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La costruzione del Sé (e del Noi) ai tempi del Dataismo

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Big data is sexy: a proposito dell’uragano Sandy e delle Pop-Tarts alla fragola
  2. Le tecnologie del Sé nell’epoca del Dataismo: verso l’Apocalisse? – parte prima
  3. Le tecnologie del Sé nell’epoca del Dataismo: verso l’Apocalisse? – parte seconda
  4. Il populismo ai tempi del Dataismo

 

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S&F_n.  20_2018

Abstract


THE CONSTRUCTION OF SELF (AND “US”) IN THE TIME OF DATAISM


The essay intends to analyze some elements concerning the crux of the construction of Self (and “Us”) in the age of the so-called Dataism. The analysis moves, first of all, from epistemological considerations, and then goes on issues concerning the crux of identity and subjectivation within the conceptual couple Neoliberalism/Dataism: taking the cue from the observations of Goffman and Foucault, we intend to identify the heart of the problem within the impossibility of a narrative and temporalized construction of Self. The conclusions will attempt critical work around the notion of Populism as a dominant political aspect in the age of Dataism.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

Vecchio adagio riferibile a Fredric Jameson e/o Slavoj Žižek

 

Incapacità di produrre ricordi nuovi:

eccola, la formulazione essenziale dell’impasse postmoderna.

M. Fisher

 

  1. Big data is sexy: a proposito dell’uragano Sandy e delle Pop-Tarts alla fragola

Possiamo sicuramente iniziare con una storiella di “cronaca economica” particolarmente significativa e, per certi versi, tipologica, propria dei tempi del Dataismo[1]: protagonista è Walmart, una delle più grandi catene di distribuzione esistenti al mondo, e co-protagonisti sono da un lato l’uragano Sandy e dall’altro le Pop-Tarts alla fragola. Questo gigante del retail usa da tempo – per alcuni è stato considerato “pionieristico” – “l’analisi dei dati” per predisporre alcune precise strategie di marketing. Ebbene, quando nel 2012 si approssimava l’arrivo dell’uragano Sandy, Linda M. Dillman, formerchief information officer di Walmart, grazie all’analisi incrociata dei dati di vendita riguardanti altre catastrofi naturali negli USA, scoprì qualcosa di molto particolare: le persone che attendevano un uragano non acquistavano in misura nettamente superiore soltanto torce ed equipaggiamenti di emergenza, ma anche e soprattutto la birra, vero e proprio prodotto top-selling, e le Pop-Tarts alla fragola, un tipo particolare di “snack” che in altre occasioni del genere (pre-uragano) aveva mostrato un incremento di vendite pari anche a sette volte quelle registrate nei periodi “normali”. I dati erano assolutamente “trasparenti”, non necessitavano di alcuna “teoria” per essere elaborati e/o interpretati, bastava trarne le semplici conseguenze di marketing: e così quando Sandy era oramai alle porte, Walmart invase i negozi di snack alla fragola Pop-Tarts, che fecero registrare altissime percentuali di vendita e il “tutto esaurito” in tempi brevissimi. Un successo assoluto che presentava due caratteristiche: da un lato l’utilizzazione di strumenti sempre più efficaci per l’analisi del comportamento del consumatore, dall’altro l’assoluto non-sense della correlazione uragano-snack alla fragola. Come nota Byung-Chul Han, il Dataismo è già sempre una sorta di Dadaismo[2].

Questa storiella ci permette di approcciare la questione dei big data proprio a partire da alcuni elementi: innanzitutto la connessione tra dati e prevedibilità, quello che è, se vogliamo, il “sogno (mai troppo proibito)” della scienza, e, in secondo luogo, l’assenza di significato e di costruzione di dinamiche di senso all’interno dei sistemi di correlazione propri delle “analisi di dati”. Se è chiaro che uno “snack” possa essere un prodotto top-selling quando si attende un uragano perché effettivamente si tratta di cibo che non necessita di essere cucinato e che può essere consumato in qualunque momento, è almeno altrettanto “oscuro” il motivo per cui questo incremento particolare di vendite riguardasse proprio quel tipo particolare di snack e proprio quel sapore specifico alla fragola.

E quindi arriviamo immediatamente alla “sbornia” non solo commerciale ma anche “teorica” (anche se, a breve, si vedrà come l’aggettivo “teorico/a” sarebbe già da considerarsi fuori moda) connessa alla questione dei big data: l’epoca del Dataismo “consapevole” ha una sua data di inizio, divenuta oramai “simbolica” e “periodizzante”, e che si fa coincidere con il 23 giugno 2008 quando apparve sulla rivista Wired un articolo a firma di Chris Anderson dal titolo tanto provocatorio quanto speranzosamente profetico, The end of theory: the data delugemakes the scientific method obsolete[3]. Si tratta di un saggio molto breve – del resto la teoria in senso stretto starebbe finendo – molto studiato, citato e commentato, e il cui senso complessivo può essere riassunto attraverso questa breve citazione: «questo è un mondo in cui enormi quantità di dati e di matematica applicata sostituiscono ogni altro strumento che potrebbe essere utilizzato. Al di là di ogni teoria del comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia. Dimenticatevi la tassonomia, l’ontologia e la psicologia. Chi sa perché le persone fanno quello che fanno? Il punto è che lo fanno, e possiamo monitorarlo e misurarlo con fedeltà senza precedenti. Con una quantità sufficiente di dati, i numeri parlano da soli»[4].

Il ragionamento è il seguente (va da sé che ci troviamo in presenza di un sistema di pensiero che maggiormente rivela l’ideologia dell’homo oeconomicus neoliberista): a) l’enorme quantità di dati sta sostituendo e sempre di più sostituirà altri strumenti di comprensione, certo occorre sempre un’intelligenza (artificiale) capace di mettere in correlazione gli elementi, ma in linea di massima si tratta di atomi di conoscenza auto-evidenti (il discorso vale soprattutto per il mondo umano, ma non solo, nella prosecuzione del breve saggio si afferma che tutte le scienze, anche quelle più “dure”, hanno da imparare dal “sistema Google”); b) analisi del comportamento, psicologia, sociologia, linguistica, ontologia e altre costruzioni di modelli e di dinamiche di senso non servono a nulla: del resto, nessuno potrà mai dire perché le Pop-Tarts e non altro, non lo dirà un’analisi sociale o linguistica, uno sprofondare nell’inconscio o un modello stimolo-risposta; c) i dati parlano, contengono la risposta a qualsiasi domanda, ma soprattutto bastano essi soli, ed essi soli rivelano correlazioni “vere” anche se non-sense (uragano-snack alla fragola) e ancor di più eliminano il rischio – se utilizzati in maniera sempre più massiva – dell’evento. I dati sono il perfetto rispecchiamento della realtà, ma se per comprendere la realtà si sono utilizzati modelli teorici, adesso basta saper formulare la giusta domanda di correlazione per vedere una determinata relazione manifestarsi: basta costruire algoritmi di intelligenza operazionale, definire l’eterno presente della realtà, immunizzare dal futuro come “breccia” e soglia.

