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Cyborg arrugginiti e animali potenti. Donna Haraway alla ricerca di un mito per l’Antropocene

Autore


Viola Carofalo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


1. Rivoluzioni visionarie

2. Terra Padre/Terra Madre

3. Non siamo postumani, siamo compost

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Rusty Cyborgs and Powerful Animals. Donna Haraway in Search of a Myth for the Anthropocene


The ecological crisis is not only a crisis of an unsustainable economic/production model, but it is also a crisis of thought, of discourse on Earth. Haraway’s reflection (as demonstrated by the centrality in her thought of the ironic myth of the cyborg), focuses on the need to find images, metaphors, myths capable of explaining the world and put us in a position to transform it. Haraway responds to the image of Anthropocene by coining the lemma “Chthulucene”; with this word she underlines the definitive death of anthropocentrism and the beginning of a new era.

Questo è il modo in cui finisce il mondo. Di nuovo.

Nora K. Jemisin, La quinta stagione

 

 

Chi può sapere come andrà a finire? Ciò che è risorto può cadere, ciò che è caduto può risorgere. L’orrore aspetta e sogna nel profondo, e la decomposizione e il marciume si spargono sulla Terra nelle fragili città degli uomini.

Howard P. Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu

 

  1. Rivoluzioni visionarie

Nel primo volume della sua trilogia La Terra spezzata, La quinta stagione[1], la scrittrice afroamericana Nora K. Jemisin racconta di un pianeta scosso dai continui terremoti, avvolto in un’oscurità e un gelo che sembrano dover durare per sempre. Al centro della narrazione tre donne di età e con storie diverse, ma accomunate da un destino simile, che le costringe a un’eterna migrazione per tentare di salvare loro stesse e i loro affetti.

Jemisin si inserisce in una tradizione letteraria consolidata, soprattutto nel contesto nordamericano, quella che individua il romanzo di fantascienza come cornice narrativa distopica utile a portare in primo piano le contraddizioni che innervano la società contemporanea, in particolare quelle legate al genere, alla “razza”, alle disuguaglianze sociali, ai pericoli connessi alla crisi ecologica.

Ursula K. Le Guin con il suo The Left Hand of Darkness, alla fine degli anni Sessanta, attraverso la fantascienza mette a tema la questione della differenziazione attraverso la divisione sessuale, questione che sarà struttura portante della riflessione psicoanalitica e filosofica di Luce Irigaray[2]. Octavia Butler, capofila dell’afrofuturismo, considerata maestra e riferimento per eccellenza di Jemisin, con le sue Patternist series e Xenogenesis series evidenzia la complementarità, in una società “sana”, tra vite egemoni e vite fragili, esistenze vulnerabili, la necessaria interdipendenza che regge e fa evolvere la comunità. Nora K. Jemisin, mettendo al centro scena la vita quotidiana delle donne, sia pur in un contesto apocalittico, porta i lettori, spesso giovanissimi, a riflettere sulla necessità di ripensare il rapporto con la natura e sulla tragicità di vivere esposti costantemente al rischio, in una condizione perennemente nomadica[3], in un eterno presente nel quale non resta spazio che per la mera sopravvivenza.

Tutte si servono di immagini di mondi paralleli, la fantascienza – la fantasia letteraria di un mondo popolato da macchine materne, benigne o ostili, di una Terra che ridiventa straniera, non familiare e sconosciuta, di nuovi mondi che fanno concorrenza al nostro e ne minacciano la centralità – diventa un campo utile a sperimentare l’immaginazione come catalizzatore per la riflessione sul presente, ma anche per la produzione di modelli e linee di pensiero alternativi. Le immagini proposte in questi contesti non sono solo suggestioni, ma contribuiscono a ripensare il futuro attraverso il rapporto uomo/donna e natura, uomo/donna e macchina.

Dell’importanza di costruire mondi paralleli che aiutino a pensare, a allenare lo spirito critico e a ampliare le visioni del reale, è sempre stata convinta Donna Haraway che, già in Cyborg Manifesto, dedica ampio spazio al potere delle immagini e del pensiero mitico, capaci di ribaltare il dualismo (gerarchico) del pensiero, di agglomerare soggettività politiche, di costruire nuovi e diversi noi[4]. Haraway considera la speculative fiction e la fantascienza femminista fondamentali strumenti di sopravvivenza, dispositivi capaci di mettere in moto le forze immaginative, costruire e decostruire modelli, concepire soluzioni[5].

