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EPISTEME, SOPHIA E LE MUSE

Autore


Giacomo Scarpelli

Università di Modena e Reggio Emilia

sceneggiatore cinematografico e storico della filosofia e delle idee, insegna all’Università di Modena e Reggio Emilia. È Fellow della Linnean Society of London e della Royal Geographical Society

Indice


  1. La dittatura del fatto
  2. L’immaginazione conoscitiva
  3. La Creazione al tavolino o con spago e ceralacca

 

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S&F_n. 24_2020

Abstract


Episteme, Sophia and the Muses

This article is an attempt to demonstrate how the scientist, rather than following certain deterministic prescriptions of epistemologists, achieves his goals with an empirical imagination of an almost artistic nature. Based on the suggestions and the studies of Paolo Rossi, Alexandre Koyré and Gerald Holton, we examine some stages of 20th century physics: the hypothesis of Heisenberg, according to which the same ultimate principles are geometric-mathematical forms similar to those described in the Timaeus; the confrontation between Ehrenhaft (Machian) and Millikan (Franklinian and equipped with eidetic imagination) on the existence of subelectronic charges; influences in Bohr’s thinking (Kierkegaard, Schopenhauer, James and Taoism). Einstein, then, was both a realist and a metaphysicist, leaning towards a speculative investigation of the universe. Furthermore, if in Einstein’s case we could speak of a sort of “artistic creativity”’, the case of Fermi and his pupils in Via Panisperna represented a form of wisdom that we could call “creative craftsmanship”.


  1. La dittatura del fatto

Circa due decenni fa, Paolo Rossi, il filosofo e storico delle idee fiorentino che forgiò due generazione di studiosi, fu invitato a tenere una lectio magistralis all’Università della Calabria. La prolusione fu seguita e apprezzata, e più tardi, durante una riunione informale con alcuni colleghi e allievi (tra cui anche chi scrive queste righe), l’anziano professore ebbe una delle sue uscite tipiche, brillanti e caustiche, che merita riferire:

gli epistemologi hanno preteso di insegnare agli scienziati come compiere le ricerche e persino cosa scoprire, ma gli scienziati se ne sono sempre infischiati e hanno progredito lungo la loro strada per loro conto[1].

 

La battuta provocatoria di Rossi pescava ancora più in profondità di quanto potrebbe apparire, poiché la scienza è di certo alquanto refrattaria all’imposizione di regole e norme dall’esterno. Naturalmente, sarebbe però anche errato reputare che le grandi scoperte siano esclusivamente il risultato dell’assemblaggio di dati e di riprove oggettive, cioè, per intenderci, di quella legge del fatto che già Dickens ai suoi tempi aveva messo alla berlina. Per chi non lo ricordasse, nel romanzo Hard Times il romanziere inglese aveva messo in bocca a un oscuro funzionario statale quanto segue:

Bisogna bandire per sempre la parola Fantasia. Non sapete che farne. Non dovete possedere nulla, sotto forma di qualche oggetto d’ornamento o d’utilità, che sia in contraddizione coi fatti. […] Dovete usare combinazioni e modificazioni (in colori primitivi) di tutte le figure matematiche suscettibili di prova e di dimostrazione. Ecco in cosa consiste la nuova scoperta. Ecco il fatto[2].

 

Attenersi a simili principi, va da sé, non avrebbe mai condotto a nulla di rilevante e suonerebbe come un’imposizione ben più ferrea e sterile di quella che Paolo Rossi disapprovava senza peli sulla lingua.

Qui ci preme piuttosto considerare come gli scienziati abbiano avuto nel corso dei secoli la necessità, più che di precetti, di volare per compiere le loro conquiste (adoperiamo deliberatamente il verbo al passato proprio per evitare di risultare anche noi regolamentatori dell’operato futuro di chi si applica al progresso scientifico). Non si dirà nulla di troppo nuovo affermando che Galileo, Newton, Darwin, Freud, Einstein, furono geni che perseguirono loro precipue teorie, le quali piuttosto che alle prescrizioni del determinismo erano prossime alla speculazione filosofica, e magari alla creazione artistica.