La fine della teoria dunque dimostra due cose: 1) la realtà umana (e non solo) non ha senso, anzi le costruzioni di senso sono sempre costruzioni ideologiche, è sempre un voler strappare alla trasparenza dell’evidente un significato secondo, nascosto, significato che è prodotto da un lavorio eccessivo dell’intelligenza umana – la natura non ama più nascondersi e la verità non è certo il gioco tra nascondimento e non-nascondimento; 2) la semplice correlazione deve sostituire la complessa causazione – anzi, come dice Chris Anderson, la semplice correlazione deve bastare. Non occorre certo richiamare lo scetticismo humiano (che pure aveva permesso risvegli importanti dalla metafisica e dalla dogmatica), e nemmeno il fatto che anche le scienze più dure abbiano scoperto da circa un secolo di essere scienze comunque probabilistiche, perché la questione è in un certo senso ulteriore: la complessità del reale mostrerebbe che vi sono correlazioni periodiche tra eventi e fenomeni la cui connessione non può essere spiegata mediante la costruzione di modelli di carattere causale (né nel senso di una causa finale, il perché, da sempre e per natura estraneo alla scienza moderna, né nel senso di una causa efficiente, il come), ma che nondimeno esistono, si manifestano, e da sole riescono a restituire un’immagine trasparente della realtà.

La realtà è dunque una correlazione insensata di elementi e fenomeni che casualmente si manifestano e si connettono in un modo e non in un altro; la realtà umana, grazie alla sua complessità specifica di carattere sociale e culturale (oltreché naturale), presenterebbe queste stesse dinamiche: la riflessione di carattere epistemologico connessa alla questione dei big data sembra andare, per quanto concerne il mondo umano, al di là (o al di qua) della distinzione natura-cultura – il dispositivo dataista non è in senso stretto né naturale né culturale o, per meglio dire, è culturale nella misura in cui necessita di (e produce) precise tecnologie, ma è naturale nella misura in cui le precise tecnologie non fanno che replicare una naturalità di manifestazione del reale; in linea di massima, è possibile affermare che il rapporto natura-cultura (anche nell’idea dell’ibrido post-umano) non sia un problema del Dataismo. Ma di che realismo si tratta? Che realtà realizzano i dati? Si tratterebbe di una nuova forma di realismo, un strano realismo che, ritenendo di “duplicare” in maniera trasparente la realtà, porterebbe alla rimozione del “reale” come contesto all’interno del quale assume significato una determinata azione o scelta: i dati parlano da soli, bastano, perché rispecchiano connessioni reali – non solo sono riscontrabili nella realtà passata, ma anche utilizzabili per la realtà a venire; le connessioni reali non sono di tipo causale (dunque, la fine della teoria) né, per quanto riguarda quell’oggetto di conoscenza che va sotto il nome di uomo, possono dare la possibilità della costruzione di senso all’interno del racconto di una vita. Tutto può essere simbolizzato nel realismo dei big data, ma a perdersi sembra essere la possibilità della manifestazione del “reale”, come ciò che lacanianamente non può essere formalizzato e resiste sempre all’interpretazione.

Semplificando al massimo, allora: se la rivoluzione scientifica e, dunque, la scienza moderna nascono dalla metafora produttiva che vuole che il mondo sia un libro scritto in caratteri matematici, per cui la statistica interviene con il compito di dominare i fenomeni non regolati da “immutabili e necessarie leggi di natura”, la rivoluzione del Dataismo racconta di un mondo che si manifesta sì in caratteri matematici ma senza più la necessità del “libro” – la narrazione non conta più, la costruzione di un sistema o di un modello significa già sempre “fare ideologia”, non occorre che il simbolico costruisca la realtà contro gli attacchi del “reale”, il “reale” scompare divenendo “realtà” formalizzata e controllabile, per cui la correlazione dice già tutto soltanto dicendolo, dunque occorre soltanto scoprirla e trarne le giuste conseguenze.

Il Dataismo è allora qualcosa di ancora differente rispetto alla semplice scienza statistica: se quest’ultima è ben consapevole che il “numero” va interpretato e, dunque, necessita di una vera e propria ermeneutica (il “reale” non può essere del tutto dominato, irrompe sempre, ma viene immunizzato dalla costruzione simbolico-interpretativa della “realtà”), il Dataismo realizza la verità del numero senza necessità di interpretazione, in quanto l’interpretazione sarebbe sempre viziata da una “partigianeria”, sarebbe sempre e comunque una costruzione che nasconde altro (l’unica verità è il non-sense produttivo della correlazione tra dati).

Questo chiaramente quando si ragiona a partire dal versante epistemologico (che spesso gioca il suo ruolo fondamentale nel presentare un dispositivo tecnico-scientifico come pura oggettività da opporre ad altri strumenti di parte o politici): poi ovviamente i big data sono giunti alla ribalta della cronaca anche e soprattutto perché sono stati utilizzati per indirizzare le scelte di mercato e, a quanto pare e sembra, per orientare alcuni esiti elettorali. Significa che i big data sono realmente uno strumento di potere, realmente identificano qualcosa di nuovo nella lettura dell’umano, realmente sembrano indicare nuove strade per la dominazione e lo sfruttamento: propagazione di dati e propaganda (paradossalmente, ma forse non troppo) sembrano andare spesso di pari passo.

Bisogna, allora, nei limiti di questo intervento identificare un taglio, una prospettiva teorica, intorno alla quale ragionare. Con buona pace di Anderson, l’uomo è l’animale che crea modelli (cos’altro sono state, anche nelle epoche più arcaiche, le costruzioni mitologiche?), e così la nostra riflessione si dirigerà lungo soltanto uno dei possibili vettori di riflessione, quello che riguarda la costruzione del Sé (con una piccola appendice sulla costruzione del Noi) nell’epoca del Dataismo[5]. Si partirà dal problema dell’identità e della costruzione del Sé, come discusso da Goffman e Foucault, si passerà per il nodo della soggettività contemporanea in tempi di neoliberismo, si proverà ad aprire infine il discorso al populismo. L’orizzonte – per quanto riguarda le nostre riflessioni – è il medesimo: qualunque strumento di conoscenza non è mai neutro fino in fondo, nasce, si sviluppa e si afferma sempre all’interno di un conflitto – sapere è potere non semplicemente nel senso di Francis Bacon, ma anche e soprattutto perché è chi produce e dunque detiene la verità a produrre e detenere gli strumenti fondamentali di coercizione e dominio. Anche nella riproduzione soggettivante/assoggettante del Sé.

 

  1. Le tecnologie del Sé nell’epoca del Dataismo: verso l’Apocalisse? – parte prima

In un saggio molto importante e di recente riedito in Italia, Stigma[6], Erving Goffman delinea una teoria della costruzione del Sé che può essere utilizzata per dare avvio al nostro discorso. In via preliminare, possiamo dire che ogni individuo che attraversa le società moderne costruisce, all’interno dell’interazione, l’immagine del proprio Sé (dunque la propria identità) a partire da tre dimensioni, che rappresentano sempre una zona di indistinzione tra superficie e profondità o, se si preferisce,tra esterno e interno.