Anticipando (spesso non di molto!) un futuro catastrofico, in cui l’attività dell’essere umano sul mondo ha determinato catastrofi ecologiche e sociali, la letteratura, l’immaginazione letteraria possono configurarsi come forze sovversive, trasformative, possono contribuire significativamente alla vita pubblica[6]. Metafora e mito sono dunque, in quest’ottica, ciò che, letteralmente, trasporta e racconta, che garantisce o almeno agevola il passaggio tra singolo “sintomo” della crisi imminente (l’innalzamento delle temperature o del livello del mare, la corruzione di beni primari come l’acqua e l’aria) e capacità di coglierla nella sua pensabilità, dandogli forma, inserendola in un discorso riconoscibile – anche quando è raccontato a più voci e da prospettive differenti. L’utilizzo del mito in Haraway risponde al bisogno di vedere oltre le rappresentazioni dominanti e di tessere un discorso comune, alla

necessità di far slittare e scivolare i significati per catturare s/oggetti che non rientrerebbero nel sistema primario o egemonico di riferimento culturale, oppure che non vengono codificati come contigui, prossimi. Le metafore favoriscono mescolanze e contaminazioni, associazioni fra concetti ed elementi eterogenei, consentono link tra domini lontani, e permettono azzardate connessioni spazio-temporali[7].

 

Nel racconto, attraverso il discorso mitico o l’immagine metaforica – a differenza che a partire dal nudo dato che, isolato, rischia di rimanere muto – il soggetto passa dall’emozione all’azione[8], percepisce la responsabilità, il peso e la forza del suo intervento sul mondo.

L’esplorazione degli universi inventati dallo scrittore, fantastici o verosimili che essi siano, costituisce un esercizio etico e politico oltre che immaginativo, che concerne il riconoscimento e la capacità di assumersi la responsabilità dell’altro. Attraverso l’immagine letteraria, il lettore si allena all’empatia e alla compassione, a tener conto di esistenze lontane dalla propria, correggendo e integrando, attraverso l’emozione, il proprio sistema razionale di scelte e priorità[9].

Questo allenamento etico attraverso il racconto è anche, in Haraway, cominciamento di un processo di attivazione, possibilità della trasformazione rivoluzionaria: le rivoluzioni – che siano scientifiche, culturali o politiche – sono sempre state visionarie: per cambiare l’esistente bisogna prima saper immaginare la trasformazione[10].

Nel caso dell’Antropocene, della crisi ecologica, le immagini e i mondi offerti dalla letteratura (e dal cinema), aiutano a pensare non solo chi/ciò che è distante, radicalmente altro (la natura), ma anche a cogliere nella sua pienezza, e non scomposto nei singoli segnale di allarme, ciò che si configura come impensabile, l’estinzione della specie umana. Lo stesso concetto di Antropocene, non ancora riconosciuto nella sua valenza scientifica, come stadio successivo all’Olocene, deve parte del suo successo e del superamento dei confini disciplinari della solo geologia, alla sua duttilità e alla sua capacità di farsi immagine, di raccontare. La crisi del cambiamento climatico è una crisi a molte dimensioni[11], non solo ecologica, ma culturale.

Questa rielaborazione del reale nella forma del racconto mitico corre su un filo, sottile, quello del pensiero attivante o della fantasia paralizzante: di fronte alla narrazione apocalittica c’è la possibilità della presa in carico, dell’empatia, della solidarietà – che, come mostra il concetto di partnership utilizzato nella riflessione ecofemminista, può svilupparsi nei confronti di ogni forma di vita e della Terra stessa – ma anche il pericolo della rassegnazione, dell’egoismo, della chiusura. La definizione, l’inserimento all’interno di un sistema simbolico o di una cornice immaginativa piuttosto che in un’altra orienta le azioni[12]. La narrazione dell’Antropocene, come effetto della presenza e delle scelte umane sull’ecosistema, non è certamente rassicurante, stimola il senso di angoscia, ma questo sentimento può essere letto in due direzioni: quella che si limita a circoscrivere la responsabilità passata, dell’irrimediabile, o quella della responsabilità futura, che porta a farsi carico del compito di alleggerire il peso dell’attività antropica sulla natura. Come sottolinea Butler, è possibile individuare – e promuovere – un uso politico dell’angoscia:

è importante chiedersi quale uso politico si possa fare dell’angoscia, ben oltre un mero grido di battaglia. (…) Là fuori ci sono altri da cui dipende la mia stessa vita. Persone che non conosco e non conoscerò mai. Questa inestricabile dipendenza da anonimi altri è una condizione a cui non posso sottrarmi volontariamente. Nessuna misura di sicurezza potrà impedire tale dipendenza, nessun atto violento di sovranità potrà liberarci da tale condizione[13].