Sulle pagine della presente rivista abbiamo già avuto occasione di dibattere sul rapporto tra scienza, arte e perdurare dello spirito creativo dell’infanzia e su come il clima culturale e la mentalità di un’epoca possano aver conferito un’impronta decisiva a talune costruzioni del pensiero naturalistico – al punto di influenzare tanto Darwin quanto il suo esegeta e prosecutore contemporaneo Stephen J. Gould[3]. Tenteremo oggi di verificare come l’energia immaginativa sia alla radice di una Weltanschauung scientifica altrettanto potente tanto di una concezione filosofica quanto di una realizzazione artistica, una sorta di fervore creativo la cui ispirazione proviene da Mnemosine e da almeno tre delle sue divine figlie, Clio, Calliope e Urania.

 

  1. L’immaginazione conoscitiva

Va forse attribuita a Talete la convinzione che il poeta talvolta giunge a comprendere la natura delle cose prima dell’uomo dedito all’indagine nella natura; di sicuro fu Freud, per ciò che lo concerneva, a osservare quanto segue:

si dice in genere che il poeta debba evitare i contatti con la psichiatria e lasciare ai medici il compito di descrivere gli stati mentali patologici. Ma in realtà nessun vero poeta ha mai rispettato questo precetto. La descrizione della vita interiore dell’uomo è proprio il suo campo specifico ed egli è sempre stato il precursore della scienza e anche della psicologia scientifica. […] Così né il poeta può sfuggire allo psichiatra, né lo psichiatra al poeta; e la trattazione poetica di un tema psichiatrico può, senza perdere la propria bellezza, risultare corretta[4].

 

Ciò che si può soltanto toccare e misurare non è dunque sufficiente alla scienza. Realtà e immaginazione, verità e creazione possono convivere e influenzarsi vicendevolmente. Forse sono tutt’uno, perché l’immaginazione serve precisamente per conoscere. Alexandre Koyré, capofila dell’analisi concettuale, ha affermato, in polemica con certo neopositivismo, che

la nozione di immaginazione, intermediaria magica tra il pensiero e l’essere, incarnazione del pensiero nell’immagine e posizione dell’immagine nell’essere, è una concezione della più grande importanza[5].

 

Inoltre, non sarà ozioso far presente che il filosofo russo naturalizzato francese era persuaso che Galileo concepì la nuova scienza come «una prova sperimentale del platonismo»[6]. E non va neppure dimenticato che l’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, figlio del musicista Vincenzo Galilei membro della Camerata de’ Bardi fiorentina, fu anche il maggior prosatore italiano del Seicento.

Come che stessero le cose, a dimostrazione di quanto andiamo affermando e in ogni caso per non incorrere nel sospetto di praticare a nostra volta una qualche forma di epistemologia spiccia, proviamo ad esaminare, a scopo esemplificativo, alcune tappe della fisica novecentesca, ricorrendo anche all’ausilio degli studi del più autorevole storico della disciplina, Gerald Holton.

Fin troppo facile sarebbe iniziare dall’ipotesi di Werner Heisenberg, uno dei padri della meccanica quantistica ed enunciatore del principio d’indeterminazione, secondo cui gli stessi principi ultimi della materia non sono di consistenza materiale, bensì forme geometrico-matematiche assai affini a quelle descritte da Platone nel Timeo[7]. Più articolato ma altrettanto significativo l’episodio dello scontro tra Felix Ehrenhaft e Robert A. Millikan sulla possibilità dell’esistenza di cariche subelettroniche. Persuaso che l’elettrone avesse una carica elementare unitaria e non scomponibile, l’americano Millikan aveva dimostrato la fondatezza della propria teoria nel 1910, grazie al noto esperimento della goccia d’olio[8]. Egli asseriva di possedere la capacità di «visualizzare» mentalmente i processi subatomici e indugiava nel riferire come avesse «visto una goccia in equilibrio catturare improvvisamente uno ione»; del resto, aggiungeva, gli ioni sono «piccoli, simpatici accattoni»[9]. In letteratura la facoltà di visualizzazione del pensiero è detta eidetica e i grandi romanzieri la possedettero.

