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Il dato come esperienza religiosa. Note sulla condizione spirituale delle società ipermoderne

Autore


Alessandro De Cesaris

Università degli Studi di Napoli Federico II

svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Introduzione
  2. Informazione e coscienza ipermoderna
  3. Big data e religione
  4. Conclusione

 

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S&F_n.  20_2018

Abstract


DATA AS RELIGIOUS EXPERIENCE. SOME REMARKS ON THE SPIRITUAL CONDITION OF HYPERMODERN SOCIETIES


The paper investigates the relationship between ICTs (Information and Communication Technologies) and religion. The focus is not how religions and religious life has changed thanks to technological evolution, but rather how it is possible to interpret our relationship to technology as a kind of religious experience. The paper starts from the notion of “hypermodernity” and tries to offer a comprehensive theoretical frame in order to interpret the changes occurred in Western societies after the so-called “fourth revolution”. According to this frame, technology has had a pivotal role in the cultural changes that led to our present condition. ICTs are the source for a vast variety of shared beliefs, hopes and fears; they are at the core of the present world-view of Western societies. Starting from this interpretation, the paper offers a brief analysis of some myths connected to ICTs, and develops an attempt to understand their function in the social and cultural context.

On est bien près de tout croire quand on ne croit rien.

Chateaubriand, Génie du Christianisme

 

  1. Introduzione

Interrogarsi circa il nesso tra tecnologia e religione significa inquadrare il fenomeno religioso in chiave storico-culturale a partire da una tesi ben precisa, che vede nella configurazione tecnologica di una società uno degli aspetti determinanti per comprenderne la struttura, il tessuto simbolico, la produzione culturale e le modalità di formazione dei legami sociali. Da più di mezzo secolo la teoria dei media esplora criticamente questo punto di vista, concentrandosi tuttavia raramente in modo esplicito sulla dimensione strettamente religiosa[1].

D’altra parte, invece, gli studi sulla religione in chiave storico-culturale possono ormai contare su una tradizione consolidata, che da tempo ha individuato in modo netto uno stretto legame tra il piano delle credenze condivise e dimensione sociale in tutte le sue forme, da quella culturale a quella economica a quella politica. Proprio in questo contesto, ovvero – sinteticamente – nell’ambito degli studi che tentano di cogliere il nesso tra questione religiosa e modernità, si è registrato negli ultimi decenni un certo cambiamento di rotta, o quantomeno un’integrazione rispetto ad alcune posizioni diventate ormai classiche.

La tesi weberiana del “disincanto del mondo” (Entzauberung), che aveva posto i processi di razionalizzazione e tecnicizzazione della vita sociale ed economica alla base della svolta moderna, è stata ridiscussa a partire da analisi che riconoscono nel tempo presente processi di reincantamento, e dunque di recupero di una dimensione quasi-religiosa all’interno della vita pubblica[2].

Un effetto di questi processi è la messa in questione della tesi della secolarizzazione come chiave di volta dell’evoluzione della cultura occidentale negli ultimi secoli. Come nel caso della Entzauberung weberiana, anche la nozione di “età secolare” è stata rielaborata, producendo l’idea di una società “post-secolare”[3]. A questo proposito è utile notare che questi due concetti – il post-secolarismo e il reincantamento – non si limitano a negare le nozioni di disincanto e di secolarizzazione, ma piuttosto si propongono come loro sviluppi e approfondimenti, seppure in una direzione inaspettata[4].

Questo avvicendamento intellettuale si intreccia con altri due problemi strettamente legati. Il primo è il già richiamato problema della modernità, al quale ha fatto seguito un proliferare di proposte concettuali volte a cogliere gli sviluppi più recenti della cultura occidentale. La nozione di postmoderno è solo la prima di queste, alla quale hanno fatto seguito l’idea di ipermodernità, di seconda o tarda modernità, di ultramodernità o surmodernità[5]. Si tratta di nozioni spesso non definite chiaramente e utilizzate in modo molto diverso da autori diversi. Tuttavia, un aspetto senz’altro determinante di queste nozioni rispetto alla categoria di “post-moderno” è che se quest’ultimo si definiva in termini essenzialmente negativi – a partire dall’idea di “fine delle grandi narrazioni” in Lyotard, ad esempio – le nozioni di ipermoderno, ultramoderno o surmoderno tentano di acquisire spessore concettuale fornendo determinazioni positive a partire dalle quali delineare i tratti fondamentali dell’epoca presente.

Un secondo aspetto centrale è la nozione di religione. Si tratta di una nozione plastica, che non permette di identificare il piano religioso con quello delle chiese e delle istituzioni, ma che richiede anzi una più estesa attenzione al piano delle credenze condivise[6], alla componente degli immaginari sociali[7] e delle “mitologie” attive nello spazio pubblico[8].

L’obiettivo di questo saggio è porre le basi per una messa a tema del problema religioso alla luce di quella che verrà chiamata “condizione ipermoderna”. Come si vedrà, la chiave di lettura proposta individua le caratteristiche fondamentali dell’ipermodernità alla luce di quella che è stata chiamata “rivoluzione dell’informazione”[9], ponendo dunque il problema degli ultimi sviluppi del moderno dal punto di vita della filosofia della tecnica, e più precisamente in chiave mediateoretica. Questo approccio si presenta come una rigorizzazione di un tentativo che è stato già portato avanti in più studi, anche molto fortunati, riguardanti il significato culturale dell’evoluzione tecnologica, studi che anzi hanno esplicitamente riformulato il problema della tecnologia nei termini di una vera e propria filosofia della storia[10].