 

Come ne La taverna dei destini incrociati di Calvino, l’immagine, in quel caso le immagini raffigurate sul mazzo di tarocchi impiegato dai protagonisti per riportare indirettamente la loro storia, può essere qualcosa che ci restituisce la capacità di rimettere assieme, in una condizione di spaesamento, i frame inserendoli in un unico racconto, consentendoci di ritrovare il filo e l’unità del nostro discorso sul mondo, trasformando l’angoscia da muta a produttiva, da paralizzante a politica. Per riflettere sull’esistente, doppiamente nella congiuntura di una frattura epocale come quella della crisi ecologica, abbiamo bisogno di pensiero logico e, assieme, di pensiero mitico. Sono necessarie storie e immagini capaci di avvicinare e allontanare, di fare da ponte e, contemporaneamente, in un’epoca che appare tragica, di metterci a riparo dall’assolutismo della realtà permettendoci di sfuggire all’angoscia paralizzante[14].

Mito è dunque in Haraway ciò che connette i soggetti in un discorso collettivo – che non elimina però le differenze – che permette di inserire in un quadro che li renda comprensibili i singoli fenomeni, che, rendendo raccontabile la realtà, consente di trasformarla, di non rimanere soggiogati dal suo assolutismo; è assieme strumento cognitivo e politico.

Non tutte le immagini sono attivanti dunque, affinché l’Antropocene sia pensabile e l’agire divenga possibile, è necessario elaborare miti efficaci. La crisi ambientale non è infatti solo crisi di un modello economico/produttivo divenuto insostenibile, ma crisi del discorso sulla Terra che viene rappresentata come spazio totalmente disponibile per la messa a valore e l’appropriazione e, contemporaneamente, come spazio chiuso in sé stesso, impermeabile a qualsiasi relazione positiva con l’essere umano. Queste due visioni, solo apparentemente contrapposte, corrispondono alle due tendenze individuate da Haraway nel rapporto con la tecnologia: per un verso la vertigine neopositivista di una avanzamento tecnologico, sempre buono, che si autoregola e di una fiducia cieca nel progresso e, per l’altro, il desiderio di un – impossibile – ritorno al passato, alle origini naturali della Terra e dell’umanità. Entrambe le strade conducono allo stesso sentimento di perdita, all’impossibilità e incapacità di intervenire sul reale e di riorientare il procedere storico.

 