Felix Ehrenhaft si era contrapposto a Millikan. Fisico austriaco dalle tendenze antiatomistiche, che godeva dell’ appoggio dei machiani, si era impelagato in una disputa, al dunque fallimentare, con il collega d’oltreoceano. Holton ha avuto occasione di dipingere i due contendenti l’uno come uno yankee animato dal buon senso e dallo spirito pratico, fedele alla lezione scientifica di Benjamin Franklin, l’altro come un suddito austroungarico testardo e troppo sofisticato[10]. A tale riguardo non è forse arrischiata la maliziosa congettura che lo stesso Holton possa aver soggiaciuto a sua volta a uno «stimolo tematico», ossia alla tentazione di fornire la doppia immagine di un’Europa decadente che scivola nell’arzigogolo e di un Nuovo Mondo per converso in fulgida ascesa e ricco di fantasia creativa. D’altronde, lo stesso Holton (emerito docente di Harvard, prossimo a toccare il secolo e a quale rivolgiamo i nostri auguri più calorosi) appartiene anche lui al novero degli scienziati e degli intellettuali tedeschi e austriaci che all’avvento del nazismo furono costretti a lasciare la patria per gli Stati Uniti.

Tra i transfughi dall’Europa sotto il tallone di Hitler figura un altro gigante, il danese Niels Bohr, autore del principio di complementarietà. Osservando l’interazione tra i processi atomici e le apparecchiature utilizzate per individuarli, elaborò la tesi dell’interdipendenza e reciproca limitazione fra oggetto analizzato e soggetto analizzante. Al fondo delle sue convinzioni si posso rintracciare l’influsso del filosofo e logico Harald Høffding, del filosofo pragmatista William James, e tanto del padre dell’esistenzialismo, Søren Kierkegaard, quanto del suo maestro, lo scrittore romantico Poul Martin Møller. Bohr arrivò a eleggere a emblema del proprio pensiero (lo iscrisse nel blasone dell’Ordine dell’Elefante di cui fu insignito) il principio Yin e Yang del taoismo, ossia delle due energie primarie opposte, l’una femminile e negativa, l’altra maschile e positiva[11]. Si è allora tentati di prendere in considerazione un passo del Mondo come volontà e rappresentazione, in cui Schopenhauer dava riconoscimento alla dottrina del Yin e Yang, in quanto tutte le cose del mondo, anche quelle apparentemente contrastanti fra loro, non sono altro che l’espressione di un unico volere cieco. Già allora il filosofo tedesco aveva individuato nelle categorie dello spazio e del tempo il punto molle del mondo visibile nel quale si sarebbe potuti penetrare fino alla sostanza ultima dell’Essere. Schopenhauer accennava ai tentativi maldestri in questo senso effettuati dai Pitagorici e da Schelling, e – tenendosi alla larga da dogmi epistemologici – riponeva nel futuro una possibilità di riuscita: «non si può sapere fino a che punto un intelletto geniale potrà un giorno attuare queste tendenze»[12]. Schopenhauer sembrava così quasi preconizzare l’avvento di Einstein, creatore della nuova concezione dello spazio e del tempo, una concezione che fu, per tornare al punto, il frutto di una fulgida immaginazione scientifica.

 

  1. La Creazione al tavolino o con spago e ceralacca

Il pensiero di Albert Einstein fu realista e metafisico, per un verso proteso verso un’investigazione speculativa e costruttiva dell’universo e per un altro verso in progressivo distacco dalla concezione della scienza in chiave economico-descrittiva di colui che dapprincipio egli aveva visto come un maestro: l’austriaco Ernst Mach. A giudizio di quest’ultimo la teoria einsteiniana della relatività era fondata su postulati privi di verifiche empiriche. E in effetti essa era il frutto di un atteggiamento intellettuale che aveva sciolto gli ormeggi dalla solida banchina dell’empiriocriticismo, e il fondo fenomenico spazio-temporale e il continuum a quattro dimensioni erano accettati soltanto in quanto «rappresentazioni» del «mondo reale». Anche in questo caso rispuntava a galla l’ispida testa di Schopenhauer.