Più nello specifico, si tratterà di mostrare in che modo la riconfigurazione ipermoderna della cultura occidentale produce nuovi modi di avvicinarsi alla religione, di intenderla e di praticarla, ma anche nuovi contenuti religiosi in senso proprio. A partire da queste premesse teoriche, e data l’ipotesi di ricerca, il fine sarà quello di mostrare che le teorie del reincantamento e della società post-secolare possono essere ricomprese in una più generale considerazione del nesso tra modernità e tecnologia, integrando quella che spesso è una mera impostazione descrittivo-fenomenologica all’interno di un quadro ermeneutico-critico. Proprio per questa ragione, in questa sede non si procederà a un’analisi estesa del fenomeno religioso, ma piuttosto si tenterà di esplicitare un modello teorico a partire dal quale impostare l’analisi stessa.

 

  1. Informazione e coscienza ipermoderna

Una determinazione compiuta della categoria di “ipermoderno” non rientra tra gli obiettivi di questo saggio. Pertanto, ci si limiterà a fornire alcune indicazioni generali circa il modo in cui questa nozione è utilizzata, ma soprattutto circa due aspetti: da un lato si presenterà brevemente il senso in cui si parla di una “condizione ipermoderna”, e dunque la modalità specifica con cui si inferisce un nesso tra condizione socio-culturale e tecnologia; dall’altro lato si presenteranno sinteticamente i tratti fondamentali di questa stessa condizione, appunto non con l’obiettivo di presentare un’analisi esauriente, ma per ragioni puramente funzionali.

 

2.1. Cultura e tecnologia

Per quanto riguarda il primo aspetto, gli effetti della riconfigurazione tecnologica – in particolare, in questo caso, della cosiddetta “rivoluzione dell’informazione” – si registrano su tre livelli distinti. Un primo livello è quello individuale, connotato dal punto di vista antropologico e psicologico. Le tecnologie digitali hanno effetti significativi sulle funzioni cognitive dell’individuo, sulla sua capacità di abitare, attraversare e simbolizzare lo spazio. A questo primo livello, ad esempio, è fondamentale tenere in considerazione il carattere protesico delle tecnologie digitali, che hanno indotto alcuni studiosi a individuare nella tecnologia un elemento di ibridazione con la mente e il corpo individuali, fino a parlare di “mente estesa”[11]. Questa estensione, d’altra parte, controbilancia un effettivo potenziamento con dinamiche di delega cognitiva e operativa sempre più potenti, il cui effetto può essere interpretato al tempo stesso come una forma di liberazione o di schiavitù[12].

Un secondo livello è quello sociale, ed è il più immediatamente evidente: le tecnologie digitali hanno rideterminato il modo in cui comunichiamo, le modalità di scambio e di diffusione della cultura, ma anche le modalità di aggregazione e di produzione del tessuto sociale, i processi di soggettivazione e di produzione dell’identità (basti pensare, a questo riguardo, alla complessificazione del problema dell’identità personale alla luce della proliferazione di profili social e account sul web)[13]. A questo proposito, è della massima importanza prendere in considerazione le nuove dinamiche con cui si formano legami comunitari, dal momento che il problema comunitario è di centrale importanza per comprendere alcuni aspetti determinanti della dimensione religiosa[14].

Un terzo e ultimo livello è quello più propriamente spirituale, che riguarda cioè la sfera intellettuale e le dinamiche di produzione della conoscenza. A questo livello non importa semplicemente mostrare in che modo la tecnologia riesce a costituire un “supporto” per la ricerca scientifica o per la diffusione della cultura e del sapere. In modo molto più pregnante, piuttosto, si tratta di mostrare in che modo il contenuto stesso del sapere, il suo oggetto e le modalità con cui esso viene presentato risentono della configurazione tecnologica vigente.

Come è facile da vedere, questa triplice scansione è ancora modellata sulla base della distinzione hegeliana tra spirito soggettivo, spirito oggettivo e spirito assoluto. Conservando questo riferimento, il problema religioso rientra a pieno titolo nella terza dimensione, che non riguarda esclusivamente la produzione di sapere scientifico o accademico, ma qualsiasi ambito intellettuale impegnato nell’elaborazione di una visione complessiva della realtà (l’arte, la religione). La rilevanza dello schema proposto, tuttavia, risiede precisamente nell’interconnessione dei tre ambiti, che non vengono semplicemente registrati come tre distinte “sfere d’influenza” della tecnologia, bensì come conformazioni reciprocamente dipendenti. Ciò significa che una comprensione soddisfacente delle modalità con cui il fenomeno religioso si registra nell’epoca ipermoderna deve fondarsi su una considerazione opportuna delle modalità con cui la tecnologia rimodella la vita e la coscienza individuale, ma anche il tessuto sociale e la sfera pubblica.

 

2.2 Tratti dell’epoca ipermoderna

Passando alla determinazione positiva dei tratti fondamentali della condizione ipermoderna, si è anticipato che questi tratti, a differenza di quanto avveniva nelle teorie del postmoderno, hanno un carattere “positivo” e non registrano semplicemente la “perdita” di tratti considerati caratteristici della modernità. In realtà il tratto caratteristico dell’ipermodernità è una dialettica più complessa, che in prima battuta si presenta come un superamento di tre elementi caratteristici della modernità: la distanza, l’identità e la prospettiva.

Questo superamento non va inteso, hegelianamente, come una Aufhebung, ovvero come un processo complesso di conservazione e disattivazione. Infatti il ritmo caratteristico della svolta ipermoderna non consiste in una semplice “conservazione” di ciò che viene superato, ma in una sua ipertrofizzazione: il prefisso “iper”, oltre a rimandare a un elemento ricorsivo, rimanda infatti precisamente a una componente fondamentale e trasversale delle dinamiche proprie del tempo presente, ovvero l’eccesso quantitativo.