  1. Terra Padre/Terra Madre

Il racconto fantasy o fantascientifico sull’“era dell’uomo”, la costruzione stessa del lemma Antropocene, rinviano sia alla sfera dell’eccesso e della vulnerabilità – dell’individuo e del pianeta – che a quella della responsabilità. L’immagine più potente utilizzata da Jemisin per restituire l’idea della nuova, profonda “inimicizia” tra l’essere umano e la natura è quella di Father Earth, Terra Padre. La natura declinata al maschile, che rimanda all’autorità paterna, al distacco, al terrore, più che all’accoglienza materna, suggerisce immediatamente il collegamento tra antropocentrismo e androcentrismo. A essere fallace e pericolosa non sarebbe dunque genericamente l’attività della specie umana sulla terra, ma l’attività dell’Uomo (da intendersi come Bianco, Occidentale e Maschio). Come sottolinea Latour[15]: nessun nativo (ma anche, potremmo aggiungere, nessuna donna) sarebbe disposto, a giusta ragione, a addossarsi la responsabilità della crisi ecologica. In questo senso l’era dell’Antropocene, che potremmo chiamare “Maschiocene”, è strettamente collegata alla crisi dei soggetti egemoni – identificati come responsabili del disastro ambientale e incapaci di porvi rimedio – e, assieme, della loro autorappresentazione e autonarrazione[16]. Non è un caso che siano proprio i soggetti del margine, i subalterni, a essere stati spesso investiti di un ruolo di primo piano nel tentativo di arginare questa crisi. In particolare, il pensiero ecofemminista ha anticipato la costruzione di un immaginario che vede condannato il principio paterno (maschile) e esaltato, come salvifico, quello femminile, della Terra Madre. Fin dalle origini questo movimento si caratterizza per la ridefinizione del rapporto tra essere vivente e natura, rilevando la continuità dell’oppressione e dello sfruttamento delle risorse ambientale e dei subalterni, in particolare delle donne[17]. In quest’ottica, ci si auspica che a un ordine del discorso e a uno sviluppo al maschile, quello che la Shiva denominerà con un gioco di parole maldevelopment[18], subentri l’immagine di una Terra materna. Questo mito rinsalda la consapevolezza dell’intersezione e interconnessione tra ogni forma di vita, e delle forme di vita con l’intero corpo del pianeta. Questa nuova alleanza tra donne e pianeta implica la necessita di uno sguardo al passato e contemporaneamente al futuro, alla riscrittura di una Storia fino a allora appropriata al maschile, e al ripensamento di un dispositivo simbolico – oltre che di un meccanismo economico-politico – che aveva il suo nucleo nel dominio e nella messa a valore dei beni disponibili, beni naturali e corpi che essi fossero. Lo sviluppo (al maschile) si fonda infatti liceità di concepire ogni cosa e ogni individuo come risorsa – come bene scambiabile, disponibile, acquistabile. In quest’ottica la personificazione della natura come Madre (o Sorella) diviene un passaggio concettuale importante per segnalare, allo stesso tempo, l’indisponibilità delle risorse naturali e dei corpi degli individui viventi (umani e animali). Il mito della Madre incarna in sé l’idea di origine e di sacralità, ciò che ci precede – su cui non abbiamo e non possiamo avere presa – e di ciò che è intoccabile. Contemporaneamente il mito della Terra Madre rimanda all’idea di creatività, alla capacità di generare e proteggere la vita. In questa chiave Carolyn Merchant pensa l’ecofemminismo come possibilità di rifondazione etica nell’ottica della relazione e dell’interdipendenza, come reciprocità e partnership[19].

Di fronte all’avvento dell’era dell’Antropocene, Vandana Shiva e Maria Mies[20] si oppongono al principio paterno e patriarcale in nome del principio materno nel tentativo di porre limite all’eccesso, di ritrovare un nuovo senso del limite dell’attività antropica sul mondo, invitando all’esercizio dell’insoddisfazione (e alla prospettiva della decrescita). Ripensare la Terra come Madre significa in così accettare pacificamente l’idea che non tutti i desideri possono essere soddisfatti, che la spinta al dominio e all’appropriazione non può che condurre alla distruzione della comunità e, assieme, del pianeta.

Questa immagine potente del materno da risvegliare e del paterno da ridimensionare, se non respingere, non è priva di rischi. Se di fronte alla catastrofe ambientale – ma anche all’accentuarsi delle disuguaglianze e del dominio – bisogna trovare miti politici, immagini capaci di avere una forza attivante e trasformativa, è necessario anche provare a comprendere in quale direzione si può propagare la loro potenza, se l’immagine del materno può avere valore trasformativo o finisce per riposare su un’ottica conservativa e rassicurante. Sono proprio alcune pensatrici dell’ecologia sociale a metterci in guardia da questo possibile slittamento:

L’ecofemminismo traffica con stereotipi patriarcali: si è appropriato di un antico insulto, presentandolo come un complimento. Stereotipi utili a giustificare, nel corso del XIX secolo, l’ideologia delle sfere separate, che aveva limitato all’universo domestico le scelte di vita delle donne, mentre ne dorava le sbarre della prigione con omaggi inneggianti alla loro superiorità morale[21].

 

Porre l’accento sulla propria particolarità e vincolarsi – sia pur volontariamente – al mito dell’originaria separatezza e del materno attraverso la quale, da sempre, il discorso maschile ha marcato il perimetro d’azione del femminile, sottolinea la Bihel, significa rinunciare alla costruzione di un fronte comune di emancipazione. In un’ottica ecologica questa rinuncia appare doppiamente grave, se è vero che maschile è la responsabilità del disastro ambientale, la possibilità del risanamento passa anche per l’inclusione di quanti più individui possibile nella schiera degli “irresponsabili” di coloro i quali, senza colpa, pagano il prezzo della catastrofe.

