S&F_scienzaefilosofia.it

Per una breve storia della nozione di vita

Autore


Riccardo De Sanctis

Stazione zoologica “A. Dohrn” di Napoli - Università degli studi di Napoli - Suor Orsola Benincasa

Presidente della Commissione “Scienza e Società” della Stazione zoologica “A. Dohrn” di Napoli, insegna Comunicazione della scienza presso l’Università degli studi di Napoli - Suor Orsola Benincasa

Indice


  1. Parafrasando S. Agostino
  2. La visione aristotelica…
  3. … e quella cartesiana
  4. Organizzazione, funzione, ambiente. Ma, soprattutto, tempo!
  5. Un piccolo appunto sulla convertibilità dei livelli biologici
  6. Darwin: una nuova vita in una nuova natura

↓ download pdf

S&F_n. 01_2009


  1. Parafrasando S. Agostino

La biologia contemporanea sembra ignorare l’oggetto stesso della sua indagine. Spieghiamoci meglio: il metodo e il fatto che la biologia è una scienza sperimentale non l’obbliga – come già diceva Claude Bernard – a definire il concetto di vivente.

Oggi si sa con chiarezza che la materia e le leggi che la regolano sono uguali sia negli esseri viventi che negli oggetti inanimati. Nel vivente tuttavia ci sono alcune macromolecole (come gli acidi nucleici e le proteine) che non si ritrovano nella materia inanimata. La vita viene descritta in ultima analisi come una qualità che compare a un certo livello di complessità dell’organizzazione fisico chimica della materia. È stato sempre così? Si è mai tentato nel corso della storia di dare una definizione a quel che vuol dire vita?

Le difficoltà cominciano sin dalla definizione di vivente e, dicendo ciò, ci si rende conto di quanto sia arduo anche intendersi sul concetto di definizione, probabilmente uno dei problemi sottesi alla filosofia fin dalle sue origini. André Pichot, parafrasando sant’Agostino, afferma che quanto egli diceva del tempo si può dire del vivente: «Che cos’e dunque la vita? Se nessuno me lo chiede, lo so; ma se lo si chiede e lo voglio spiegare, non lo so più»[1]. Una nozione difficile da definire, e da capire, di cui è arduo ricostruire la storia, anche perché il vivente non si limita all’uomo, all’ io pensante, ma e comprensivo anche del mondo animale e vegetale.

Si può però affermare che fino alla seconda metà dell’Ottocento esistono sostanzialmente due grandi concezioni della vita, riconducibili una ad Aristotele l’altra a Cartesio. Le restanti (e ve ne sono molte altre, evidentemente), anche precedenti, possono essere comprese attraverso queste due.

 

  1. La visione aristotelica…

Per Aristotele, gli esseri viventi e il mondo degli oggetti inanimati sono composti degli stessi elementi naturali, della stessa materia (che è poi quanto emerge anche dalla scienza moderna. La qualità che è intrinseca alla vita non va quindi cercata nella materia, ma nella sua forma. Tutti gli esseri viventi sono il risultato dell’unione di una materia con una forma, cioè del corpo con anima.

Scrive Aristotele nella Metafisica: «È evidente che l’anima è sostanza prima, che il corpo è materia, e che l’uomo o l’essere vivente è l’insieme di entrambi considerati universalmente»[2]. L’anima è la forma, la causa formale e finale, del corpo, l’atto (έντελέχεια) primo di un corpo che ha la vita in potenza. L’organismo vivente non è dunque solo materia, né l’anima è una sostanza a sé, che preesiste al corpo ed è destinata all’immortalità. Il corpo e l’anima sono per Aristotele un’unità indissolubile, e quando muore l’uno muore anche l’altra.

Aristotele distingue poi tre tipi di anime, come tre diverse maniere di realizzazione di organismi viventi: l’anima vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. Quest’ultima è propria dell’uomo e lo rende capace di conoscenza e di azione morali. Per il filosofo greco non esiste alcuna frattura tra l’uomo e la natura: il corpo umano non viene definito in maniera astratta, per quello che costituisce un corpo, non importa quale; piuttosto, egli definisce un corpo per la sua determinata specificità. II corpo è l’essere umano nella sua fisicità: una certa mano, un cervello, una voce, un determinato tipo di comportamento, di azione, di sofferenza. La mano è una e non appartiene che a quel corpo.