Sulla base di questa proposta teorica, comprendere l’ipermodernità significa esplicitare il senso per cui distanza, prospettiva e identità al tempo stesso proliferano – si espandono e moltiplicano quantitativamente – e si disattivano.

 

2.2.1 Distanza

Per quanto riguarda la distanza, si tratta forse dell’aspetto più evidente: a partire dalle grandi scoperte geografiche e dalle conquiste della cartografia, la modernità si è determinata progressivamente come conquista della distanza[15]. Rispetto a questo processo, la società dell’informazione è dominata da una nuova forma di immediatezza, immediatezza che in prima battuta si presenta come un annullamento della distanza[16]. Non è un caso, infatti, che la metafora immersiva sia uno degli strumenti teorici più utilizzati per riferirsi all’uso dei media digitali – se non alla realtà virtuale, ancor più radicalmente interpretata in questo senso[17]. Il superamento della distanza riguarda dunque non solo la banale circostanza che la comunicazione è diventata pressoché simultanea, e che l’evoluzione dei trasporti e delle tecnologie di stampa ha permesso spostamenti sempre più veloci. La questione riguarda innanzitutto l’esperienza del soggetto, in cui l’aspetto aptico assume una rilevanza sempre maggiore[18].

Se ciò è vero, è altrettanto vero che questo superamento della distanza si ottiene in unione a uno smisurato aumento delle distanze: qualsiasi scambio, anche il più immediato, avviene sulla base di tecnologie funzionanti grazie all’invio di segnali su distanze planetarie. Il paradosso dell’ipermodernità si registra proprio in questo elemento: la distanza non viene superata perché ridotta, come in una corsa verso una meta, bensì essa viene superata proprio nel proliferare ed espandersi delle distanze. Non solo la nostra società è determinata dal percorrimento di distanze sempre maggiori, ma sembra oltretutto che qualsiasi scambio e interazione richieda tali distanze. La distanza viene disattivata, ma con il subentrare di questa esperienza è proprio la semplice prossimità che viene del tutto obliterata[19]. L’immediatezza ipermoderna non è un’immediatezza semplice, ma è una forma di ipermediazione.

 

 

2.2.2 Identità

Un discorso simile riguarda la questione dell’identità. La modernità ha posto in modo radicale la questione del soggetto, così come dell’identità individuale a fronte della collettività rappresentata dalla dimensione comunitaria e dallo stato. Le teorie della postmodernità avevano registrato una crisi della soggettività e dell’identità personale, declinando questa perdita ora in senso nichilistico, ora ponendo l’accento sull’effetto spersonalizzante delle società altamente industrializzate[20]. Le analisi postmoderne sono attraversate da una forte contraddizione, che consiste nell’accentuare al tempo stesso la corrosione del legame sociale – e dunque l’esplosione di un forte individualismo – e la perdita di significato del soggetto in nome di dinamiche di tipo tribale o comunitario.

Questa contraddizione non è dovuta a un errore nell’analisi, ma rappresenta piuttosto in modo fedele la condizione paradossale dell’ipermodernità: non esiste contraddizione tra identitarismo e perdita del soggetto, perché è proprio la proliferazione e la moltiplicazione indefinita delle identità che produce la perdita della soggettività. L’individuo ipermoderno, in altri termini, non perde la propria identità perché perde la fede nel senso del soggetto, ma esperisce una nuova forma di soggettività caratterizzata da una condizione in cui l’identità è al tempo stesso ipertrofica e disattivata, infinitamente riproposta e incapace di determinare il soggetto come avveniva in precedenza. Il soggetto ipermoderno non si determina a partire dall’appartenenza a una comunità – una corporazione, un partito, un’azienda – che lo rappresenta, ma appartiene a innumerevoli communities la cui funzione non è quella di determinare in modo conclusivo la sua identità[21].

Un discorso simile è possibile con le cose, ovvero con gli oggetti inanimati. Nel passaggio dall’artigianato all’industria, l’oggetto prodotto perde la sua identità individuale e acquista la connotazione di un ente infinitamente riproducibile. Nel mondo postmoderno la vita umana è corredata di una indefinita quantità di cose prive di una vera e propria identità individuale, e l’anonimato degli oggetti viene proposto come correlato dell’anonimato del cittadino di una società altamente industrializzata[22].

Con la società dell’informazione il discorso cambia: la perdita d’identità individuale della cosa è dettata dalla sua costituzione informatica. L’oggetto virtuale è appunto “virtuale”, esso è dematerializzato e dunque non può più essere individuato a partire dalle proprie coordinate spazio-temporali[23]. Propriamente, però, l’oggetto virtuale non è privo di identità: in esso l’identità – intesa come individuazione – è disattivata proprio in quanto infinitamente replicabile su un indefinito numero di piattaforme e attraverso una indefinita molteplicità di interfacce. Anche in questo caso l’identità dell’oggetto non è semplicemente negata, ma disattivata attraverso la sua indefinita proliferazione.

 

2.2.3 Prospettiva

L’ultimo elemento è quello della prospettiva. La modernità si è sviluppata come una cultura della prospettiva, anche quando ha immaginato i limiti di questa impostazione, ad esempio con l’idea di panopticon[24]. Le analisi postmoderne della società occidentale hanno registrato da un lato la fine delle grandi operazioni prospettiche – le “grandi narrazioni” di Lyotard – capaci di dare senso unitario alla realtà, e dall’altro il proliferare di prospettive particolari, incapaci di entrare in relazione le une con le altre. Questo uso del termine “prospettiva”, oltretutto, è altamente problematico, perché l’ideale prospettico presuppone l’esistenza di un oggetto unitario indagato da prospettive differenti, laddove le analisi postmoderne sembrano registrare esattamente la perdita di fede nell’esistenza di questo oggetto comune.