È stato ancora Holton a mettere in evidenza come l’atteggiamento mentale di Einstein, da fisico-filosofo assiso al tavolino, avesse reso del tutto superflui nella sua costruzione l’esperimento di Albert A. Michelson ed Edward Morley (1887) sulla velocità della luce, in cui era stata dimostrata l’insussistenza del cosiddetto «vento dell’etere». La speculazione scientifica era per Einstein proprio una forma di immaginifica creazione. Nutriva, di nuovo con Schopenhauer, la consapevolezza che dedicarsi «all’arte o alla scienza sia il desiderio di evadere dalla vita quotidiana, con la sua dolorosa asprezza e il suo miserabile squallore»[13]. Aggiungeva pertanto: «vivo in quella solitudine che è penosa in gioventù, ma deliziosa negli anni della maturità»[14]. Parole che fanno rammentare ciò che aveva confessato con disincanto «il grande solitario di Croisset», ossia il romanziere Gustave Flaubert: «se a diciassette anni fossi stato amato, adesso sarei un cretino».

Per chiudere il nostro excursus, sia permesso considerare la celebre scuola di Via Panisperna, che fu caratterizzata da un approccio scientifico apparentemente diverso da quello di cui finora si è parlato.

Caliamoci nella tranquilla, un po’ polverosa e suggestiva atmosfera dell’Istituto di Fisica di Roma negli anni Trenta. Indirizzare la ricerca universitaria nell’ambito della fisica nucleare non fu una caso fortunato, bensì una scelta ponderata e deliberata da parte di Enrico Fermi, mente intuitiva e pratica, e di Orso Maria Corbino, figura di scienziato dotato di grande fiuto, amministratore sornione e politico maneggione ma non aderente al fascismo. La fisica nucleare si prospettava come un campo in generale ancora scarsamente esplorato e nel contempo promettente; lasciava insomma intravedere la speranza che la scienza italiana potesse finalmente conquistare prestigio.

Corbino istituì all’Università di Roma la prima cattedra di fisica teorica per Fermi e quella di spettroscopia per Franco Rasetti, i quali, com’è noto, presto si avvalsero degli allievi più promettenti, da Emilio Segrè a Edoardo Amaldi, dal giovanissimo Bruno Pontecorvo al tormentato Ettore Majorana. Sebbene si fossero per lo più perfezionati all’estero e mantenessero i contatti con i colleghi stranieri, i «ragazzi di Via Panisperna» erano tutti italiani, amici fra loro. Le apparecchiature erano quelle che erano. Scrisse Segrè in proposito: «una fisica diversa. Era fatta su pochi tavoli, con spago e ceralacca»[15]. Da quest’ambiente casalingo ma tutt’altro che provinciale, scaturì la forza del gruppo: la fissione nucleare avvenne nelle vecchie sale dell’Istituto con materiale del tutto raccogliticcio.

Se merita precisare che l’ispirazione della «scuola di Roma» fu tradizionale e nazionale, ma non nazionalistica né tanto meno di regime, sarà superfluo ricordare che Fermi, Rasetti, Segrè, Pontecorvo (alcuni di origini ebraiche) furono poi costretti a espatriare da un’Italia che pure essi avevano contribuito in modo determinante a riabilitare culturalmente.

Abbiamo detto che le ricerche dell’Istituto di Fisica di Via Panisperna furono contrassegnate da un modo di applicarsi alla fisica del tutto particolare, eppure, a uno sguardo ravvicinato, Fermi e i suoi allievi furono in grado di conseguire quei risultati straordinari con mezzi assolutamente inadeguati proprio in quanto fondati su una salda elaborazione teorica. In definitiva, se nel caso di Einstein abbiamo azzardato che si trattasse di una sorta di creatività artistica, in quello della dei ragazzi dell’Istituto di Fisica romano potremmo parlare di sapienza creativa artigianale.

Quasi tutti gli storici della scienza sono filologi e non capiscono a che cosa i fisici puntassero, come pensassero e fossero alle prese con i loro problemi

 

si rammaricava Einstein. E rincarava:

è necessario trovare un modo di scrivere che illustri i processi di pensiero che condussero alle scoperte[16].

 

Ebbene, è forse questo un invito che, oltre a Holton, ha raccolto Paolo Rossi, compianto maestro, in polemica con certa epistemologia prescrittiva.