La prima riguarda l’identità sociale muovendo dal presupposto che «è la società a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l’appartenenza a una di quelle categorie»[7]: questa identità prima e fondamentale vive immediatamente una scissione, esiste infatti un’identità sociale virtuale, quella che rappresenta l’aspettativa e dunque le caratteristiche che la persona che prendiamo in considerazione dovrebbe avere (vale lo stesso quando siamo noi oggetto di costruzione sociale della nostra identità dall’esterno), e, in stretta connessione, un’identità sociale attuale, la possibilità che ne deriva poi di incasellare una persona (o di essere incasellati) all’interno di una categoria a partire da attributi che è possibile assegnare – questo movimento, che non è assolutamente indolore soprattutto nel caso dello stigmatizzato dove la frattura tra queste due dimensioni è già sempre attiva esteriormente e interiormente, fa sì che si produca (o si subisca) una vera e propria pretesa normativa nei confronti di una persona (o di se stessi) quando entra (o entriamo) in un’interazione sociale. Se il presupposto posto è quello del riconoscimento, della relazione con l’Altro – l’identità o il processo di identificazione si attiva sempre a partire da una dinamica di interazione – allora è chiaro come una prima immagine del proprio Sé si produca a partire dallo sguardo dell’altro e dalle aspettative (anche normative) che questo determina. L’identità sociale, dunque, rappresenta la prima forma di soggettivazione/assoggettamento non soltanto in ordine tassonomico, ma proprio perché è a fondamento delle altre dimensioni di costruzione del Sé.

La seconda dimensione riguarda l’identità personale, quella che fa sì che, all’interno del calderone generalizzante dell’identità sociale, si possa identificare l’unicità di questa o di quella persona: si tratta di un dispositivo piuttosto complesso e che non riguarda mai l’interiorità o l’intimità; il punto di partenza di Goffman è che c’è sempre una differenza tra la persona e i fatti biografici di una persona: i fatti possono allora essere assemblati innanzitutto in maniera ufficiale attraverso la documentazione, in secondo luogo a partire da un Altro che ci guarda e ci conosce e che costruisce un’immagine specifica della nostra unicità, infine a partire da noi stessi che effettuiamo una determinata selezione negli eventi della nostra vita per determinarli in una tensione temporale continuata e narrativa – si tratta di una sorta di tripla “unicità”; l’immagine che lascia Goffman è quella del “gancio”: l’identità assomiglia a un “gancio” al quale vanno “attaccati” tutta una serie di dati che vanno a costituire la biografia di una persona; l’elemento narrativo è decisivo: l’identità personale la si costruisce dall’esterno, mediante la documentazione o il vivere in comune, ma può anche essere costruita o ricostruita dall’interno mediante il dispositivo dell’autobiografia, tramite la quale è la stessa persona che seleziona gli eventi della propria vita, li pone in una sequenza significativa, e interpreta sé stesso costruendo una propria identità personale che sarà sentita poi come vera – l’identità personale, oggi, ha anche un ulteriore canale di “pubblicizzazione” e di definizione: si tratta, in effetti, dei social network, dove si pongono tutte le caratteristiche proprie della costruzione di un’identità personale, anche laddove regni l’anonimato[8] e la completa atomizzazione anti-narrativa degli eventi che rendono “unica” una vita.

La terza dimensione è quella dell’identità dell’Io, il modo mediante il quale una persona riesce a dire “Io” e a sentire una continuità all’interno della propria esperienza di vita: Goffman afferma che si tratta di una dinamica che parte sempre dai dati e dai fatti mediante i quali si costruiscono l’identità sociale e personale, ma, nella manipolazione di essi in vista di una narrazione complessiva, la libertà dell’individuo è notevole. Insomma, è possibile riflettere su stessi e analizzare sé stessi, dire “Io” soltanto una volta che si è compresa la propria identità sociale (il ruolo che si ricopre sulla ribalta della realtà) e la propria identità personale (l’unicità che comunque si è dinanzi agli altri), ma non si tratta, almeno nei termini goffmaniani, di un’interiorizzazione di un qualcosa che proviene dall’esterno, si tratta sempre di una dimensione anfibia, di indistinzione, in cui anche l’interiorità viene plasmata dall’esteriorità (che sempre “precede” logicamente).

Cosa succede, allora, in questa già intricata situazione tipicamente moderna, alla costruzione del Sé nell’epoca del Dataismo? Se immaginiamo le tre dimensioni della costruzione del Sé in Goffman come tre stratificazioni successive di uno stesso territorio, la costruzione dell’identità mediante social network e/o operazioni di quantified self costituisce una sorta di piano trasversale che interseca i tre livelli creando smottamenti. Per quanto riguarda l’identità sociale, infatti, lo sguardo dell’Altro (la società) si duplica mediante lo sguardo della rete, ma questa duplicazione “virtuale” porta a un mancato riconoscimento nel piano della realtà stessa: la mancanza di contatto visivo, la sempre possibile manipolazione della propria immagine, il giocare con la propria identità attraverso nomi fittizi, fa saltare la dialettica tra identità sociale virtuale e attuale – ma soltanto (appunto!) nel mondo social non nel mondo sociale. Si produce infatti una duplicazione che porta a una rappresentazione del Sé che si gioca sempre nell’indistinzione tra identificazione e associazione: si vive in due mondi o, per meglio dire, si gioca su due tavoli – spesso il tavolo virtuale diviene il rifugio per le delusioni del tavolo reale, ma la questione di fondo è che si crea un’intermittenza decisiva nella percezione sociale del proprio Sé, intermittenza che fa saltare la possibilità di narrazione, intermittenza che porta all’oggettività del dato o del fatto, intermittenza che mette in difficoltà la possibilità stessa di costruire un Sé che vada al di là della mera adattabilità. In questo senso, anche l’identità personale si trova a essere “deformata”: se si gioca su due tavoli sociali differenti, l’intermittenza si rispecchia anche all’interno della dinamica mediante la quale l’identità si costruisce come unica – cioè: alla documentazione, agli altri biografici e all’autobiografia “ragionata” che, lavorando insieme e avendo effetti di ritorno l’una sull’altra, permettevano la costruzione della persona, si aggiunge ora una personalità senza rispecchiamento, senza interazione, senza riconoscimento – il rischio è che si perda la sua complessa e triplice unicità, perché le unicità si moltiplicano a partire dalle piattaforme all’interno delle quali si entra, mediante il proprio nome “reale” o nell’anonimato assoluto, e così quando l’unicità si moltiplica, è chiaro che non sia più tale: si è unici in molti modi, dunque non si è più unici, perché le differenti piattaforme hanno differenti richieste normative nei nostri confronti, che elaboriamo sempre come “uniche”, ma che uniche non sono. Infine, l’identità dell’Io: se è vero che rappresenta il luogo di maggiore libertà (e dunque sofferenza) nello schema goffmaniano, è almeno altrettanto vero che la molteplicità di dati e fatti afferenti a più identità sociali e personali che ricopriamo a volte addirittura in contemporanea non possono permettere una costruzione di carattere narrativo del proprio Sé. L’ibridazione causata da strumenti come smartphone o la realizzazione di ambienti di IoT o ancora l’utilizzazione di dispositivi che possono monitorare costantemente una serie di funzionalità corporee porta a una manifestazione mediante dati di una sorta di verità del Sé capace di creare un paesaggio in cui il passaggio dall’inconscio al conscio, laddove questo inconscio non è chiaro più a chi appartenga o quale sia l’Io o il Noi che deve “gestirlo”, sembra essere costruito come un algoritmo di intelligenza operazionale, il quale è ritenuto poter rappresentare e simbolizzare ciò che è per eccellenza irrappresentabile e non formalizzabile. E questo sul versante, se si vuole, epistemologico. Ma sul versante politico?