Rispetto a questo scenario, la condizione ipermoderna ripropone la stessa dialettica già presa in considerazione: la dimensione prospettica, ovvero l’idea di uno sguardo orientato in senso particolare rispetto a un oggetto, viene superata in quanto è al tempo stesso esasperata e disattivata. L’indefinito proliferare di prospettive individuali, la loro valorizzazione e il potenziamento della loro capacità espressiva, ha da un lato un chiaro effetto neutralizzante, in quanto la presenza di infinite opzioni e offerte di fatto blocca la scelta e ostacola la visibilità delle singole prospettive, dall’altro serve a nutrire processi automatizzati di analisi dei dati in cui i singoli elementi prospettici sono rilevanti solo in quanto dati da processare in chiave algoritmica[25].

Non è difficile mostrare, a partire dalla scansione in tre livelli appena proposta, che la distanza riguarda la dimensione dello spirito soggettivo, l’individualità quella dello spirito oggettivo e la prospettiva infine lo spirito assoluto. Questa scansione non può essere operata in modo netto, eppure permette di articolare il discorso nel modo seguente: una volta individuate queste tre caratteristiche come tratti fondamentali della coscienza ipermoderna, e una volta mostrato – pur sinteticamente – il loro nesso con la riconfigurazione tecnologica operata dall’informatica, in che modo è possibile sviluppare un’analisi relativa alla dimensione mitologico-religiosa della società?

 

  1. Big data e religione

È stato già rilevato che una stretta distinzione tra l’elemento religioso e l’elemento mitico non è da prendere in considerazione all’interno di questo saggio. E tuttavia, in prima battuta sembra certamente opportuno distinguere tra credenze diffuse – implicite o esplicite – che possono essere ricondotte a una generale “mitologia dell’informazione”, e vere e proprie forme di religiosità legate alla rivoluzione dei big data.

In realtà, una tale distinzione riposa su una concezione della religione che rischia di essere obsoleta per la condizione attuale delle società informatizzate. Così come un’applicazione del concetto di religione post-cristiano alle civiltà antiche rischia di produrre gravi fraintendimenti, l’idea che un’esperienza religiosa legata ai big data sia possibile solo nella forma di una religione istituzionale potrebbe mancare un cambiamento importante, che riguarda proprio la frammentazione del discorso religioso e il suo riassorbimento nel contesto sociale[26].

Detto questo, ovviamente, una distinzione tra l’aspetto “mitologico” della rivoluzione digitale e la dimensione più propriamente religiosa ha una sua utilità per quanto riguarda la mera articolazione del discorso. Per questa ragione, l’ultimo capitolo del saggio è diviso in due parti. Nella prima si prenderanno in considerazione elementi mitici legati alla rivoluzione informatica che si sono imposti nel contesto sociale; nella seconda invece si prenderà in considerazione il rapporto tra religione e ipermodernità in senso stretto.

 

3.1 Miti ipermoderni

Se la griglia analitica messa in campo per determinare i tratti fondamentali della coscienza ipermoderna è corretta, allora è a partire dalle tre caratteristiche salienti dell’ipermodernità – superamento della distanza, dell’identità e della prospettiva – che vanno individuate le derive mitologiche attualmente operanti nel contesto sociale, e dunque nel dibattito pubblico. Queste derive non vanno confuse con i semplici imperativi sociali impliciti nelle nuove tecnologie, o nel contesto economico in cui esse sono operanti. Non si tratta di esercitare una critica dei fini, ma di individuare le modalità con cui la coscienza ipermoderna produce miti condivisi.

Il primo mito è una diretta conseguenza del superamento della distanza, e dunque delle modalità immersive cui l’individuo è sottoposto nella sua relazione con la tecnologia. L’insistenza sempre più diffusa sulla centralità della tecnologia per la vita umana sta producendo, anche a livello accademico, proposte teoriche che puntano sull’ibridizzazione di uomo e tecnologia. La teoria della mente estesa, ad esempio, propone a tutti gli effetti di considerare gli strumenti tecnologici come estensioni dell’uomo, come sue parti, e di elaborare dunque una nuova teoria dell’umano che prenda in considerazione la strutturale compresenza di natura e tecnologia, di animale e artificiale. Il risultato di queste teorie è di porre fortemente l’accento sulla dimensione dell’enhancement, del potenziamento generato dall’uso delle protesi tecnologiche, che riguarda innanzitutto facoltà come la memoria, la sensibilità, la locomozione, a poi anche la capacità di elaborazione intellettuale e di calcolo[27].

Il problema di queste teorie è che, intendendo le protesi tecnologiche come estensioni, eliminano una dimensione centrale della dinamica protesica, riassunta da McLuhan con il riferimento alla “narcosi” e all’amputazione: la protesi è un potenziamento che, attraverso l’internalizzazione di pratiche legate all’uso delle protesi, esternalizza le facoltà proprie degli organi che naturalmente assolverebbero a quelle funzioni[28]. Questa esternalizzazione ha come effetto innanzitutto un indebolimento dell’organo stesso, il cui uso sempre più ridotto produce un depotenziamento che può risultare in casi estremi addirittura in un incancrenimento, ma soprattutto determina una dipendenza rispetto a oggetti che rimangono esterni all’individuo, e che in nessun modo possono essere considerati una parte di esso[29]. In questo senso, la metafora dell’inforg come nuovo statuto ontologico dell’uomo nell’era dell’informazione è solo l’ultima frontiera di un processo di mitopoiesi relativo al modo in cui effettivamente l’uomo interagisce con la tecnologia[30].