 

  1. … e quella cartesiana

Cartesio, invece, nel Traité de l’homme (1664), muovendo dalla considerazione che l’uomo che egli immagina ha un’anima e un corpo, afferma di voler procedere allo studio separato prima dell’uno e poi dell’altra, per mostrare alla fine come le due componenti si colleghino.

Suppongo – scrive – che il corpo non sia altro che una statua o una macchina di terra, che Dio ha modellato di proposito per renderla il più possibile simile a noi: in maniera che non soltanto le fornisce all’esterno il colore e la forma di tutte le nostre membra, ma le mette anche all’interno tutti i pezzi necessari per far in modo che cammini, che mangi, che respiri, e infine che imiti tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare provengano dalla materia, e non dipendono che dalla disposizione degli organi[3].

 

Per Cartesio l’uomo non è altro che una macchina, regolata dalle leggi della fisica, che ha come motore un calore, un “fuoco senza luce” situato nel cuore. L’anima, l’io che pensa, collocata nel cervello, è completamente separata dal corpo e non serve a farlo funzionare; la materia e il pensiero costituiscono due sostanze ben distinte.

Cartesio immagina un corpo composto di parti aventi ciascuna una propria funzione e utilità, secondo una concezione che era già di Galeno. Ma il filosofo francese non fa ricorso ad alcuna facoltà misteriosa della natura per far funzionare le parti del corpo umano, che per lui seguono semplicemente le leggi della meccanica. Si tratta di una visione, quindi, chiaramente dualistica e meccanica, che dominerà dal Seicento in poi gran parte della scienza.

Tuttavia, se ci riflettiamo, la concezione aristotelica sembra paradossalmente più vicina alla nostra esperienza rispetto a quella cartesiana. Certo, essa prevede, per spiegare il vivente, l’esistenza dell’anima: un’ipotesi che la scienza contemporanea, a parte qualche rara eccezione, rifiuta. Sta di fatto, però, che le due visioni della vita, pur essendo assai diverse tra loro giungono curiosamente – come fa notare Pichot[4] – a negare una specificità alla vita in sé: per Cartesio tutto si riduce a una fisica meccanica, e tra il corpo, o sostanza estesa, e l’anima, o sostanza pensante, non c è uno spazio per il vivente in sé; per Aristotele la natura è quasi “animata”, ed è difficile separare nettamente il vivente da quello che vivente non è. Bisognerà attendere la seconda metà dell’Ottocento perché la concezione del vivente cambi radicalmente: con la teoria dell’evoluzione di Darwin – e prima di lui con l’opera spesso sottovalutata di Lamarck – e poi con gli sviluppi della teoria cellulare, dell’istologia e dell’embriologia. E, infine, con l’applicazione del metodo sperimentale anche alla medicina.

 

  1. Organizzazione, funzione, ambiente. Ma, soprattutto, tempo!

Lamarck è uno degli inventori (con il tedesco Treviranus) della parola “biologia”. Con l’invenzione della nuova parola egli vuole affermare che si tratta di una scienza autonoma, distinta dalla fisiologia. Contrapponendosi così alle concezioni settecentesche di chi immaginava una materia speciale per gli esseri viventi (come le molecole organiche di Buffon) o di chi, sotto l’influenza delle monadi di Leibniz, attribuiva vita e pensiero alla materia stessa, Lamarck, nella sua Philosophie zoologique (1809), sostiene che la vita deriva dal tipo di organizzazione che vien dato alla materia, che dunque è sempre la stessa sia che si tratti di un essere vivente che di un oggetto inanimato.

La vita – per Lamarck – è soprattutto il risultato di un’organizzazione: «Un ordine e uno stato di cose» che permette i «movimenti organici», cioè lo spostamento dei fluidi organici, «e questi movimenti, che costituiscono la vita attiva, risultano dall’azione di una causa stimolante che li eccita»[5]. Un’organizzazione che si definisce nel tempo, con dei tempi diversi da quelli del mondo inanimato.