Si è scelto per la comprensione del fenomeno della soggettivazione/assoggettamento ai tempi dei big data una riflessione di psicologia sociale prim’ancora che individuale, proprio perché ci troviamo dinanzi a una nuova dinamica di costruzione social, che non sostituisce le altre, ma le moltiplica e le complica proprio perché, pur essendo social, non è sociale nel senso del riconoscimento intersoggettivo: se il movimento etico-politico dell’intera modernità è quello della costruzione di un Sé individualizzato, separato dagli altri, atomo di azione e di scelta razionale, un Sé che nella propria autoreferenzialità trova la sua espressione (ma la cui “precedenza” logico-cronologica sulla relazione è assolutamente fantasmatica, simbolica e ideologica), allora il mondo dei social porta a compimento questo processo, laddove lo stesso Sé può essere scomposto in atomi di correlazione in maniera estremamente più efficace e, soprattutto, efficiente dal punto di vista di una prevedibilità del comportamento economico-politico. L’elemento ultimo della realtà umana sembra essere l’atomo a-temporale di correlazione, non più un Sé semplicemente “separato” e “irrelato” – a-temporale perché cancella la “distanza” tra gli elementi della correlazione, distanza che misura la “durata” esistenziale e testimonia la “sostanza etica” fondamentale di cui è fatto l’uomo.

 

  1. Le tecnologie del Sé nell’epoca del Dataismo: verso l’Apocalisse? – parte seconda

In questo senso, Foucault aveva visto giusto quando, dopo l’analisi contenuta in Nascita della biopolitica[9], centrata tutta sulla nascente “antropologia” neoliberista che vedeva nell’individuo una piccola azienda caratterizzata da un capitale umano da accumulare e reinvestire, aveva fatto prendere alla sua riflessione una svolta all’epoca considerata inaspettata verso quelle che avrebbe definito come tecnologie del Sé. Foucault aveva colto più o meno sul nascere (il corso è della fine degli anni ‘70) una certa evoluzione delle relazioni di potere rispetto alla prima modernità e al liberismo classico: se nell’epoca della sua crescita e definitiva affermazione il Capitale necessitava di corpi docili ai ritmi della fabbrica – e la costruzione di questa docilità passava attraverso una serie di istituzioni che si davano il compito della gestione della spazialità e della temporalità dei corpi – e dunque di un potere disciplinare, una volta realizzata questa “educazione” corporea, il Capitale necessitava di dispositivi capaci di riprodurre questa costruzione in maniera autonoma attraverso i processi di soggettivazione- assoggettamento. Le relazioni di potere hanno, per Foucault, una valenza positivo-produttiva, non solo negativo-coercitiva: se il potere disciplinare non soltanto obbliga ma contribuisce alla produzione di un corpo docile dunque efficiente ed efficace, il potere neoliberista necessita di un passaggio ulteriore, un’interiorizzazione della docilità corporea, in vista della costruzione di una personalità capace di leggere ogni propria azione secondo la lente dell’efficacia e dell’efficienza. Si tratta di un dispositivo, nei termini foucaultiani, estremamente pervasivo, e che, nei termini di Han, diviene un meccanismo onnicomprensivo: la cancellazione di ogni possibile residuo, l’impossibilità della pensabilità stessa dell’evento che fa saltare lo schema, la costruzione di un Sé pienamente adeguato e “controllato”, un’interiorizzazione del panottico esteriore (e, per certi versi, non del tutto efficace) della disciplina[10].

Insomma, secondo Foucault (che a causa della morte prematura non ha potuto vedere quale livello di pervasività il dispositivo che aveva intravisto avrebbe raggiunto) si tratta di lavorare intorno ai modi mediante i quali i singoli individui possono costruire il proprio Sé in composizione e opposizione con le tecnologie del potere dominante. Molti avevano visto una svolta soggettiva proprio nel filosofo della “morte dell’uomo” e invece si trattava della comprensione di un punto di emergenza: la costruzione del potere neoliberale non sarebbe passata più soltanto attraverso dispositivi esteriori (la disciplina), ma anche e soprattutto attraverso dispositivi interiorizzati.

Il problema diviene la “soggettivazione”.

Il filosofo francese spiega chiaramente che la “ragion pratica” ha quattro matrici – e per “ragion pratica”, in questo contesto, occorre intendere il fatto che queste matrici non producono soltanto l’acquisizione di determinate capacità, ma anche la definizione soggettivante-assoggettante di determinati atteggiamenti, di posture sentite come “vere” o addirittura, secondo lo schema della seconda modernità, “naturali”: innanzitutto, le tecnologie della produzione, la maniera mediante la quale si trasforma o manipola la realtà; in secondo luogo, le tecnologie dei sistemi di segni, che permettono all’uomo di utilizzare segni e significazioni, in vista della costruzione simbolica della realtà; in terzo luogo, le tecnologie del potere, che definiscono le linee di condotta ammesse per gli individui e che conducono a una oggettivazione del soggetto (il dominio dell’assoggettamento); infine, le tecnologie del Sé, che danno la possibilità all’individuo, nella singolarità della sua esistenza, di utilizzare mezzi propri o derivanti da altri, per compiere una serie di operazioni sia sul proprio corpo che sulla propria anima, in vista del raggiungimento di uno scopo che può essere la felicità, la saggezza, la purezza, la vita eterna[11].

Le tecnologie del Sé, dunque, rappresentano lo spazio di “gioco” della soggettività, mediante il quale gli individui istituiscono una relazione tra un “principio di obbedienza” che ogni prescrizione morale porta necessariamente con sé e un “principio di libertà” che, nella mobilità del rapporto alla proibizione, ogni individuo mette in campo per costruire il proprio Sé. La “morale”, infatti, comunque la si voglia intendere, presenta sempre una sorta di ambiguità: da un lato si determina a partire dai “codici morali” come quell’insieme di regole d’azione e valori che sono proposti/imposti agli individui mediante specifiche istituzioni sociali e culturali, e dall’altro si definisce a partire dai comportamenti effettivi e reali degli individui che si soggettivano/assoggettano in rapporto ai “codici morali” vigenti – insomma, come forma di adattamento libero alle richieste normative della realtà di appartenenza, adattamento non “artistico”, ma “artigianale”, partendo dal presupposto che esistono molteplici modi di seguire un determinato codice morale, molteplici modi che rappresentano anche la possibilità dello scarto e della realizzazione dello spazio di libertà. Foucault, questa volta, non intende discutere delle singolarità marginali e/o devianti (il “folle”, l’internato, il “mostro” morale), non di ciò che pertiene al sempre mal definito ambito del “patologico”, ma identificare la relazione del Sé col Sé nell’individuo che, in una determinata configurazione culturale, può essere inserito nell’ambito del “normale”: si tratta del come avviene che un individuo costituisca Sé stesso a partire da un determinato codice morale.