Non si tratta dunque di divenire complici del racconto egemone (maschile) o di rifiutarlo in toto, ma di trovare uno spazio di riprogettazione dell’umano. Un mito che mostri con chiarezza il superamento di ogni essenzialismo e dualismo, la possibilità di non vagheggiare un astratto ritorno alle condizioni naturali, delle origini, ma che riorienti l’attività dell’essere umano sulla natura e il suo rapporto a essa. Nella riflessione rivoluzionaria di Donna Haraway questa nuova immagine, questo mito ironico, sarà incarnato dal cyborg.

 

  1. Non siamo postumani, siamo compost

Molti pensatori progressisti, denuncia Haraway, in primis Carolyn Merchant e Herbert Marcuse hanno insistito sull’opportunità e sulla necessità di richiamare all’immagine di un corpo organico e originario[22]. Questo racconto sull’umano, e in particolare sul femminile, come ciò che è da ripristinare è efficace dal punto di vista etico-politico – in quanto è capace di sviluppare un immaginario attivante e di creare connessioni – ma è anche estremamente pericoloso. Haraway, nel porre al centro della sua riflessione l’ironico mito politico del cyborg, prova a mostrare perché e come sfuggire a questo pericolo:

La scrittura cyborg non può parlare della Caduta, immaginare un’antica integrità (…): la scrittura cyborg parla del potere di sopravvivere, che non deriva dall’innocenza originaria, ma dalla conquista degli strumenti che marchiano il mondo (…). Questi strumenti sono spesso storie, storie riscritte, nuove versioni che spiazzano e ribaltano i dualismi gerarchici delle identità naturalizzate[23].

 

Immaginare e risignificare non significa ristabilire un ordine simbolico perduto (l’ordine materno), ma imparare a vivere senza il conforto dell’origine, rinunciando all’idea che il corpo – o la natura, a esso arbitrariamente associata nell’impostazione dualistica e cartesiana del pensiero – sia portatore di verità, anzi di Verità. Pur riconoscendo al mito della Terra Madre l’importante merito di aver saputo mostrare il mondo non solo come oggetto di discorso e di appropriazione, ma come agente, come «soggetto attivo e non come risorsa di cui tracciare una mappa»[24], Haraway non lo assume nel suo pantheon. Al racconto mitico sulla Terra Madre che accoglie, su un soggetto subalterno romantizzato la cui voce si fa oracolo, Haraway contrappone inquietanti visioni mitologiche, mostri privi di innocenza[25], immagini prese a prestito dalla letteratura fantascientifica. La natura descritta dalla pensatrice statunitense non ha niente a che vedere con il paradiso terrestre: prevede processi generativi, ma anche mortali e mortiferi, è incantevole, ma anche orribile, caotica, pericolosa[26]. L’immagine del cyborg è utilizzata in primo luogo da Haraway come negazione dell’innocenza, rifiuto dell’idealizzazione dei processi naturali, del corpo letto in opposizione alla complessità e alla corruzione tecnologica. Il mito cyborg procede seguendo un doppio senso di marcia, consente di cogliere e di leggere il reale, di afferrarlo, contemporaneamente fa emergere tutta la sua complessità,

tutte le mie metafore implicano un’azione sinergica a un livello di complessità che non può essere affrontato attraverso le piccole parti che lo compongono[27].

 

La funzione di questo mito non ha a che fare con la pura speculazione, con la riflessione sui limiti e i pericoli della scienza, tantomeno con la semplice previsione. Non si tratta solo di prevedere la possibile integrazione tra carne e macchina, il potenziamento di alcune facoltà attraverso il supporto di ritrovati tecnologici: il processo immaginativo legato al cyborg è primariamente di carattere politico nel senso più esteso del termine, non puramente funzionale o epistemologico. Primo obiettivo di questo mito è consegnare un linguaggio nuovo, un nuovo corredo di immagini, a femminismo e marxismo.