Come si è visto, il superamento della dimensione dell’identità riguarda tanto le persone quanto le cose. Allo stesso modo, due miti paralleli emergono dalla riconfigurazione dei processi di produzione dell’identità nella società dell’informazione. Dal punto di vista della soggettività, l’idea che l’identità personale sia determinata solo a partire da un flusso indefinito di informazioni, di adesioni e profilazioni conduce all’idea che possano esistere forme di soggettività di tipo artificiale, ovvero software o macchine automatizzate dotate di identità personale. Dopo la questione della soggettività animale, il problema della soggettività tecnica è approdato dai libri e dai film di fantascienza all’interno del dibattito accademico. Se da un lato può essere sensato affermare che la riconfigurazione tecnologica della società richiede un ripensamento radicale del senso della soggettività, è importante considerare che solo a partire da questo ripensamento è possibile comprendere il senso della questione relativa alla soggettività delle macchine senza banalizzarla o fraintenderla radicalmente.

Dal punto di vista delle cose, il mondo contemporaneo è attraversato dalla celebrazione del “virtuale” e dei processi di dematerializzazione che renderebbero sempre meno rilevante la dimensione materiale. Il web – ciò che una volta si chiamava cyberspazio – viene interpretato come una realtà parallela, dotata di coordinate spazio-temporali proprie e dominata da processi pressoché dematerializzati. Questa prospettiva, talvolta, viene radicalizzata al punto da suggerire l’idea che la realtà in quanto tale sia interpretabile in termini informatici, come se si trattasse di una simulazione creata digitalmente.

Questa radicalizzazione mostra la fallacia alla base di questo orientamento, che potrebbe essere considerato come una deriva della “software culture” descritta da Lev Manovich[31], e il cui problema sostanziale consiste precisamente nell’ignorare il necessario supporto hardware per qualsiasi software[32]. Lungi dall’essere una società dematerializzata, la società dell’informazione determina il passaggio da un modello materiale a un modello ipermateriale: il disattivamento dell’aspetto materiale degli oggetti, ovvero la loro virtualizzazione, è reso possibile solo da un uso continuo ed esasperato di materia, più propriamente dell’energia che serve a tenere accesi i server dove i dati sono conservati e gli strumenti su cui quegli stessi dati dovranno essere processati e visualizzati. La differenza tra un libro fisico e un e-book non è affatto la differenza tra un oggetto materiale e un oggetto dematerializzato, ma piuttosto la differenza tra un oggetto composto da una quantità definita di materia, e un oggetto la cui esistenza dematerializzata è resa possibile solo da un uso smodato e continuo di materia.

Infine, il superamento della dimensione prospettica ha generato fantasie epistemiche il cui culmine può essere individuato nel celebre articolo di Chris Anderson intitolato The End of Theory[33]. Secondo Anderson la rivoluzione dei big data indirizzerebbe verso una condizione in cui la presenza di quantità massicce di dati, e la capacità da parte delle macchine di analizzare i dati sulla base di molteplici parametri, renderebbe di fatto inutile l’elaborazione di modelli teorici. In questo modo la rivoluzione informatica porterebbe a una rivoluzione epistemologica sintetizzabile come una forma di conoscenza anermeneutica, completamente aprospettica e dunque assoluta[34].

Questo modello epistemologico, basato esclusivamente sull’idea di correlazione di dati, è frutto di una precisa chiave interpretativa, la cui prima caratteristica è di appiattire la conoscenza sull’informazione[35]. In modo omologo, la precomprensione della conoscenza a partire dal concetto di informazione fa sì che gli apparati informatici detentori delle maggiori moli di dati – Google, per fare un esempio noto – siano interpretati a tutti gli effetti come dei soggetti onniscienti, fino all’estremo di leggere in loro caratteristiche tradizionalmente associate con la divinità. Anche qui, d’altra parte, sarebbe possibile individuare una certa forma di appiattimento, il cui paralogismo costitutivo potrebbe essere formulato come segue: dal momento che la teoria dell’informazione permette una rilettura dell’intera realtà in termini di flussi di dati, e dal momento che Google possiede enormi quantità di dati, allora Google è onnisciente. Come in altri casi, la mitizzazione dei big data consiste da un lato nel dimenticare l’enorme quantità di aspetti della realtà ancora non sottoposti ad analisi dati, dall’altro nell’astrarre dal fatto che gli algoritmi che processano quelle informazioni sono programmati e soggetti a orientamenti molto potenti (su tutti, un modello di business)[36].

 

3.2 Religion online e online religion

Gli studi relativi al rapporto tra religione e tecnologia hanno già da qualche anno messo in rilievo l’importanza di interrogarsi sul modo in cui occorre intendere la religione alla luce dell’innovazione tecnologica[37]. La nozione occidentale e moderna di religione infatti, che parte dal presupposto di una divinità trascendente e di un’esperienza del sacro che vede una netta distinzione tra comunità dei fedeli e spazio pubblico, mal si adatta alla comprensione del modo con cui la cultura ipermoderna si rapporta all’evoluzione tecnologica. In questo rapporto, tuttavia, elementi prettamente religiosi sembrano essere chiaramente presenti: come Yuval Noah Harari ha notato in un fortunato libro, la cultura contemporanea si presenta come una forma di dataismo proprio nella misura in cui la nozione di “dato” si presenta come una visione del mondo normativamente orientata, capace di veicolare un’interpretazione globale della realtà. A ciò si aggiunge il fatto che il mondo digitale continua a generare in noi un senso di sorpresa, mantiene nella coscienza comune una configurazione strettamente legata a promesse di felicità, di miglioramento e finanche di immortalità. La tecnologia è awesome, in un senso che richiede di conservare nel modo più pregnante l’etimologia del termine inglese[38].