Da parte nostra ci limiteremo ad osservare che le grandi teorie e le grandi scoperte delle scienza possono talvolta essere forse ispirate nella teoria alle intuizioni della filosofia (piuttosto che ai suoi sistemi) e nell’empito creativo all’arte, di sicuro alcune hanno modificato il nostro modo di pensare una volta per tutte.


[1] Di P. Rossi basterà rammentare i seguenti titoli: I filosofi e le macchine (1400/1700), Feltrinelli, Milano 1962; I ragni e le formiche: un’apologia della storia della scienza, Il Mulino, Bologna 1986; La scienza e la filosofia dei moderni: aspetti della rivoluzione scientifica, Bollati Boringhieri, Torino 1989; La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, ETS, Pisa 2020 (1a ediz. Loescher, Torino 1973).

[2] C. Dickens, Tempi difficili (1854), tr. it. Einaudi, Torino 1949, pp. 20-21.

[3] Cfr. G. Scarpelli, Gould, Darwin e l’ombra dello Zeitgeist, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 16, 2016, pp. 12-22; e Scienza, creatività e genio ludico, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 20, 2018, pp. 297-306.

[4] S. Freud,  Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen (1907), tr. it. in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, V, p. 293.

[5] A. Koyré, Mystique, spirituels, alchimistes du XVIe siècle allemand, Colin, Paris 1955, p. 60.

[6] A. Koyré, Galileo e Platone, in Introduzione a Platone (1962), tr. it. Vallecchi, Firenze 1973, p. 167. Dello stesso vedi anche Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), tr. it. Feltrinelli, Milano 1970, e il volume postumo Filosofia e storia delle scienze (1966), Mimesis, Milano 2003.

[7] Cfr. W. Heisenberg, Fisica e filosofia (1959), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1982; Lo sfondo filosofico della fisica moderna (1984), Sellerio, Palermo 1999; Indeterminazione e realtà, tr. it. Guida, Napoli 2002.

[8] Mediante l’irraggiamento con raggi X, Millikan ionizzò minutissime gocce d’olio, le quali, una volta sotto l’azione di un campo elettrico, variavano la loro velocità di caduta: questo rivelava che possedevano una carica elettrica.

[9] G. Holton, The Scientific Imagination. Case Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1978, p. 45.

[10] Ibid., pp. 25-83.

[11] Vedi N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana (1963), tr. it. Mimesis, Milano 2018; A. Pais, Un danese tranquillo: Niels Bohr, un fisico e il suo tempo, 1885-1962 (1991), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1993. Inoltre, G. Segrè, Faust in Copenhagen: A Struggle for the Soul of Physics, Viking, New York 2007.

[12] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1844), tr. it. Laterza, Bari 1979, I, p. 208.

[13] G. Holton, The Scientific Imagination, cit., p. 231 (su Einstein e Michelson e Morley vedi pp. 111-151). Dello stesso autore merita ricordare anche Einstein e la cultura scientifica del XX secolo (1986), tr. it. Il Mulino, Bologna 1991. Di A. Einstein cfr. Il mondo come io lo vedo (1935), tr. it. Newton Compton, Roma 2012.

[14] A. Einstein, Out of My Later Years [1950], Littlefield, Adams, Paterson (N.J.) 1967, p. 13. Sulla figura del grande fisico vedi A. Pais, «Sottile è il Signore…». La scienza e la vita di Albert Einstein (1982), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012 e, dello stesso, Einstein è vissuto qui (1994), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[15] G. Holton, The Scientific Imagination, cit., p. 194. Vedi E. Segré, Enrico Fermi, fisico. Una biografia scientifica, Zanichelli, Bologna 1971;  B. Pontecorvo, Fermi e la fisica moderna, Editori Riuniti, Roma 1972; E. Amaldi, Da via Panisperna all’America. I fisici italiani e la seconda guerra mondiale, Editori Riuniti, Roma 1997; D.N. Schwartz, Enrico Fermi, l’uomo che sapeva tutto (2017), tr. it. Solferino, Milano 2018.

[16] R.S. Shankland, Conversations with Albert Einstein, in «American Journal of Physics», XXXI, 1963, pp. 47-57.

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