Pensare il cyborg come compresenza di umano e tecnologico è dunque concepire la possibilità di un’alternativa radicale che eluda la strettoia di una scelta tra rifugio nel naturale e abbandono al progresso. È interessante notare come per Haraway il legame tra discipline e politico, tra elementi strutturali e sovrastrutturali, non sia mai meccanico, anzi, preveda sempre disallineamenti e una reciproca, seppur asimmetrica, influenza tra gli ambiti. Piuttosto che sottrarsi, essere terrorizzata dalla tecnica e dalla sua possibile ingestibilità, arretrando sul crinale, se non passatista, della decrescita, Haraway sceglie di abbracciare gioiosamente la tecnologia come occasione, possibilità di trasformazione, promuovere «visione positiva e amichevole del corpo-macchina»[28]. Cogliere il potenziale di liberazione che la tecnologia offre e orientarla nel suo sviluppo passa anche per i miti che attorno a essa siamo stati e siamo in grado di costruire.

Il cyborg ha rappresentato questa occasione, oggi però si presenta come un mito invecchiato male.

Certamente è un’immagine che ha contribuito a incrinare la compattezza e a mettere in crisi la neutralità del discorso scientifico, a ribadire l’idea di non-naturalità dei corpi (fisici e politici), a denunciare la non innocenza e l’implicazione dei poteri e delle discipline. Ma questo racconto mitico, nella fase attuale, sembra non bastare più. Il cyborg, di fronte all’enormità della crisi ambientale, a un mondo irrimediabilmente danneggiato, appare arrugginito.

La stessa Haraway alla ricerca di un mito attivante per rispondere alla nuova sfida ecologica, sfida che riguarda anche la capacità di strutturare e rinnovare la dimensione etica, tiene in disparte questa figura macchinica in favore di un’ibridazione tra umano e animale.

Nella fiction delle sue The Camille Stories[29], Haraway racconta la vita delle generazioni a venire, la formazione di piccole comunità, le Communities of Compost – nate dal desiderio di curare un pianeta il cui equilibro è stato fortemente, forse irrimediabilmente, compromesso – che continuamente si fanno e si disfano. Ciascuna di queste comunità ha le sue regole, regole nuove, mobili, che rivedono il concetto di genitorialità e in cui fin da bambini si è sollecitati a entrare in simbiosi con gli animali. O sarebbe meglio dire con un animale, che si configura come simbionte, ma anche come una sorta di animale guida. Uno di questi, nel racconto di Haraway, è la farfalla monarca. La simbiosi con questo insetto è tale che in essa lo stesso corpo umano perde la sua forma, si trasforma: le Camille scelgono di impiantarsi antenne sul volto, di riprodurre sulla loro pelle, tramite impianti di cellule staminali, i disegni armoniosi delle ali dei lepidotteri. Altri si ibridarono con le seppie o con i calamari. Questo disordine morfologico è raccontato da Haraway come gioiosa forma di rigenerazione.

Antropocene, Piantagiocene, Capitalocene. Nessuna di queste definizioni, sostiene Haraway, è in grado di dire da sola e fino in fondo la discontinuità con la quale la specie umana si trova a dover fare i conti. Dopo aver respinto la possibilità di rifugiarsi nel mito confortevole di una Terra Madre, la pensatrice rifiuta anche l’immagine dell’Antropocene, che considera fallocentrica e specista. Ma che, soprattutto, non riesce a restituire l’impressione di un passaggio e di una definitiva e irrevocabile commistione tra umano/vegetale/animale/minerale. Solo la metamorfosi continua, questo scambio e questa trasfigurazione nel simbionte rappresentata in The Camille Stories, questo groviglio di forme e di esistenze, nell’alternarsi di composizione e decomposizione, sembrano costituire una trama mitica capace di restituire la complessità delle relazioni di un’epoca totalmente nuova.

Non siamo postumani, sottolinea ironicamente la Haraway, siamo compost[30], destinati a deteriorarci, a marcire, a scomporci, a mescolarci. Quia pulvis es et in pulverem! Tuona il Creatore dinanzi alla disobbedienza dell’essere umano, ma la terra, la polvere, di cui parla la pensatrice statunitense non attiene a un prima o a un dopo, che vede nel mezzo la condizione nobile dell’essere umani. L’essere terra, humus, compost, rappresenta la perdita definitiva della centralità dell’umano e l’ingresso in uno stato pienamente dinamico, di continua processualità. L’era di questo dinamismo è denominata da Haraway Chthulucene. Questo nome che ricorda quello del celebre mostro di Lovecraft (la pensatrice fa notare che, non a caso, lo spelling è differente) ha in comune con esso solo il suo essere forza sotterranea:

“My” Chthulucene, even burdened with its problematic Greek-ish tendrils, entangles myriad temporalities and spatialities and myriad intra-active entities-inassemblages—including the more-than-human, other-than-human, inhuman, and human-ashumus[31].