In questo senso, la distinzione proposta da Christopher Helland tra religion online e online religion[39] – una traduzione possibile sarebbe “religione sul web” e “religione del web” – permette di chiarire l’orientamento più fruttuoso per una considerazione approfondita del nesso tra religione e tecnologie informatiche. Il punto, insomma, non è stabilire in che senso l’evoluzione della tecnologia costituisca un’occasione o un pericolo per le religioni tradizionali, tema che interessa senz’altro lo scienziato delle religioni, ma che non è oggetto del presente saggio, ma piuttosto in che modo è l’evoluzione tecnologica stessa a essere oggetto di un atteggiamento di tipo religioso.

Rispetto a questo quadro le manifestazioni più smaccatamente religiose in senso tradizionale, ad esempio i tentativi di riconoscere la divinità di Google o la formazione di comunità online raccolte intorno a culti che trovano la propria origine in film o saghe, sono fenomeni del tutto esteriori[40]. Anche in questi casi, infatti, la presenza del web e le tecnologie digitali sono semplicemente un canale privilegiato di diffusione di un atteggiamento e di un insieme di credenze che di per sé non hanno alcun collegamento diretto con la rivoluzione informatica.

È per questa ragione che la distinzione tra “mito” e “religione” rischia di diventare pericolosa: attraverso questa distinzione si rischia di disconoscere il centro più vivo dell’atteggiamento religioso nei confronti della tecnologia all’interno delle società informatizzate. In questo senso, l’aspetto di maggior interesse del cambiamento culturale in atto sta proprio nel fatto che un modello di religione diverso da quello derivato dalla cultura cristiano-giudaica stia diventando utile al fine di comprendere il modo in cui la coscienza ipermoderna si rapporta al sacro.

Questo è l’aspetto centrale: la tecnologia è oggi fonte di sorpresa e spavento, essa è l’orizzonte entro cui l’uomo formula le proprie speranze di salvezza e di trascendenza[41]. Che queste speranze siano frutto di una mitizzazione della tecnologia, di una universalizzazione del suo compito e di un’esasperazione dei suoi risultati, è un dato saliente per comprendere il significato che la tecnologia sta assumendo all’interno della vita nelle società ipermoderne. Anche le modalità specifiche di questo rapporto, d’altra parte, varieranno sulla base della condizione poc’anzi descritta: in un contesto determinato dal superamento della distanza, dell’identità e della prospettiva è lecito immaginare un atteggiamento religioso improntato all’immanenza, incapace di produrre una soggettivazione in senso stretto – e dunque di conferire un’identità forte, un senso della vita – e non codificato in una visione del mondo articolata, in una dottrina che faccia da orientamento per la vita pratica.

 

  1. Conclusione

L’obiettivo di questo saggio era fornire alcune chiavi interpretative per ricostruire il legame tra tecnologia, orizzonte storico-culturale e dimensione religiosa. Come preannunciato, non è stato possibile effettuare un’analisi circostanziata del fenomeno religioso in sé, ma si è piuttosto trattato di mostrare in che modo la coscienza ipermoderna può essere interpretata come una forma di esperienza religiosa del dato. Il significato di una tale espressione è possibile solo a partire da una comprensione plastica del termine “religione”, nonché da un’analisi che sia capace di fornire un’interpretazione complessiva dei fenomeni sociali, dei modi di vita e delle forme di sapere vigenti nell’epoca contemporanea. Rispetto a un simile compito, il presente studio si pone al tempo stesso come un primo passo e come un tentativo di offrire un’impostazione metodologico-teorica di fondo[42].

Un ulteriore chiarimento necessario riguarda lo spirito con cui si è tentato di individuare degli elementi “mitologici” nel modo in cui le tecnologie informatiche sono state elaborate nei termini di una vera e propria visione del mondo, lasciando emergere degli immaginari sociali condivisi e più o meno evidenti alla dimensione pubblica. L’intento non è, chiaramente, quello di “denunciare” queste forme di comprensione e di elaborazione simbolica della tecnologia, tutt’altro: si tratta di mostrare in che modo i mutamenti tecnologici operano strutturalmente una riconfigurazione di questo tipo, che è al tempo stesso cognitiva e normativa, sociale e – fatalmente – politica. L’analisi di questi processi non si offre come una premessa teorica al fine di “emendare” il dibattito pubblico da esagerazioni, elementi mitici o forme di credenza ingiustificata, ma piuttosto come un punto di partenza per registrare i mutamenti in corso nel seno della società e della cultura, e per elaborare proposte teoriche, pedagogiche e politiche che tengano in giusto conto il significato culturale della tecnologia.


[1] Ciò precisando, chiaramente, che la religione e gli studi sulla religione hanno invece avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo della teoria dei media. Si veda ad esempio la tesi di Debray, secondo il quale l’angelologia è una forma ante litteram di teoria dei media. Cfr. R. Debray, Media Manifestos. On the Technological Transmission of Cultural Forms, Verso, London 1996; S. Krämer, Medium, Messenger, Transmission. An Approach to Media Philosophy, Amsterdam University Press 2015, p. 88 e sgg. Un’eccezione rispetto all’analisi proposta può essere individuata nel programma di ricerca della fondazione Bruno Kessler https://isr.fbk.eu/wp-content/uploads/2018/01/Religion-and-Innovation-Workshop-and-Lecture-Series-2018.pdf. Ringrazio Graziano Lingua per la preziosa segnalazione.

