionalità, e pertanto rientra in uno schema inerente alla razionalità politica moderna –, ma che la natura biopolitica del sovrano ci dice che già agli albori della razionalità politica moderna è piuttosto all’opera un governo sovrano della vita, in cui la vecchia dicotomia bios/zoe non può più funzionare e in cui l’unica posta in palio è la pura esistenza. Se così stanno le cose, tutto finisce per ruotare radicalmente attorno al corpo, inteso sempre più come fatto politico veramente decisivo.

È evidente che Agamben legge Hobbes con le lenti di Foucault, come è oltremodo evidente che qui Agamben va ben oltre le intenzioni di Hobbes, il quale invece, come ha notato Carlo Galli, resta per forza di cose all’oscuro di ogni discorso biopolitico. Pertanto, risulta quantomeno complicato interpretare la sua lettera in senso sanitario, cioè come difesa del corpo biopolitico del sovrano, determinato secondo un’omologia col corpo naturale biologico[9]. In questo senso, invece, per Agamben, sovrana risulta essere proprio quella sfera in cui l’uccisione non è omicidio[10] e, pertanto, la vita nuda può essere inscritta nella sfera della sovranità, a difesa del corpo politico. Si è insomma posti nel diritto nella modalità dell’abbandono, cioè si è sempre “a disposizione di”: è questa la natura della macchina biopolitica occidentale. Agamben ritiene, in aggiunta, di poter andare in questo modo oltre Foucault – che aveva invece estromesso la centralità del giuridico –, mostrando come sia, in fin dei conti, la struttura stessa della sovranità a spiegare la possibilità della biopolitica attraverso l’eccezione.

 

  1. Diritto e violenza

Proprio qui il filosofo italiano crede di trovare il proprio superamento del discorso schmittiano – in quanto quello del giurista tedesco è visto come del tutto sbilanciato nella disperata salvezza di un sovrano che sia in grado di costruire unità e stabilità, per altro irraggiungibili –, ignaro dell’autentico discorso che, secondo Agamben, è invece lo smarrimento di una forma-di-vita pensata come irrinunciabile, e la sua riduzione a nuda-vita progressivamente sempre più biologizzata. Siamo dunque di fronte a una violenta riduzione dell’esistenza a una sorta di “grado zero esistenziale”, in cui la vita si dà nella posizione di uno sfondo di mero corpo sopravvivente, al quale poi, solo in un secondo momento, si connettono modi d’esistenza. Siamo, dunque, di fronte a uno schema che prevede una nuda-vita che sarebbe la base dei modi di vita che somigliano ad accidenti separabili e in definitiva removibili. Partendo da siffatto impianto diventa conseguente il modo in cui il filosofo italiano legge l’utilizzo sempre crescente e selvaggio dello stato d’eccezione come procedura giuridico-politica sovrana predisposta a catturare proprio tale residuo biologico fondamentale. È proprio questa indefinibilità, in linea decisiva – che coincide con uno stato d’illegalità –, ad avere la vera forza di legge in grado di conferire forza alla legge ordinaria.

Se così stanno le cose allora la normazione si regge sulla forza di ciò che non è legge. Il sovrano possiede al proprio arco la freccia della difesa della vita, pertanto è in possesso di una potenza che puntualmente attualizza nella violenza, e che – una volta sospeso l’ordinamento – può scatenarsi come pura intensificazione massima del diritto che trova di fronte a sé una pura passività disposta alla presa. Ed è qui, in questa prassi, che il sovrano mostra, sempre più apertamente, secondo Agamben, la propria indistinguibilità con l’illegalità più radicale. A questo punto, il cuore di qualsiasi ordinamento giuridico non può essere altro che l’illegalità sovrana. Tale anarchia del potere, costruisce, di contro a essa, una società in cui il potere arriva fin dentro il cuore della vita stessa, potendola prendere, afferrare, decidere. Il volto autentico delle nostre società, lette da questa prospettiva, è il campo di concentramento[11]. Da una prospettiva di questo tipo Agamben non può che leggere lo stato d’eccezione generalizzato, attuatosi in conseguenza della crisi pandemica, che come la più logica e consequenziale prassi posta in essere da una società che non è riuscita a pensare nulla al di fuori di un paradigma ontologico e politico che fa convergere, fino a sovrapporre, violenza e diritto. Come ama ripetere più volte, citando Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato d’eccezione in cui viviamo è la regola».