 

L’era dello Chthulucene è l’epoca della connessione, del Tentacular thinking, che vede il tramonto dell’umano come figura onnipotente. Haraway racconta il corpo come completamente mutato, ma questa mutazione non tiene più al centro solo l’elemento tecnologico della protesi, ma anche e soprattutto quello animale: zampette di ragno, code di lucertola assieme a fili, antenne. Lo Chthulucene è l’era del ragno – Pimoa Cthulhu è un aracnide californiano – non dell’essere umano.

Haraway ha individuato uno slogan per contrassegnare questa nuova fase: Make Kin Not Babies! Questo invito a costruire connessioni, a generare legami più che figli, potrebbe essere parte del racconto dell’epoca a venire, epoca che, come ogni altra, ha bisogno di miti e immagini che ci orientino e la orientino. Occorrono miti capaci di far pensare al futuro oltre la catastrofe paralizzante, oltre il modello binario della Madre/Padre Terra, solo buona o solo maligna, ma anche oltre il modo di produzione capitalistico – processo che l’immagine del Capitalocene non riuscirebbe a stimolare rimanendo confinata ai meccanismi di produzione e accumulazione e non all’insieme della rete di rapporti e di significati generati nella nostra epoca.

Possono i miti dello Chthulucene assurgere a questo compito?

Difficile rispondere a questa domanda. Con il suo Manifesto Haraway è riuscita, attraverso il mito ironico del cyborg, a parlare di saperi situati, intersezionalità, superamento dei dualismi. È stata capace di radicarsi nell’immaginario di due generazioni e di istallarsi, a vari livelli, nella cultura pop e nel senso comune. Tutte preferivamo essere cyborg che dee.

Il mito dello Chthulucene sembra non avere la stessa potenza e fecondità. Si può azzardare un’interpretazione del ripiegamento di Haraway sul mondo animale e sul suo (semi)abbandono del cyborg che spieghi anche il minore fascino di questa proposta. Il rimando alla bestia, al fango, alla terra, si è detto, non è un passo in dietro, ma un passo di lato sì. Non ha nulla a che vedere col il discorso sull’origine suggerito dal mito della Terra Madre, con il recupero di una purezza perduta: gli animali di Haraway sono mutati e mutanti, non precedono l’essere umano, ma si confondono con esso. Esattamente come la sua flora, la fauna tentacolare dello Chthulucene è tutt’altro che rassicurante. Ma mentre nel mito cyborg c’è intenzionalità, c’è un enorme potenziale di progettabilità, in questo mito ctonio, sotterraneo, sembra esserci poco più che la ricerca di un rifugio, il tentativo di porre rimedio alla sconfitta dell’essere umano, non la sua implementazione.

I mondi di Haraway, esattamente come quelli della fantascienza a cui si ispira e che ha ispirato, sono sempre sospesi tra dimensione animale e macchinica, ma se nel cyborg è quest’ultima a prevalere, nei sui ultimi lavori, l’essere umano ormai decomposto, tutto sbilanciato nell’ibridazione animale, sembra non aver altra via d’uscita che “prendere con filosofia” (sic!) la sua sconfitta. Il mondo delle Camille ricorda il bellissimo universo postatomico immaginato da Hayao Miyazaki per il suo Conan[32], è un mondo poetico, ma è un mondo di sopravvissuti.

Il discorso sull’Antropocene/Capitalocene/Chthulucene, al netto della sua fondatezza teorica, appare meno potente non solo perché, per quanto in via di diffusione e sempre più mainstream, rimane confinato agli studi specialistici, ma anche perché a perdersi è il progetto, il fattore attivante, immediatamente politico del discorso mitico. Se nella narrazione cyborg era possibile immaginare il ribaltamento dei rapporti di forza che innervavano la società attale in vista della costruzione della società futura, nello Chthulucene tutto sembra già dato. Scompare il conflitto, scompare il progetto, resta la resistenza. Ma è una resistenza piccola piccola. La resistenza di ragni cui non resta che ritirarsi nel proprio rifugio/tana, in una comunità accogliente che sembra più fragile che mobile.  