Le due grandi scuole di pensiero, aristotelica e cartesiana, non ponevano soluzione di continuità fra l’animato e l’inanimato e concepivano un mondo creato, in armonia, dove il tempo e il contingente non avevano spazio. Con il diciannovesimo secolo il concetto di vivente viene completamente ridefinito sulla base di un approccio scientifico sostanzialmente innovato. Lo sguardo sul corpo segue un percorso che si sposta progressivamente sempre più all’interno e in profondità: dal visibile del microscopio settecentesco si giunge a individuare negli esseri viventi una struttura che comprende e sottintende organi e funzioni, e che si risolve nelle cellule, per passare verso la fine del secolo all’indagine sui cromosomi nel nucleo della cellula.

Ai primi dell’Ottocento è ormai divenuto chiaro che non esiste una sola organizzazione del vivente, ma che ne esistono diverse, e l’una nell’altra. Si rifiuta la concezione di un organismo come la somma delle proprietà di ciascun elemento ultimo che lo compone: la qualità propria di esso è l’intrecciarsi delle molecole in un tessuto. Il corpo non può essere suddiviso all’infinito, e la caratteristica del vivente viene individuata nell’organizzazione, nelle relazioni che intercorrono all’interno di un essere nella sua totalità attraverso la continuità dei tessuti. Ci si rende conto che, nonostante la diversità delle forme, gli stessi organi svolgono sempre le medesime funzioni; non è la forma che fornisce a un organo le sue proprietà, queste piuttosto gli derivano dalla specificità del tessuto che lo costituisce.

Scrive il fisiologo Xavier Bichat nel Traité des membranes, pubblicato postumo nel 1816: «Basta la minima riflessione per comprendere che gli organi devono differire non soltanto per la maniera in cui la fibra che li compone è sistemata e intrecciata, ma anche per la natura di questa stessa fibra; che vi è fra di essi differenza di composizione come di tessuto»[6]. È necessario dunque riferirsi a un sistema organizzativo per comprendere il ruolo di un organo, e al suo tessuto per comprenderne le qualità. L’attenzione si è spostata dalle forme all’organizzazione, e si cerca di individuare un minimo comune denominatore per tutto il vivente.

Gli elementi costitutivi di un organismo non sono semplicemente messi insieme, ma intimamente integrati. «Solamente una volta ammessa la possibilità di tali relazioni – scrive in tempi recenti il biologo Francois Jacob – fra un essere vivente e i suoi costituenti, acquista senso l’aspetto a forma di cellule, d’alveoli, di nidi d’ape, intravisto in certi tessuti dal XVII secolo». L’importanza della teoria cellulare, afferma ancora Jacob, è dovuta al fatto che offre una soluzione unica a due problemi apparentemente distinti: «Scomponendo gli esseri in cellule, dotate ciascuna di tutte le proprietà del vivente, essa fornisce alla loro riproduzione al tempo stesso un significato e un meccanismo»[7]. Lo studio degli esseri viventi ne esce profondamente trasformato. Dalla struttura visibile settecentesca si è passati all’indagine sull’organizzazione, e in questa bisogna distinguere la struttura, la funzione e l’ambiente. «Non c’e vivente se non nella misura in cui i valori di questi tre parametri restano in armonia. Ogni variazione di uno di essi influisce sull’insieme dell’organismo che reagisce modificando gli altri»[8].

Il riferimento non è più alla scala naturae, alla catena ininterrotta degli esseri viventi, ma ad alcuni grandi gruppi d’organizzazione. Si scopre inoltre che gli organi più importanti sono collocati sempre all’interno, nelle parti più recondite dell’organismo, mentre in superficie ci sono soltanto organi accessori. Esiste quindi anche un’organizzazione nello spazio, e le molteplici trasformazioni che avvengono in un organismo nel corso dell’ontogenesi fanno ipotizzare per la prima volta anche un’organizzazione nel tempo. Sono le premesse indispensabili per lo sviluppo di una teoria dell’evoluzione.