Innanzitutto, si parte dall’idea della determinazione di una sostanza etica: l’individuo di una determinata epoca lavora specificamente su una parte molto definita del proprio Sé che diviene la materia a partire dalla quale operare per la propria condotta morale. In secondo luogo, si definisce mediante un determinato modo di assoggettamento: sono molti i modi in cui si può decidere di obbedire a un determinato codice morale e molte le motivazioni, queste ultime sono oggetto del lavoro tecnologico del Sé sul Sé. In terzo luogo, Foucault parla di elaborazione del lavoro etico, la maniera mediante la quale un individuo trasforma sé stesso nel soggetto della propria azione morale: ad esempio, una medesima prescrizione ma in epoche differenti non produce il medesimo lavoro etico di soggettivazione. Infine, quella che viene definita teleologia del soggetto morale: un individuo si costruisce come soggetto della propria vita e della propria azione mediante l’inserimento, all’interno di una durata esistenziale, della propria condotta che assume significato soltanto all’interno di questa narrazione complessiva[12].

Le tecnologie del Sé, dunque, non riguardano soltanto i corpi e la loro gestione ed educazione, ma anche (e soprattutto) le “anime”, da intendersi come un principio energetico e tensionale (non come una sostanza, ovviamente), che si gioca sempre all’interno di un’arena complessa, formata da “codici morali” e “moralità dei comportamenti”.

Secondo Byung-Chul Han, è proprio nell’analisi delle tecnologie del Sé che il sistema foucaultiano fallirebbe:

La tecnica di potere attuata dal regime neoliberale costituisce il punto cieco dell’analisi foucaultiana sul tema: Foucault non riconosce che il regime di dominio neoliberale monopolizza integralmente la tecnologia del sé, che l’auto-ottimizzazione permanente come tecnica neoliberale del sé non è altro che una forma più efficace di dominio e sfruttamento. Il soggetto di prestazione neoliberale, come “imprenditore di se stesso”, sfrutta volontariamente ed entusiasticamente se stesso. Il sé come opera d’arte è una bella, illusoria apparenza che il regime neoliberale mantiene per poterla sfruttare meglio[13].

 

Il filosofo di origini coreane, che può essere indubbiamente ascritto alla categoria degli “apocalittici”, è molto acuto nel cogliere alcune questioni riguardanti la costruzione del Sé nell’epoca del Dataismo e del neoliberismo (che sono, per Han, due facce della stessa medaglia), ma, in questi passaggi – quelli che determinerebbero la fine della biopolitica e l’inizio della psicopolitica – sembra non cogliere l’elemento di fondo della riflessione foucaultiana: la tecnologia di potere neoliberista per Han sarebbe onnicomprensiva e pervasiva fin dentro la costituzione dell’anima, il soggetto di prestazione non avrebbe più alcuno spazio di “gioco” della libertà proprio perché il “potere” avrebbe raggiunto la sua “destinazione”, il controllo della sostanza etica degli individui, i quali “entusiasticamente” determinerebbero il proprio Sé secondo le richieste normative della “psicopolitica”[14]; per Foucault, che intravede in tempi poco sospetti determinate derive nella costruzione della soggettività, il “controllo” esteriore o interiore che sia non può mai essere totalizzante: c’è sempre qualche elemento sfuggente, sia nel sociale che nello psichico. In questo senso, occorre forse mettere alla prova ancora di più la teoria foucaultiana (che sembra essere una delle poche ancora “possibili” per determinare lo spazio di libertà nella modernità neoliberista): cercare di ritrovare la sostanza etica che il Dataismo predispone, i modi di assoggettamento che vengono scelti e quale lavoro di Sé sul Sé attivano, come avviene l’elaborazione del lavoro etico mediante la costruzione di un Sé come soggetto di una condotta sentita come libera, quale teleologia morale è possibile, se vi sia ancora la possibilità di connettere una durata con una vita, una narrazione con una esistenza. Si tratta di forzare Foucault, ma lo schema sembra essere adeguato all’analisi della questione. Byung-Chul Han, invece, riflette a partire da un’apocalisse già avvenuta: legge l’avvento del Dataismo come una sorta di compimento destinale (da “buon” heideggeriano qual è), raccontando il procedere a gran velocità verso un precipizio, nel quale non si può fare a meno che precipitare. Ci troviamo con Han nella forma più raffinata che assume l’adagio (di Fredric Jameson e/o Slavoj Žižek) che recita grossomodo così (e che è stato messo a esergo): è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

Dunque: cosa accade quando il Sé contemporaneo si soggettiva/assoggetta ai codici morali e alle prescrizioni normative dell’epoca del Dataismo/neoliberismo? Recuperando lo schema foucaultiano, è possibile affermare che:

1) La sostanza etica rappresenta il “luogo” del Sé sul quale il Sé lavora per creare la materia a partire dalla quale costruire la propria condotta morale: nell’età del Dataismo, la “materia” sembra essere la “temporalità” – dal punto di vista epistemologico, l’era dei big data permette di effettuare previsioni sempre più precise sul comportamento umano (la correlazione uragano-snack alla fragola), per cui il futuro sta diventando sempre di più controllabile: ciò che si cerca di controllare è l’irrompere dell’evento, la forma che assume la potenza del “negativo”, di ciò che trasforma e metamorfizza la realtà, all’improvviso e senza immediata correlazione; a questo “negativo” si oppone la costruzione soggettivante di un “positivo”, il quale altri non è che lo status quo; se Han probabilmente esagera quando afferma che «i big data annunciano la fine della persona e della volontà libera»[15], è vero piuttosto che, nella determinazione della sostanza etica, il soggetto contemporaneo trova la sua difficoltà proprio nella determinazione: senza un dispositivo che permetta una narrazione coerente della propria identità – e la capacità di narrare il proprio Sé è data proprio dalla capacità tutta umana di “utilizzare” una miscela di memoria e oblio come matrice di ragion pratica – il Sé contemporaneo si trova essenzialmente scisso, da un lato produce consapevolmente dati per i quali non esiste (e difficilmente potrà esistere) un diritto all’oblio (i dati non dimenticano!), dall’altro, trovandosi immerso in una cultura dell’immediato e del presente (il dato eternizza il presente, “fotografa” il presente e nel fotografarlo lo produce), si trova nella condizione in cui l’irruzione del totalmente Altro o del decisamente Nuovo viene visto come un qualcosa di ostile e, comunque, da non percorrere, per cui rischia sempre di determinare la propria sostanza etica come un aggregato di “atomi a-temporali di correlazione” definendosi attraverso l’incapacità di produrre ricordi nuovi[16] – insomma occorre ri-acquisire la temporalità del proprio Sé, la durata che connette il Sé al Sé e agli altri in un’unità di senso, compito di certo non semplice, ma sempre possibile, nella misura in cui non si determina mai la propria sostanza etica una volta e per tutte e in modalità già sempre “uguali” in tutti i rappresentanti di una determinata configurazione etico-normativa.