 

  1. Agamben e l’emergenza sanitaria

L’eccezione e la regola tendono sempre più a sovrapporsi in modo tale da dare vita a una “normalizzazione dell’eccezione”. In questo modo il continuo ricorso all’emergenza diviene il paradigma normale di governo. È questo il discorso che Agamben ha riproposto su vari quotidiani a seguito delle misure eccezionali prese dal governo per il contrasto della diffusione del contagio da COVID-19, tenendo a precisare come le sempre più frequenti situazioni di emergenza che si presentano nella prassi politica degli ultimi anni – insieme al ripetuto ricorso a uno stato di emergenza – siano oramai la regola, al di là di ogni dettato costituzionale. Tenendosi strettamente su questa linea, peraltro del tutto coerente col proprio impianto teorico, nei diversi interventi succedutisi a mezzo stampa – e con a dire il vero pochi ripensamenti – è partito col sostenere che le misure di emergenza legate alla diffusione del virus fossero «frenetiche irrazionali e del tutto immotivate»[12] e che «la supposta epidemia dovuta al virus corona» – un virus sovrano fin nel nome – fosse inventata per attivare il dispositivo d’emergenza e comprimere significativamente le più elementari libertà. Queste affermazioni hanno sollevato una levata di scudi da più parti, da quella più morbida di Jean-Luc Nancy che si rivolge «all’amico Giorgio» invitandolo a non sbagliare bersaglio, e a tenere conto che, per quel che riguarda il rapporto tra virus ed eccezione, «i governi non sono che dei tristi esecutori e prendersela con loro assomiglia più a una manovra diversiva che a una riflessione politica»[13], a quelle più marcatamente scientiste e denigratorie tipo Flores d’Arcais, che in un impeto «neoilluminista» – disconoscendo in toto qualsivoglia nesso problematico e identificando sic et simpliciter sapere e scienza –, definisce quelle di Agamben «elucubrazioni para o post teologiche»[14]. Adesso, – al di là delle volgarità espresse nell’articolo su Micromega contro la persona di Agamben – perché il filosofo italiano è divenuto oggetto di critiche tanto pesanti, soprattutto a sinistra, tacciato di oscurantismo e di essere insensatamente contro il «potere della ricerca [scientifica]» come ha scritto tra gli altri la rivista Left? «La scienza è diventata la religione del nostro tempo […] i virologi ammettono di non sapere esattamente cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come devono vivere gli esseri umani». Con un’affermazione del genere Agamben rivolge l’accusa di «parateologia» contro i suoi accusatori, secondo una linea di continuità che si potrebbe definire teologico scientifica, secondo cui a decidere dello stato d’eccezione sarebbe un sovrano (biomedico) che non sa di cosa parla.

Tutto questo certamente interroga la filosofia. Le questioni aperte sono a mio avviso due: da un lato, c’è un problema di verità. I saperi medici, che disciplinano sempre maggiormente le società – tendenza che già Foucault aveva individuato in più luoghi della sua opera – e interferiscono in linea crescente con le scelte dei governi, si configurano come supposte verità di cui il sovrano si serve per disciplinare restrittivamente le esistenze, sfuggendo peraltro a ogni tipo di controllo “democratico”? Oppure sono saperi che permettono una notevole estensione delle garanzie a tutela dei cittadini? E dall’altro, un problema più specificamente giuridico: si possono sospendere tutta una serie diritti fondamentali in nome della salute, senza opporre a tale disciplina la minima resistenza? Cosa che ha fatto dire ad Agamben di essere oramai giunti in un regime di «biosicurezza», in cui è attiva una sorta di “Governo emergenziale degli scienziati”. Il diritto di voto, di libera circolazione, di soggiorno, di lavoro, di libera riunione, la libertà religiosa, il diritto all’istruzione e alla cultura, tutti questi, infatti, sono stati ritenuti secondari rispetto al sovraordinato diritto alla salute. Salute, è bene precisarlo, come “salute del corpo pubblico”, e solo in un’accezione secondaria, se non marginale, privata. Così come è vero che l’atto amministrativo al quale si è ripetutamente fatto ricorso durante lo stato di emergenza (DPCM) sfugge a qualsiasi controllo da parte del potere pubblico e costituzionale, configurandosi come perpetuo governo dell’eccezione sanitaria[15]. È anche vero però che Agamben qui si va a chiudere in un cul de sac teorico, secondo le cui premesse, per esempio, ed estremizzando il discorso, la gestione Bolsonaro in Brasile – di rinuncia a oltranza di misure restrittive –, sarebbe maggiormente rispettosa di una “pienezza di vita” rispetto alla decisione per l’emergenza presa nella maggioranza dei Paesi. Questa sembra una tesi difficile da difendere, soprattutto se si tiene conto che nel solo mese di aprile del 2021 in Brasile ci sono stati 100.000 morti, registrati soprattutto tra le comunità più povere mentre in Paesi con un piano vaccinale più solido il numero delle vittime decresce oramai molto significativamente.

Rispetto a ciò sarebbe utile riprendere, contro Agamben, una questione schmittiana: se cioè sia necessaria la sospensione temporanea di qualche articolo per parlare di sospensione della costituzione, come se la costituzione coincidesse con qualche articolo costituzionale, cosa questa difficilmente sostenibile. In questo senso, detto nel linguaggio di Roberto Esposito, la comunità si difende con meccanismi immunitari. In questo caso, fino a quando sono misure temporanee siamo nella normalità[16]. Qui Agamben risponderebbe di certo che l’aggettivo temporaneo andrebbe eliminato e che la fusione di normalità ed eccezione è sempre più pericolosamente compiuta, peraltro in nome della vita stessa. In questo senso, seguendo il filo del suo pensiero, il nazismo avrebbe perso la Seconda guerra mondiale, ma avrebbe vinto la vera battaglia culturale: la fusione di politica e biologia, di governo e saperi medici. In fondo, il regime hitleriano non è stato altro che 12 anni di stato d’eccezione in nome della “pulizia biologica”.