 

  1. Un piccolo appunto sulla convertibilità dei livelli biologici

Nella sua opera Nosographie philosophique, del 1798, Philippe Pinel aveva sostenuto che la medicina doveva ricorrere al metodo dell’analisi filosofica per poter vagliare adeguatamente fenomeni complessi; da questo assunto si iniziò a studiare gli organi malati paragonandoli a quelli in stato di salute, cercando strutture e proprietà fondamentali in comune. Sviluppando questo tipo di ricerca, Xavier Bichat, sostenitore delle teorie vitaliste[9], introdusse in anatomia la nozione di tessuto e identificò nei tessuti l’architettura principale del corpo. Quando si studia una funzione, sostiene Bichat, è opportuno «esaminare in modo generale l’organo complesso che la esegue»; per conoscere le proprietà di quell’organo è necessario “decomporlo” e analizzarlo con rigore per svelarne la struttura più intima, gli ultimi elementi, ossia i tessuti . Bichat arrivò a individuare ventuno tessuti, ciascuno e dotato di proprietà vitali distinte. «La vita – sostiene Bichat – è la totalità delle funzioni che resiste alla morte».

Per molti anni i tessuti furono considerati come il limite estremo dell’indagine anatomica e soltanto la messa a punto di microscopi più potenti e privi di aberrazioni ottiche, e il conseguente sviluppo della teoria cellulare, formulata nel 1839 dai due biologi tedeschi Theodore Schwann e Matthias Schleiden, permisero di superare questa frontiera offrendo alla patologia nuovi campi di ricerca. Come è noto, il definitivo affermarsi della teoria cellulare lo si deve al medico tedesco Rudolf Virchow. Egli avversò l’idea di una malattia generale, ereditata dalle antiche concezioni umorali, per indagare piuttosto su quale fosse la sede della malattia. La ricerca dunque si spostava per lui dagli organi ai tessuti e da questi alle cellule. Per Virchow le cellule sono l’ultimo anello nella catena delle formazioni reciprocamente subordinate, che costituiscono gli organi, i sistemi, l’individuo. Al di sotto di esse non viene niente altro che mutamento.

In pochi anni, più o meno a metà del secolo, venne dimostrato che la cellula è l’elemento organico centrale che collega le generazioni degli animali, uomo compreso, e delle piante, un ruolo che, a fine Ottocento, sarà riconosciuto al nucleo della cellula e quindi ai cromosomi, le strutture in cui si organizza il materiale genetico all’interno del nucleo. Contemporaneamente la fisiologia, passando dall’analisi delle funzioni degli organi allo studio dei processi cellulari, tentava di ricondurre tutto a un livello ancora più basilare, rifacendosi alla chimica e alla fisica.

Fu dimostrato come la gran parte dei fenomeni chimici e fisici fossero fra loro convertibili e su questa base venne formulata la teoria della conservazione dell’energia. Tali idee furono applicate alto studio dei processi vitali: anche il calore animale era il prodotto di una combustione, l’organismo era un dispositivo di conversione dell’energia, una macchina al pari di quelle analizzate della meccanica e dalla termodinamica.

A fine secolo, le tecniche della misurazione diretta e indiretta della produzione del calore animale furono unificate dal fisico Max Rubner, e offrirono la prova conclusiva che la legge della conservazione dell’energia valeva anche per la biologia. Ciò portò a un’ulteriore deduzione: gli esseri viventi sono una parte integrante, e non separata, dell’universo fisico. Ma la storia delle medicina della fine del secolo riserva altre sorprese. Fenomeni caratteristici della morte fino al secolo precedente ora sono segni di vita e viceversa. La putrefazione, tanto per fare un esempio, considerata fin lì come un criterio di morte di un organismo, si scopre essere dovuta alla «moltiplicazione di microscopiche creature viventi» – come scrive Louis Pasteur in un Rapporto al Ministero dell’Educazione (Aprile 1862) – «in breve la vita appare in una nuova forma dopo la morte e con nuove proprietà».

Ed è il fisiologo Claude Bernard che dimostra che la morte talvolta viene scambiata per vita. Ogni movimento dei muscoli, ogni contrazione, quando si pensa, tutto – sostiene Bernard nelle Lessons del 1878 – porta a una disorganizzazione del tessuto ghiandolare, a distruggersi, a consumarsi. «In questo modo ogni manifestazione di un fenomeno in un essere vivente è necessariamente legato a una distruzione organica». Bernard è una figura centrale del grande cambiamento avvenuto nel campo della medicina nell’Ottocento. A lui si devono importanti scoperte nel campo della digestione e della chimica animale, della neurofisiologia e della farmacologia, e soprattutto l’introduzione del metodo sperimentale in fisiologia. Egli pone il dato certo, ossia ripetibile in condizioni determinate, a fondamento della fisiologia e della medicina scientifica. Per Bernard l’esperimento deve essere ben definito e deve seguire regole precise e, soprattutto, non può essere separato dall’osservazione. La sperimentazione – egli afferma – è soltanto un’osservazione provocata, condotta con l’ausilio di mezzi e strumenti vari. La fisiologia non è più passiva, ma interviene attivamente nei processi vitali, perché la meta di ogni scienza, sostiene ancora Bernard, è «prevedere e agire». L’adozione del metodo sperimentale amplia, per questa via, ulteriormente la concezione di vivente.