2) Il modo di assoggettamento mediante il quale il Sé contemporaneo è spinto a operare per la propria condotta morale è quello che viene definito quantified self: con questa espressione, occorre intendere una maniera molto specifica di lavoro quantitativo sul proprio Sé mediante l’utilizzazione di una serie di dispositivi e sensori capaci di controllare (e quantificare) tutta una serie di aspetti performativi del proprio corpo e della propria “anima” (peso, livello di energia, umore, tempi di utilizzo, qualità del sonno, salute, performance cognitiva, atleticità, strategie di apprendimento, e così via) – una vera e propria analisi della vita quotidiana che dovrebbe aiutare la persona a costruire l’immagine del proprio Sé, ma che, proprio per il principio stesso del Dataismo, risulta essere anche il meccanismo mediante il quale si realizza nella maniera più limpida l’aspetto assoggettante. Secondo Han, infatti, «la mera massa di dati così accumulata non risponde però alla domanda: Chi sono io?»[17], ma piuttosto facilita le dinamiche delle relazioni di potere neoliberiste in quanto colui che si soggettiva/assoggetta quantificando il proprio Sé produce una quantità di dati che circolano e che possono essere gestiti in maniera tale da identificare le caratteristiche performative di una data persona, anche in vista dell’assunzione sul posto di lavoro. La quantità di dati che una persona produce su sé stesso rappresenterebbe una forma di interiorizzazione del panottico di benthamiana memoria: il soggetto si duplica e diviene allo stesso tempo il controllore e il controllato, lasciando poca possibilità di “sfuggire”. La necessità di gestire sé stessi in maniera quantitativa e performativa ha la sua origine nello specifico modo mediante il quale il regime di pensiero neoliberista pensa l’umano: se l’uomo deve essere imprenditore di sé stesso, accumulando e reinvestendo il proprio capitale umano, è chiaro che debba valutare tutti i rapporti costi/benefici e gestire il “rischio” di impresa – nel caso, anche identificare la maniera migliore per “sfruttare” sé stessi. Il modo di assoggettamento dominante, dunque, produce quella parte del proprio Sé intorno alla quale è possibile raccogliere dati quantitativi e questa dinamica si palesa ovviamente in maniera molto limpida nel Dataismo; è chiaro, però, che questa raccolta di dati e questa autovalutazione delle proprie performance non sia un dispositivo neutro, ma decisamente interessato: calcolare quante calorie abbiamo bruciato durante l’ultima passeggiata non è diverso da quanto accade nella “nuova” burocrazia[18] che, nei sistemi neoliberisti, lungi dall’essere ridotta e semplificata, semplicemente sposta il suo asse d’interesse – come dice in maniera molto limpida Mark Fisher «la nuova burocrazia non è più una funzione delimitata e specifica portata avanti da determinate figure professionali, ma invade ogni area del lavoro col risultato che – come pronosticato da Kafka – i lavoratori diventano i controllori di se stessi, obbligati a valutare le proprie stesse prestazioni»[19]. Il vero elemento che avvicina le due procedure, oltre all’interiorizzazione del panottico, è l’esigenza di pubblicizzazione di quanto identificato e “calcolato” sul Sé: si tratta della produzione di una dimensione di “responsabilità”, per cui il Sé è responsabile innanzitutto dinanzi al proprio Sé; responsabilità e, ovviamente, “colpa”: il processo di interiorizzazione porta al fatto che colui che si trova a fallire ritrovi soltanto se stesso come “colpevole” e “responsabile” – si tratta di un dispositivo mediante il quale il modo di assoggettamento alla sostanza etica del Sé è l’unica fonte di successo o di fallimento: una volta atomizzate anche queste dinamiche, la solitudine dell’uomo contemporaneo rischia di divenire assoluta – solitudine anche dinanzi al proprio Sé. Ma il modo di assoggettamento non è mai univoco anche se, per definizione, “dominante”: occorre lavorare negli “interstizi”, ri-moltiplicare la complessità del reale, essere “creativi” nel ri-plasmare la propria soggettivazione, definendo vie di fuga e ri-costruzione.

3) L’elaborazione del lavoro etico non riguarda semplicemente la capacità di obbedire a una richiesta normativa – nel nostro caso: la quantificazione del Sé, l’auto-ottimizzazione, la prestazione, l’autovalutazione e così via – ma soprattutto la maniera mediante la quale il Sé si trasforma in soggetto morale della propria azione. Il problema che viene fuori nell’epoca del Dataismo riguarda essenzialmente il secondo elemento: agire sui social non è agire nel “sociale”, così come raccogliere e pubblicizzare dati su stessi non rappresenta un tipo particolare di azione morale (“bruciare calorie”, ad esempio, non lo è immediatamente), eppure entrambe queste dinamiche sono alla base dell’elaborazione che il Sé fa del proprio agire e si presentano come fondamento della trasformazione in soggetto morale. Innanzitutto, la raccolta dati su stessi: lo abbiamo già visto, i dati, per quanto possano essere innumerevoli e prodotti da noi stessi, non costituiscono il Sé come soggetto, perché mancano di narrazione e temporalità, eppure definiscono la maniera mediante la quale ci si aspetta – da parte delle aziende che lavorano sui big data – che il Sé si comporti: non è più una elaborazione consapevole e interiore, ma una elaborazione esteriore, per conto di terzi, per cui si può diventare “spazzatura”[20] o altro, al di là della consapevolezza (“elaborazione”) che si ha di sé stessi. In secondo luogo, la stessa dinamica dei social – soprattutto per quanto concerne la posizione particolare dell’anonimato come funzione di essi – non permette la trasformazione in soggetto morale della propria azione: shitstorm, macchine del fango, violenze e ferocie verbali, all’interno di un mondo che si presenta come “virtuale”, producono nel soggetto una sorta di illusione ottica: da un lato, infatti, il Qualcuno dei social, sentendo di vivere in un mondo “virtuale” e protetto, non comprende il senso complessivo e non sente la responsabilità concreta di quanto afferma o diffonde; dall’altro, però, le “azioni” sui social non restano soltanto “virtuali” ma si “attualizzano” nel mondo “reale” producendo effetti di ritorno, che però sono vissuti come del tutto distaccati dall’azione social. Ancora una volta, la necessità è quella di ritornare al concetto complesso di “causazione” (insomma, la teoria non è ancora morta). L’elaborazione del proprio lavoro etico può realizzarsi – in tempi di Dataismo – non soltanto recuperando la dimensione temporale e narrativa del proprio Sé, e la ricchezza della creatività e del novum non immediatamente messi a profitto, ma anche slegando la realizzazione del Sé dalle dinamiche performative (nelle quali la colpa è sempre “propria”) e comprendendo il valore del proprio agire nella costruzione della comunità (nella quale la “responsabilità” o le “colpe” non sono mai del tutto individuali o del tutto collettive).