Certo, la lettura di Agamben può sicuramente avere forza polemica rispetto allo stato presente, può illuminarne degli angoli, rintracciare delle linee interpretative non scontate, soprattutto se si tiene conto delle disattese garanzie costituzionali evidenziatesi nella gestione dell’emergenza pandemica[17]. Restando però anche solo sul versante giuridico, risulta problematico accettare nella totalità la ricostruzione agambeniana. Siamo davvero in un regime d’indistinzione di violenza e diritto in cui i saperi sul corpo danno vita a un regime di «biosicurezza»? Siamo ritornati, mutatis mutandis, al terrore giacobino e nazista della “salute pubblica”? o peggio ancora non ne siamo mai usciti?

A mio avviso, sebbene Agamben colga delle linee tendenziali di profonda trasformazione delle nostre società, e al di là dei suoi meriti – la sua pagina è sempre ricca di suggestioni –, sia la lettura biopolitica di Hobbes – affascinante ma difficilmente riconducibile all’intenzione dell’autore del Leviatano –, sia leggere l’indistinzione di diritto e violenza come cifra totale dell’impianto metafisico occidentale – in grado di pensare la sovranità unicamente come struttura includente attraverso esclusioni – sembrano una forzatura che furiosamente e ciecamente risucchia tutto nel dispositivo biopolitico, che diviene così, a tutti i livelli, l’ossessione inaggirabile dello spirito occidentale. Allo stesso tempo, resta però a mio avviso valida l’operazione volta a far emergere come sia in atto un progressivo slittamento convergente di eccezione e normalità, e come la democrazia da panacea di tutti mali rischi sempre più di fungere da maschera – anche se non credo possa essere applicata, in senso tecnico, la categoria di anomia sovrana alla seppur problematica ed eccezionale gestione emergenziale, come invece fa Agamben. Non si è, cioè, data, almeno non ancora, a mio avviso, una sospensione totale delle garanzie tale da rovesciare in necessitas est lex la massima, del drammaturgo romano Publilio Siro, necessitas non habet legem.


[1] F. Falk, Eine gestische Geschichte der Grenze. Wie der Liberalismus an der Grenze an seine Grenzen kommt, Fink, Paderborn 2011, p. 73.

[2] Ibid.

[3] G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Borighieri, Torino 2015, p. 56.

[4] La riflessione di Carl Schmitt si muove su molte ambiguità, rilevate costantemente da molti suoi interpreti, ma si può dire che questa è la sua posizione sia in Teologia politica che in Dottrina della costituzione.

[5] G. Agamben, Stasis…, cit., p. 55.

[6] Si veda in particolare G. Agamben, Stato d’eccezione (2003), Torino, Bollati Boringhieri, 2017.

[7] Ibid., pp. 76-77.

[8] Ibid., p. 77.

[9] Cfr. C. Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, Bologna, il Mulino 2020.

[10] Tema ampiamente sviluppato in G. Agamben, Homo sacer (1995), Einaudi, Torino 2005.

[11] Agamben ritorna diverse volte su tale luogo teorico, tanto da configurarsi come uno dei perni della sua argomentazione generale. Cfr. soprattutto G. Agamben, Homo sacer, cit.

[12] Tutti gli interventi di Agamben sui vari quotidiani da quello oramai celebre sul Manifesto del 26 Febbraio 2020 a quello del 24 Maggio 2020, sono stati raccolti nel libro G. Agamben, A che punto siamo? L'epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020.

[13] J.-L. Nancy, Eccezione virale,

https://antinomie.it/index.php/2020/02/27/eccezione-virale/ [ultima consultazione 26.05.2021].

[14] Cfr. P. Flores d’Arcais, Filosofia e virus. Le farneticazioni di Giorgio Agamben, 16 Marzo 2020.

[15] Cfr. A. Celotto, Necessitas non habet legem?, Mucchi Editore, Modena 2020.

[16] Cfr. R. Esposito, Il coronavirus rafforzerà i sovranisti, https://www.huffingtonpost.it/entry/il-coronavirus-rafforzera-i-sovranisti_it_5e774fccc5b6f5b7c545fa2f  [ultima consultazione 30.05.2021].

[17] Basti pensare al fatto che il DPCM in quanto fonte normativa secondaria eccede il proprio ambito di validità nel momento in cui interviene in merito alla sospensione di diritti fondamentali. A differenza del decreto legge, che è invece un atto con valore di legge adottato dal Governo nei casi di straordinarietà e urgenza.

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