[2] Per una discussione dettagliata del problema vedi G. Lingua, Oltre il disincantamento del mondo? Sulla legittimità della categoria di “reincantamento”, in A. Martinengo (a cura di), Oltre il disincanto. Prospettive sul reincantamento del mondo, Aracne, Roma 2015, pp. 63-83. Un uso teoreticamente molto carico del termine “reincantamento” è stato fatto da Bernard Stiegler. Cfr. B. Stiegler, Reincantare il mondo, tr. it. Orthothes, Napoli 2012.

[3] Cfr. J. Habermas, A Post-Secular Society – what does that mean?, paper presentato a Istanbul a Giugno 2008 e disponibile al seguente link: < https://www.resetdoc.org/story/a-post-secular-society-what-does-that-mean/> (ultima visita 30 Novembre 2018); Id., An Awareness of What is Missing. Faith and Reason in a Post-Secular Age, ed. by C. Cronin, Polity Press, Cambridge 2008. Il campo dei post-secular studies è chiaramente molto più esteso rispetto alla posizione di Habermas, che è solo la più nota in campo filosofico. Per una panoramica completa si veda S. Gorski, D. Kyuman Kim, J. Torpey, J. Vanantwerpen (a cura di), The Postsecular in Question, New York University Press, New York 2012; G. Lingua, Esiti della secolarizzazione. Figure della religione nella società contemporanea, ETS, Pisa 2013.

[4] Vanno per esempio in questa direzione i lavori di Charles Taylor in merito alle trasformazioni della secolarizzazione e alle forme di reincantamento: cfr. Ch. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009; Id., Dilemmas and Connections, Harvard university Press, Cambridge 2011, pp. 287-302.

[5] Per una disamina dettagliata dell’uso di queste espressioni mi permetto di rimandare ad A. De Cesaris, Ipercomunità. Innovazioni tecnologiche e nuove forme del legame sociale, in «Lessico di etica pubblica», 1, 2016, pp. 137-149.

[6] Mettendo quindi in secondo piano la distinzione tra fede condivisa e fede individuale, di grande rilievo negli studi religiosi degli ultimi decenni.

[7] Per un’analisi della nozione di “immaginario sociale” si veda G. Pezzano, Pesci fuor d’acqua. Per una antropologia critica degli immaginari sociali, ETS, Pisa 2018, in particolare pp. 58-75.

[8] Il senso dell’espressione rimanda chiaramente a R. Barthes, Miti d’oggi, tr. it. Einaudi, Torino 2016 (1957).

[9] Il riferimento è a L. Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice, Torino 2010.

[10] Bastino qui due esempi: L. Floridi, La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina, Milano 2017; Y.N. Harari, Homo deus. A Brief History of Tomorrow, Harvill Secker, London 2015.

[11] Il rimando in questo caso è da un lato alle teorie di McLuhan, dall’altro a un fortunato articolo di Chalmers e Clark. Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2011; D. Chalmers, A. Clark, The Extended Mind, in «Analysis», 58, 1, pp. 7-19. In seguito nell’articolo verrà mostrata la differenza specifica tra la posizione mcluhaniana e le teorie come quella di Chalmers e Clark, o alcune forme di post-umanesimo. Gli studi sull’influsso delle tecnologie digitali sulle funzionalità cognitive sono a ogni modo sterminati. In questa sede sia utile ricordare solo alcuni classici; N. Carr, Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina, Milano 2010; G. Riva, Psicologia dei nuovi media, Il Mulino, Bologna 2012; M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano 2013; D. De Kerckhove, Connected Intelligence: the arrival of the web society, Somerville House Publishing, Toronto 1997.

[12] Questo in ottemperanza al principio mcluhaniano secondo il quale “ogni estensione è un’amputazione”. I processi di delega cognitiva sono stati oggetto di particolari analisi da parte di Ippolita; cfr. Ippolita, Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016; Id., Tecnologie del dominio, Meltemi, Milano 2018.

[13] Uno studio decisamente interessante, che collega i meccanismi di produzione dell’identità online ai sistemi di profilazione poliziesca, è quello di A. Bernard, Komplizen des Erkennungsdienstes. Das Selbst in der digitalen Kultur, Fischer Verlag, Frankfurt a.M. 2017.

[14] Per un’analisi più approfondita di questa dimensione mi permetto di rimandare ad A. De Cesaris, Ipercomunità, cit.; gli studi classici sul tema sono comunque M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2013; Id., La nascita della società in rete, Bocconi, Milano 2014.

[15] Cfr. F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009; Id., L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo 2016; si veda a riguardo anche P. Sloterdijk, Im selben Boot, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2011.

[16] Si tratta di una tesi elaborata da B.C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, tr. it. Nottetempo, Roma 2015, p. 11 e sgg.

[17] Si veda a questo proposito Ippolita, Nell’acquario di Facebook, Eleuthera, Milano 2015; J. Lanier, Dawn of the New Everything, Penguin, London 2017, pp. 116 e sgg..

[18] A questo proposito è fondamentale lo studio di J. Lanier, op. cit., pp. 127-146.

[19] Per una analisi tecnica del funzionamento dei media digitali si veda L. Barabàsi, Link, Einaudi, Torino 2004.

[20] Il riferimento è rispettivamente alla nozione di postmodernità elaborata da Vattimo e a quella elaborata da Fredric Jameson. Per una disamina delle varie formulazioni e teorie si rimanda a E. Franzini, Moderno e postmoderno, Raffaello Cortina, Milano 2018; G. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano 2002.

[21] Questo processo evolutivo è stato esaminato molto bene da Richard Sennett. Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2016.