4) Infine, la teleologia: qualunque azione morale non risponde soltanto ai criteri di risposta a determinate richieste normative, ma va inserita all’interno di una condotta complessiva, che determina il modo di essere del soggetto morale. Sembra essere oramai chiaro come questo sia il punto per certi versi nevralgico: qualunque teleologia, qualunque finalità, qualunque modo di essere implica una narrazione o una durata, mediante la quale quel comportamento acquisisce “senso” all’interno di una condotta complessiva, acquisisce senso e non solo, produce effetti nella stessa condotta e nella stessa costituzione morale del soggetto – ogni azione non si somma semplicemente alle altre, ma ha effetti di differenziazione e accrescimento su quelle successive: la durata esistenziale è alla base della possibilità di identificare gli elementi fondamentali di una condotta e dunque di un modo di essere specifico di un soggetto morale; nell’epoca del Dataismo, sembra essere proprio questo l’elemento che scompagina tutto: secondo la terminologia goffmaniana, l’identità sociale, l’identità personale e l’identità dell’Io sono polverizzate, dopo essere state attraversate da un piano obliquo, ed è proprio l’identità a venire meno, in quanto non può mai essere una mera sommatoria di “atomi a-temporali di correlazione”.

In questo senso, intendiamo chiudere con una breve riflessione sul populismo – sul problema della costruzione del “Noi” ai tempi del Dataismo: secondo Villacañas Berlanga[21], filosofo spagnolo, esso rappresenta la forma politica adeguata al neoliberismo – le nostre note intendono portare avanti il discorso e mostrare come siano proprio alcune dinamiche dataiste a mostrare questa connessione.

 

  1. Il populismo ai tempi del Dataismo

Il punto di partenza di Villacañas Berlanga è, se si vuole, “classico”: il regime neoliberista ha tratto la sua forza dall’atomizzazione della società e il populismo interviene proprio laddove si tratta di ricostruire un’omogeneità laddove regna soltanto un’eterogeneità assoluta. L’elemento innovativo del populismo sta nel come “inventa” il popolo, nelle strategie che mette in campo: non si tratta necessariamente di richiami fantasmatici a comunità nazionali (anche se spesso può “utilizzarli”), ma di un lavoro di produzione di un “oggetto” sociale, il popolo, inesistente ed esso stesso fantasmatico, portato avanti mediante «un gioco di rappresentazioni, di interventi culturali, di retoriche, di atti performativi»[22] – se il populismo è una costruzione, il suo strumento non può che essere il linguaggio; se lo strumento è il linguaggio, il populismo non può che utilizzare i nuovi media e i nuovi format comunicativi, per cui la sua particolarità sta nella «coscienza del fatto che è questa tutta la battaglia ed è necessaria la convergenza più rigorosa tra forme e contenuti della comunicazione»[23]. Seguendo il nostro percorso, a noi interessa mostrare qual è l’interpretazione di Villacañas Berlanga sulla forma-di-vita o soggettività cui il populismo si rivolge e che tende a ri-produrre.

«Il populismo» dice Villacañas Berlanga «identifica un’epoca dell’umanità senza limiti temporali, caratterizzata dalla carenza di alternative nell’immaginare nuovi orizzonti»[24]: la politica populista lavora sulla “crisi organica” del capitalismo finanziario, che viene vissuta come un dispositivo eternizzante, dal quale non è possibile mai del tutto uscire (di nuovo l’adagio: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo…) – il populismo necessita della crisi e della mancanza di una risposta sociale per proliferare: la rivoluzione, l’irruzione dell’evento, la trasformazione radicale dell’esistente non appartengono al suo orizzonte o, per meglio dire, non possono appartenere al suo orizzonte nella misura in cui verrebbe meno la sua funzione. In questo senso, il populismo risulta essere il contraltare del neoliberismo anche dinanzi al problema della “storia”: la formula “fine della storia”, infatti, può essere utilizzata anche per descrivere l’orizzonte all’interno del quale acquisisce senso una politica populista. L’impossibilità di immaginare un processo rivoluzionario e costituente rappresenta un portato che abbiamo visto agire anche all’interno della soggettivazione del Sé ed è un dispositivo proprio del Dataismo: quest’ultimo è l’unico discorso possibile all’interno di un mondo senza più storia e che non intende più produrre analisi complesse di costruzione di senso e orizzonte. L’assenza di temporalità e di narrazione – come abbiamo visto – sono caratteristiche dei processi di soggettivazione dataista, l’altro meccanismo che entra in gioco è l’esaltazione dell’elemento emotivo nell’auto-rappresentazione del Sé: il tipo di comunicazione che è alla base dei social – e che è, allo stesso tempo, quella che rappresenta la strategia “linguistica” del populismo – è di tipo emotivo, una scossa immediata, la mancanza di riconoscimento con l’interlocutore (dunque, onanismo sociale), un’esplosione senza controllo, la distruzione di ogni organizzazione argomentativa del discorso, l’impossibilità dell’interazione. Anche in questo senso si coglie come il presupposto antropologico alla base del populismo sia la formazione di una “folla virtuale” che agisce mediante una continua esaltazione e intensificazione degli aspetti emotivi: la comunicazione deve indurre un’emozione non un ragionamento; le passioni devono essere forti, la paura certamente, la mancanza di orizzonti anche, ma soprattutto tutto ciò che richiama un rischio connesso a una “temporalità” che non si riesce a controllare e tutto ciò che denota «un’umiliazione dovuta al principio di realtà»[25]. Se la dimensione della comunicazione social e l’intensità della costruzione del Sé si gioca sempre sul limite di un’emotività e sentimentalità portate alle estreme conseguenze, è chiaro come la soluzione non venga più intravista nella “quiete” del ragionamento o nei presupposti organizzativi di una risposta intellettuale. Il soggetto dataista trascorre la sua vita a quantificare la propria esistenza e presenza nel mondo, gioca la sua forza di comunicazione all’interno di una già sempre esasperante emotivamente interazione social, sente che, in un’esistenza giocata nella tensione tra una colpa individuale e un intervento dei “poteri forti”, l’unica “soddisfazione” può trovarsi in una sensazione di forza e di autostima, che unica può rendere possibile la costruzione di un “Noi”. Se abbiamo usato sociologi e filosofi per inquadrare i meccanismi di soggettivazione/assoggettamento, adesso occorre utilizzare lo psicanalista Freud per cercare di inquadrare, invece, quale debba essere la tendenza psichica più adatta alla determinazione della moltitudine dataista/populista. Ancora una volta, secondo Villacañas Berlanga, occorre essere giusti con Freud:

1) esistono due pulsioni: morte e piacere;

2) la pulsione di piacere ha un oggetto originario, il narcisismo;

3) il narcisismo subisce ferite durante l’infanzia, per cui questa energia si dirige verso oggetti esterni – genitori, maestri, amici;

4) l’identificazione con altre persone avviene per un principio di idealizzazione;

5) queste idealizzazioni si cristallizzano in un Io Ideale;

6) man mano che il soggetto si avvicina a questo Io Ideale ritrova la sua soddisfazione narcisistica;

7) quando il soggetto non riesce a forgiare un Io Ideale verso cui tendere, allora è condannato a restare ancorato a oggetti idealizzati, la dipendenza affettiva è un esempio – «il populismo crede che con le adeguate tecniche retoriche, questo fallimento nella costruzione della personalità possa suturarsi mediante l’identificazione con un leader comune»[26];

8) «Genitori e ambienti sociali con un Ideale dell’Io molto debole producono identificazioni che non hanno neppure una gran capacità di rielaborare pulsioni. Così, il narcisismo originario si vede poco umiliato e il soggetto non sottopone a critica quasi nessun aspetto della sua personalità (…) la tesi di Freud direbbe che quanto più elementare e narcisistica è la costruzione della soggettività, tanto più è facile che il leader sia accettato con un’identificazione piena»[27] – è come se il populismo ritenesse che è proprio l’apparato psichico a dimostrare la necessità di un leader forte;

9) secondo Freud, comunque, gli uomini dotati di un Io Ideale ben strutturato sono in grado di sostituire un leader con un’idea astratta.