[1] N.K. Jemisin, La quinta stagione (2015), Mondadori, Milano 2019; seguono The Obelisk Gate (2016) e The Stone Sky (2017).

[2] Si vedano in particolare L. Irigaray, Ce sexe qui n’en est pas un, Éditions de Minuit, Paris 1977; Id., Éthique de la différence sexuelle, Éditions de Minuit, Paris 1984.

[3] Sul tema della nomadicità come nuova cifra dell’umano cfr. R. Braidotti, Nomadic Theory. The Portable Rosi Braidotti, Columbia University Press, New York 2011.

[4] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), tr. it. Feltrinelli, Milano 2008, si vedano in particolare pp. 73 e sgg.; Id., Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, in «Environmental Humanities», 6, 2015.

[5] Id., Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham/London 2016; si veda anche l’intervista a Haraway presente nel film-documentario Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival (2019) di F. Terranova. Questo amore per la fantascienza è corrisposto: uno dei personaggi principali del film di animazione Ghost in the Shell – L’attacco dei cyborg (1995) si chiama Haraway, in omaggio alla pensatrice.

[6] M. Nussbaum, Giustizia poetica (1995), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 36.

[7] L. Borghi, Introduzione a D. Haraway, _Testimone_Modesta@ Femminismo e tecnoscienza_ (1997), Feltrinelli, Milano 2000, p. 12.

[8] Cr. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni (2001), tr. it. il Mulino, Bologna 2004, p. 368.

[9] Id., Giustizia poetica, cit., pp. 35 e sgg.

[10] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 118.

[11] D. Chakrabarty, The Climate of History, in «Critical Inquiry», 2, 2009, p. 215.

[12] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), tr. it. Carocci, Roma 2000.

[13] J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo (2004), tr. it. Meltemi, Roma 2004, pp. 9-10.

[14] Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito (1979), tr. it. Il Mulino, Bologna 1991, cap. I.

[15] B. Latour, Face a Gaïa: huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris 2015, p. 161.

[16] Cfr. A Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 2011, p. 72.

[17] A individuare e mettere a tema questa continuità è stata in origine Susan Griffin con il suo Women and Nature: The Roaring Inside Her del 1978; il termine ecofemminismo appare per la prima volta in Le féminisme ou la mort di Françoise d’Eaubonne (1974).

[18] Cfr. V. Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Survival in India, Zed Press, New Delhi 1988.

[19] Cfr. C. Merchant, The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution, Harper&Row, New York 1980; Ecological Revolutions. Nature, Gender, Science in New England, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1989; Radical Ecology: the Search for a Livable World, Routledge, New York 1992; Earthcare: Women and the Environment, Routledge, New York 1996; Reinventing Eden. the Fate of Nature in Western Culture, New York, Roultedge 2003.

[20] Cfr. M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale. Women in the International Division of Labour, Zed Books, London 1986; V. Shiva, Terra Madre. Sopravvivere allo sviluppo (1989), tr. it. UTET, Torino 2002.

[21] J. Bihel, Femminismo ed ecologia, un legame naturale? in «Le Monde diplomatique», 2011, p. 20. Si veda anche J. Biehl, Rethinking Ecofeminist Politics, South Press, Boston 1991.

[22] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 46.

[23] Ibid., p. 75.

[24] Ibid., p. 125.

[25] Cfr. D. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, Free Association Books, London 1991.

[26] D. Haraway, Staying with the trouble, cit., p. 168.

[27] D. Haraway, Come una foglia. Thyrza Nichols Goodeve intervista Donna J. Haraway (1999), tr. it. La Tartaruga, Milano 1999, p. 69.

[28] R. Braidotti, La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, in D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 25.

[29] In D. Haraway, Staying with the trouble, cit., cap. 8: “The Camille Stories: Children of Compost”.

[30] Ibid., p. 97.

[31] D. Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, cit., p. 163.

[32] Si fa riferimento all’anime televisivo Mirai shōnen Konan (1978).

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