[22] Gli studi decisivi in questo ambito sono quelli di R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2011; F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018; J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it. Bompiani, Milano 2014 (1968).

[23] Sarebbe sbagliato affermare che l’oggetto si individua come codice o come sequenza di 0 e 1. La natura dell’oggetto virtuale, infatti, è di essere tale solo in quanto esso si manifesta attraverso il processo ermeneutico di carattere macchinico che permette l’interfacciamento dell’utente.

[24] Byung-Chul Han ha insistito molto su questo aspetto dell’epoca presente. Si veda ad esempio B.C. Han, op. cit.; Id., Psicopolitica, tr.it. Nottetempo, Roma 2014.

[25] Cfr. D. Cardon, A quoi rêvent les algorithmes: Nos vies à l’heure des big data, Seuil, Paris 2015.

[26] Si veda a riguardo la voce dedicata alla religione nell’Enciclopedia delle religioni di Mircea Eliade. M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni, tr. it. Jaca Book, Milano 1993, Vol. I, p. 441 e sgg. Il riferimento in questo caso non è, chiaramente, allo stato presente degli studi religionistici, quanto piuttosto alle modalità con cui il rapporto tra tecnologie informatiche e religiosità è stato analizzato.

[27] Per una disamina si veda G.O. Longo, Homo technologicus, Ledizioni, Milano 2012.

[28] Cfr. M. McLuhan, op. cit., pp. 61-66. Si veda il problema anche dal punto di vista linguistico: si usa uno strumento esterno, ma non si usa un proprio organo. Io uso la penna, ma non “uso” la mia mano. Il carattere protesico degli strumenti tecnologici non permette in alcun modo l’utilizzo di metafore organiche nella determinazione della loro natura, metafore che rimangono del tutto fuori luogo tanto dal punto di vista antropologico-fisiologico, quanto dal punto di vista della fedele descrizione delle pratiche legate a quelle tecnologie.

[29] Mi sono occupato del problema in A. De Cesaris, L’opera d’arte dell’anima. Corpo, tecnica e medialità nell’antropologia di Hegel, in “Tropos”, IX, 2, 2016, pp. 139-158. In sintesi, il problema è che se in alcune tradizioni – ad esempio nel pensiero di Hegel – è attestabile una concezione tecnologica del corpo, in questo caso si assiste a una concezione corporea della tecnologia. Si tratta ovviamente di due letture radicalmente diverse.

[30] Il riferimento è a L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., pp. 106-108.

[31] L. Manovich, Software takes command, Bloomsbury, London-New York 2013.

[32] In questo senso, la famosa posizione di Kittler, secondo il quale non il software non esiste, è una risposta adeguata a certe derive, che costituiscono a tutti gli effetti nuove forme di iperspiritualismo. Cfr. F. Kittler, There is no software, articolo disponibile al seguente link: < http://www.ctheory.net/articles.aspx?id=74> (ultima visita 30 Novembre 2018).

[33] Ch. Anderson, The End of Theory: The Data Deluge makes the Scientific Method Obsolete, in «Wired», 23 Giugno 2008 https://www.wired.com/2008/06/pb-theory/ (ultima visita 30 Novembre 2018).

[34] In buona sostanza si tratta di una versione epistemologica della fine della storia. Una tesi di questo genere è stata proposta da M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, Roma-Bari 2016.

[35] Cfr. Y.N. Harari, op. cit., p. 368 e sgg.

[36] Questo indipendentemente dalla capacità degli algoritmi stessi di riprogrammarsi e di modificarsi. Il focus sulla commistione tra dimensione economica e dimensione tecnologica è una caratteristica determinante della critica militante di Jaron Lanier. Cfr. J. Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, tr. it. Il Saggiatore, Milano 2018.

[37] Alcuni studi significativi sono i seguenti: H.A. Campbell (ed.), Digital Religion. Understanding religious practice in new media worlds, Routledge, London-New York 2013; Id., When religion meets new media, Routledge, London-New York 2009; H.A. Campbell, G.P. Grieve (eds.), Playing with religion in digital games, Indiana University Press, Bloomington 2014; Ch. Helland, Online Religion as Lived Religion, in «Heidelberg Journal of Religions on the Internet», 1.1 (2005); A. Karaflogka, Religious Discourse and Cyberspace, in «Religion», 32, pp. 279-291; F. Vecoli, La religione ai tempi del web, Laterza, Roma-Bari 2013.

[38] Devo questa suggestione a Gilles Gressani, che elabora il tema in modo del tutto indipendente.

[39] Ch. Helland, op. cit.

[40] Cfr. a riguardo F. Vecoli, La religione ai tempi del web, cit., cap. IV. La tesi della divinità di Google è notoriamente avanzata dalla semiseria Church of Google (http://churchofgoogle.org/).

[41] Si veda a questo proposito M. O’Connell, Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte, tr. it. Adelphi, Milano 2018; G. Cuozzo, Utopie tecnologiche. Tra miti e follie della ragione, in A. Martinengo, Oltre il disincanto, cit., pp. 47-62.

[42] Più propriamente, e mantenendo attiva la triplice distinzione hegeliana già usata nel corso del saggio, quella tra spirito soggettivo, spirito oggettivo e spirito assoluto, questo articolo si propone come il seguito di due altri studi, uno sul rapporto tra tecnica e corpo nell’Antropologia di Hegel, e uno sul problema della comunità nell’epoca digitale. In questo senso, il presente studio si offre come una prima elaborazione del rapporto tra spirito assoluto e tecnologia nelle società informatizzate. Cfr. A. De Cesaris, Ipercomunità. Innovazione tecnologica e nuove forme del legame sociale, cit.; Id., L’opera d’arte dell’anima, cit.

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