Il Dataismo e il populismo, dal punto di vista di un processo di soggettivazione, sarebbero forme che riproducono il meccanismo narcisista e che fanno sì che l’individuo non raggiunga mai la maggiore età, persistendo in un meccanismo che, da un lato, gli dà forza e autostima, dall’altro gli presenta il conto – spesso e volentieri – della miseria della sua vita. Non c’è paradosso: se il neoliberismo polverizza il sociale e il Dataismo arriva a polverizzare il Sé come un insieme di atomi a-temporali di correlazione, il populismo crea un “Noi” a partire da un tipo particolare di personalità che sente affine e che «sarà sempre più numeroso nelle società che vivono in un regime neoliberista» in quanto «il liberismo, producendo uomini economici, il cui tratto identitario è il calcolo individuale, è una fabbrica di esseri umani che bramano vincoli affettivi»[28].

Il Dataismo sul piano epistemologico, il neoliberismo sul piano economico e il populismo sul piano politico sembrano indicare una sorta di morsa all’interno della quale l’individuo moderno, infantilizzato e colpevolizzato, nevroticamente emotivo e poco accorto intellettualmente, non può che agitarsi senza la possibilità di costruire una narrazione individuale e collettiva capace di richiamare la potenza della trasformazione radicale e del novum: in questo senso una rinnovata “cura del Sé” (in senso foucaultiano) e una ricerca di dispositivi atti a costruire una sorta di “cura degli altri” (in senso anti-dataista, anti-liberista e anti-populista)non può che essere una – seppur parziale – ricetta, tutta da indagare teoreticamente e tutta da realizzare dal punto di vista di una prassi rivoluzionaria allo stesso tempo esistenziale e politica.


[1] Se ne parla in maniera ragionata in questo articolo: https://www.forbes.com/sites/bernardmarr/2016/08/25/the-most-practical-big-data-use-cases-of-2016/#4e82ca0d3162

[2] «Il Dataismo si rivela un Dadaismo digitale. Anche il Dadaismo rinuncia a ogni nesso di senso. Il linguaggio viene svuotato completamente di senso» (B.-C. Han, Psicopolitica (2014), tr. it. nottetempo, Milano 2016, p. 70).

[3] Cfr. C. Anderson, The end of theory: the data deluge makes the scientific method obsolete, liberamente consultabile al seguente indirizzo: https://www.wired.com/2008/06/pb-theory/.

[4] Ibid. La traduzione è nostra.

[5] Può essere utile sottolineare che non si lavorerà, in questo contesto, a partire dalla costruzione cognitiva del Sé, ma a partire dalla sua costruzione morale. Dunque non ci si chiederà se la rete ci renderà stupidi; su quest’ultimo tema cfr. D. de Kerckhove, La rete ci renderà stupidi? (2014), tr. it. Castelvecchi, Roma 2016, si tratta di una conferenza di risposta a un noto testo di N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (2010), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2011.

[6] Cfr. E. Goffman, Stigma. L’identità negata (1963), tr. it. Giuffrè Editore, Milano 1983. Il sociologo lavora ovviamente intorno alla questione del portatore di stigma, ma la sua analisi tipologica può essere comunque assunta anche per quanto riguarda il non-portatore di stigma.

[7] Ibid., pp. 1-2.

[8] Come dice Byung-Chul Han: «L’homo digitalis è tutt’altro che un “Nessuno”: egli conserva la sua identità privata persino quando si presenta come parte dello sciame. Si esprime in modo anonimo, ma di norma ha un profilo e lavora senza posa all’ottimizzazione di sé. invece di essere “Nessuno”, è insistentemente Qualcuno che si espone e ambisce all’attenzione […] non è un Nessuno, bensì un Qualcuno, e precisamente un Qualcuno anonimo» (B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale (2013), tr. it. nottetempo, Milano 2015, pp. 23-24).

[9] Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005, soprattutto pp. 176-258.

[10] Cfr. B.-C. Han, Psicopolitica, cit., pp. 29-38.

[11] Cfr. L. H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton (a cura di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault (1988), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 11-47.

[12] Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), tr. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 30-37.

[13] Cfr. B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 37

[14] Il sistema di pensiero di Byung-Chul Han presenta una serie di “problemi”: innanzitutto, uno stile apodittico, quando invece qualche argomentazione in più ci vorrebbe (ad esempio: mica tutti i soggetti si sottomettono entusiasticamente alle richieste normative del neoliberismo, anzi! – tra l’altro è lo stesso Han a parlare in altri luoghi di burnout e altre “patologie” tipiche del tempo del Dataismo/neoliberismo); in secondo luogo, la costruzione di un dispositivo di pensiero che si fonda su postulati indimostrabili, quali (ad esempio) la trasformazione del soggetto in progetto (laddove per “progetto” deve intendersi “imprenditorialità di se stesso”), l’impossibilità del superamento della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, per cui il neoliberismo fa in modo che la lotta di classe si posizioni all’interno della psiche individuale (sfruttatore/sfruttato). Si rimanda alla nostra recensione di Psicopolitica, contenuta in questo fascicolo.

[15] B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 22.

[16] Cfr. M. Fisher, Realismo capitalista (2009), tr. it. Nero, Roma 2018, pp. 119-120.

[17] B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 72.

[18] Un esempio molto chiaro lo si può trarre facilmente dalle trasformazioni che sono state introdotte negli ultimi anni all’interno del mondo della scuola e dell’università; chiunque lavori in una di queste due istituzioni se ne sarà ampiamente reso conto.

[19] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., pp. 105-106.

[20] «Acxiom [azienda statunitense di elaborazione di big data] sa più cose sui cittadini statunitensi di quante non ne sappia l’FBI: nel suo catalogo, i cittadini sono offerti come merce […] le persone con un basso coefficiente economico sono indicate con il termine waste, “spazzatura” […] I big data inaugurano una nuova società digitale di classi. Gli esseri umani catalogati nella categoria “spazzatura” appartengono alla classe più bassa: a chi si assesta su punteggi ridotti vengono negati i prestiti» (B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 78).

[21] Cfr. J. L., Villacañas Berlanga, Populismo (2015), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2017.

[22] Ibid., p. 34.

[23] Ibid., p. 35.

[24] Ibid., p. 65.

[25] Ibid., p. 66.

[26] Ibid., p. 67.

[27] Ibid., p. 68.

[28] Ibid., p. 72.

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