È Bernard che definisce con chiarezza il valore di funzione, ossia il ruolo svolto da ciascun tessuto e organo del corpo per assicurare la vita, ruolo accelerato o rallentato dall’organismo a seconda dei bisogni. Un altro importante concetto precisato dallo scienziato è, inoltre, quello di ambiente interno (milieu intérieur): i tessuti sono infatti immersi in un insieme fisico-chimico dentro e fuori dai vasi, dalla stabilità del quale dipende la vita; inoltre, la vita stessa viene caratterizzata dai diversi meccanismi che assicurano questo equilibrio.

L’indagine biologica negli ultimi anni del secolo abbandona, quindi, definitivamente la forma come obiettivo di ricerca, reagisce contro la morfologia, la descrizione e la comparazione e tutte le attenzioni sono rivolte allo studio delle funzioni.

 

  1. Darwin: una nuova vita in una nuova natura

Con la pubblicazione di On the Origin of Species di Charles Darwin, nel 1859, vengono messe in discussione alcune delle credenze di fondo dell’epoca e alcuni capisaldi del pensiero dominante da almeno duemila anni. Dopo la frattura epistemologica della rivoluzione scientifica del Seicento, si attua ora la seconda rottura con un sapere che postulava il principio della creazione individuale di ciascuna specie e collocava l’uomo al centro dell’universo, quale essere a sé, privilegiato rispetto al mondo animale.

Per Darwin gli organismi viventi, uomo compreso, discendono in tutte le loro forme da un antenato comune. La stessa idea di progresso e di perfezionamento continuo della natura viene messa in crisi dalle sue teorie, poiché il processo evolutivo introduce nel discorso scientifico i concetti di caso, di probabilità, di unicità: l’evoluzione non conduce necessariamente a un progredire delle specie. Darwin applica la nozione di contingente al vivente, un vivente che non partecipa più dell’armonia immutabile dell’universo. Tali assunti erano sufficienti a incrinare molti dei cardini più radicati del pensiero occidentale.

Secondo il biologo Ernst Mayr[10], dalle teorie di Darwin discendono varie implicazioni: l’improponibilità di una visione statica dell’universo, l’insostenibilità della teoria creazionista, la possibilità di spiegare il “disegno” del mondo in termini di processo materialistico, la necessità di rifiutare una teleologia cosmica e l’antropocentrismo e, infine, l’urgenza di sostituire un modo di pensare per popolazioni alla concezione essenzialista.

Nel Novecento con l’avvento della medicina scientifica e di nuove tecnologie tutto cambia radicalmente. I criteri di vita e di morte diventano tecnologici piuttosto che biologici. La vita non può più essere considerata l’opposto della morte: lo stesso livello di attività o inattività organica può infatti essere considerato vita o morte secondo lo stato della tecnologia medica in quel tempo e luogo. Né possono valere i principi di artificiale o naturale, in quanto la stessa medicina che interviene nella produzione o nel mantenimento della vita ha cambiato il senso di quello che vuol dire naturale o artificiale.


[1] A. Pichot, Histoire de la notion de vie, Paris, Gallimard 1993, p. 5.

[2] Aristotele, Metafisica, 7, 11, 1037.

[3] Cartesio, Principia philosophiae (1644), tr. it. Franco Angeli, Milano 1953, p. 807.

[4] A. Pichot, op. cit., p. 8.

[5] J. B. Lamarck, Philosophie zoologique I, p. 403.

[6] X. Bichat, cit. in F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de l’hérédité, Paris, Gallimard 1970, p. 127.

[7] F. Jacob, op. cit., p. 131.

[8] Ibid., p. 143.

[9] Cfr. X. Bichat, Recherches phisiologiques sur la vie et la mort, Paris 1800.

[10] Cfr. E. Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità (1982), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *