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L’etica e le neuroscienze

Autore


Silvano Tagliagambe

Università di Sassari

già Vicepresidente del CRS4 (Centro di Ricerca, Sviluppo, Studi Superiori in Sardegna) durante la presidenza di Carlo Rubbia, insegna Logica e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari (sede gemmata di Alghero)

Indice


  1. Due geniali premonizioni
  2. Estetica e neuroscienze
  3. Il piacere, la ripetizione e l’abitudine
  4. Conclusione

 

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S&F_n. 05_2011


  1. Due geniali premonizioni

Nel 1843 con il Diario del seduttore[1] e Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, dedicato alla figura

di Don Giovanni, in particolare al Don Giovanni musicato da Mozart nel 1787 su libretto di Lorenzo da Ponte, Kierkegaard esplora in maniera approfondita lo “stadio estetico” nelle sue articolazioni, gradazioni e sfumature.

Di particolare rilievo e interesse è la distinzione da

lui operata tra il seduttore psichico e Don Giovanni. Il primo vive in un egoismo raffinato e sottile, in quanto

il suo godimento non consiste

nel possesso fisico, nel far godere la donna, bensì in un possesso psichico, che si manifesta nel desiderio di condurla a uno stato di soggiogamento totale, senza essere a sua volta coinvolto in quest’opera di seduzione. L’obiettivo che persegue è quello di rendere la relazione interessante, ed essa per lui è tale allorché, lungi dal rinchiudersi nel vincolo delle decisioni e delle scelte, rimane sospesa sull’indeterminato, sul regno della pura e «infinita possibilità»[2]. Quando una relazione si spinge troppo avanti sulla via della sua compiuta realizzazione essa perde per lui ogni interesse e a quel punto il suo scopo primario diventa quello di uscirne al più presto, giacché «introdursi in immagine nell’intimo d’una fanciulla è un’arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro»[3].

Questo gioco perverso ne fa una vittima dei suoi stessi intrighi e dei suoi conflitti e rende la sua esistenza costantemente inquieta, preda d’una consapevole follia e rinchiusa in una dimensione meramente estetizzante che la espone a una condanna che «ha un carattere puramente estetico»[4].

Don Giovanni è invece espressione della seduzione sensuale, quella che «non ha bisogno d’alcun preparativo, d’alcun progetto, d’alcun tempo»[5], in quanto seduce con l’immediatezza del proprio desiderare, per cui vedere, desiderare e amare in questo caso non sono tre momenti distinti in una successione logica e cronologica, bensì le tracce d’uno stesso atto, quello della seduzione appunto, compiuto immediatamente[6]. Egli non seduce per la sua bellezza o in virtù di un qualsiasi altro suo attributo fisico[7]: egli seduce piuttosto in virtù del suo spirito, ossia in virtù del suo stesso desiderare. Perciò chiedersi che aspetto abbia Don Giovanni è come voler ridurre a un elemento esteriore una forza che «è una determinazione verso l’interno»[8], tutta interiore, espressione pura di una forma dell’interiorità.

La differenza fondamentale tra le due figure del seduttore così delineate sta dunque nel loro diverso rapporto con il tempo. La seduzione psichica vive nel tempo e ha bisogno di tempo per predisporre i suoi piani e le sue strategie, anzi il tempo per essa è, congiuntamente, uno strumento di seduzione e di appagamento, sicché l’intero processo è gestito all’insegna della caducità. La seduzione sensuale è invece caratterizzata dall’inesauribilità e dall’incompiutezza: non a caso Don Giovanni è definito da Kierkegaard come indefinibile e come incompibile: «un’immagine che [...] non acquista mai contorni e consistenza, un individuo che è formato costantemente, ma non viene mai compiuto», ed è perciò non già un «individuo particolare, ma la potenza della natura, il demoniaco, che non [...] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice»[9]: in quanto tale egli non è «persona o individuo, ma […] potenza»[10]. Il suo tratto distintivo fondamentale sta nell’essere espressione di una naturalità intesa come divenire incessante, irrefrenabile e inesauribile, del demoniaco, del dionisiaco, del ludico, di quella forza cosmica della natura che – come tale – è spontanea e immediata e va perciò assimilata alla connotazione istintiva della libertà assoluta e incondizionata.

Quale sia la natura di questa forza cominciò a chiarirlo nel 1864 Fëdor Dostoevskij in un romanzo che Nietzsche considerò la nascita ufficiale di una teoria dell’inconscio, già prima di Freud, e cioè Zapiski iz podpolja (Memorie dal sottosuolo), che pone al centro fenomeni mentali che, a giudizio dell’autore, resistono a ogni sforzo di analisi e spiegazione di tipo fisiologico. Il punto di partenza di questa convinzione è che alla base dell’individualità personale di ciascuno vi sia qualcosa di sconosciuto a lui stesso, un “impulso interiore”, un “residuo irrazionale”, che trascende i limiti dell’esperienza possibile, rifiuta di chinare la testa davanti al “muro”, costituito dall’insieme delle leggi della ragione e delle “evidenze”. La radice di questo rifiuto sta nella consapevolezza del fatto che il chinare la testa davanti al “muro” fa emergere un tipo di saggezza che consiste nel consigliare acquiescenza e rassegnazione, che è tutta tesa ad accettare l’ordine inevitabile del mondo e che si costituisce, di conseguenza, come educazione al rispetto della continuità e della forza dell’“esterno” in contrasto con la fragilità dell’“io”, con conseguente rinuncia a ogni pretesa di quest’ultimo di essere, e di essere autonomo, di essere “in sé e per sé”.

Come fa notare un filosofo russo, acuto interprete del pensiero e dell’opera di Dostoevskij, Lev Šestov, nelle Memorie dal sottosuolo lo scrittore ha levato, nel modo più alto e incisivo possibile, il suo radicale rifiuto di giocare questo tipo di gioco, impregnato di spirito di rassegnazione:

Ciò che avviene nell’anima dell’uomo del sottosuolo non assomiglia minimamente al “pensiero”, e meno che mai a una “ricerca”. Egli non “pensa”, si agita, si agita disperato, batte da tutte le parti, cozza contro tutti i muri. Si infiamma senza tregua, raggiunge le cime più alte per precipitare poi sa Dio in quali abissi. Non sa più governarsi, una forza infinitamente più potente di lui lo tiene in pugno [...]. Egli “ha visto” che né le “opere della ragione” né nessun’altra “azione umana” potranno salvarlo. Ha indagato, e con quale attenzione, con quale soprannaturale tensione, tutto ciò che l’uomo può costruire con l’aiuto della ragione, tutti quei palazzi di cristallo, e si è persuaso che non erano palazzi, bensì pollai, formicai, poiché sono stati tutti costruiti in base a un principio di morte: “due più due fa quattro”. E via via che ne prende atto, l’“irrazionale”, l’inconcepibile, il caos primordiale, che spaventa la coscienza ordinaria più d’ogni altra cosa, prorompono dal fondo della sua anima. Per questo, nella sua “teoria della conoscenza” egli rinuncia alla certezza, e accetta come suo fine supremo l’ignoranza. Per questo osa opporre alle evidenze argomentazioni di burla e di scorno, facendo le boccacce con la mano in tasca. Per questo, egli esalta il capriccio incondizionato, imprevisto, eternamente irrazionale, e se la ride di tutte le “virtù” umane[11].

 

Emerge così un’altra immagine dell’“io”. Non più docile, non più remissivo, non più saggio, ma espressione di una forza incontrollabile, che scaturisce dal corpo e dalle sue viscere più profonde, dell’inconcepibile, del caos, della vita, di uno stato di eccitazione che abbatte ogni ostacolo, di pulsioni primordiali mai sopite che si fanno beffe del «due più due fa quattro», dei dettami della ragione, delle norme sociali ed etiche e mirano soltanto ad affermarsi e a imporsi.

Per apprezzare l’originalità di questo modo di intendere il piacere estetico e capirne il senso e la portata è sufficiente riferirsi alla versione oggettuale dell’“intenzionalità”, comunemente nota come “tesi di Brentano”, che può essere chiarita quanto basta per i nostri scopi attraverso la seguente citazione:

Ogni fenomeno mentale è caratterizzato da ciò che gli scolastici chiamavano l’in-esistenza (mentale o) intenzionale di un oggetto, e da ciò che potremmo chiamare, sebbene in modo non del tutto privo di ambiguità, il riferimento a un contenuto, la direzione verso un oggetto (che non deve essere qui intesa come il significato), o oggettività immanente. Ogni fenomeno mentale include in se stesso qualcosa come un oggetto, sebbene non tutti lo facciano nello stesso modo. Nella rappresentazione qualcosa è rappresentato, nel giudizio qualcosa è affermato o negato, nell’amore amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato e così via. Questa in-esistenza intenzionale è una caratteristica esclusiva dei fenomeni mentali. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa di simile. Noi possiamo, dunque, definire i fenomeni mentali dicendo che sono quei fenomeni che contengono intenzionalmente un oggetto in loro stessi[12].

 

Attraverso la sua interpretazione della figura del seduttore Kierkegaard attira l’attenzione sul fatto che ci sono fenomeni mentali che sfuggono a questa caratterizzazione tutta orientata verso l’oggetto e l’esterno. Un altro esempio di particolare interesse di stato mentale che possiamo definire “non intenzionale”, alla luce della versione oggettuale suddetta è costituito da quella specifica determinazione dello spirito sognante, di cui si è occupato con grande acume lo stesso Kierkegaard nella sua opera del 1844, Il concetto dell’angoscia.

Nella veglia - troviamo scritto nel § 5 - la differenza tra l’io e l’altro da me è posta; nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato. La realtà dello spirito si mostra continuamente come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare. Di più non può fare, finché non fa altro che mostrarsi. Poiché il concetto dell’angoscia non si trova quasi mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto ch’esso è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità. Perciò non si troverà l’angoscia nell’animale precisamente perché esso, nella sua realtà naturale, non è determinato come spirito[13].

 

Proprio questa specificità dell’angoscia, come determinazione dello spirito, può farci capire, per differenza, la peculiarità di fondo e unificante degli stati mentali che risultano invece caratterizzati dal loro riferirsi a qualcosa di determinato, cioè da qualcosa di molto simile a ciò che Brentano chiama, appunto, intenzionalità. In questo caso siamo in presenza di una imprescindibile caratteristica della mente, cioè la sua possibilità di disporre di stati capaci di «rinviare» ad altri oggetti o eventi o processi, presenti nel mondo o fittizi. Si tratta di una capacità analoga a quella che esibisce il linguaggio, che si compone di «oggetti» speciali il cui tratto distintivo fondamentale consiste nell’attitudine a «significare», cioè a riferirsi a qualcosa d’altro. Il significato, da questo punto di vista, può essere a giusto titolo ritenuto la faccia linguistica della medaglia di cui l’intenzionalità costituisce la faccia “mentale”.
Il piacere del seduttore intanto, come chiarisce Dostoevskij, appare come una “forza oscura”, che si sottrae al dominio della coscienza ed è localizzata nel “sottosuolo”, una sorta di scantinato inaccessibile a essa. Inoltre è rivolto verso se stesso, è l’espressione di una interiorità pura neri confronti della quale l’oggetto verso cui, di volta in volta, si rivolge appare come un puro stimolo occasionale non significativo ai fini del suo manifestarsi. Entrambe queste idee meritano di essere sottolineate in quanto, come vedremo, costituiscono una geniale anticipazione di conclusioni alle quali sono pervenute la teoria di Freud, per un verso, e gli studi dei processi cerebrali, per l’altro.

 

  1. Estetica e neuroscienze

Le neuroscienze dedicano grande attenzione all’analisi del piacere, considerato un aspetto fondamentale del comportamento motivato di organismi altamente evoluti come i mammiferi e, dal punto di vista naturalistico, come un dispositivo biologico frutto della selezione naturale volto a favorire la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente. Questa sua funzione emerge con chiarezza già dalla localizzazione delle aree cerebrali dalla cui attività dipendono le proprietà motivazionali del piacere, le quali sono topograficamente vicine a quelle da cui dipendono comportamenti primordiali legati alla sopravvivenza del singolo e della specie, come il comportamento alimentare, sessuale, predatorio, materno etc., che sono ubicate nella parte più mediale e ventrale del cervello. Dato che nei mammiferi ciascun emisfero cerebrale si è sviluppato in direzione ventro-dorsale e mediolaterale, la localizzazione ventro-mediale delle aree che mediano le proprietà motivazionali del piacere attesta la loro origine precoce nel corso dell’evoluzione. Queste aree sono la shell del nucleo accumbens del setto e un complesso di nuclei (il nucleo centrale dell’amigdala, il nucleo del letto della stria terminale, la substantia innominata) tradizionalmente considerati parte del sistema limbico e riclassificati e raggruppati da Heimer e il suo gruppo[14] a costituire la cosiddetta “amigdala estesa”.

Come sottolinea Gaetano Di Chiara[15], queste aree nell’uomo costituiscono una sorta di “scantinato” del cervello, non solo per la loro localizzazione nella sua parte più interna e basale, ma anche perché, come uno scantinato, costituiscono il ripostiglio di tutta una serie di vecchi arnesi, le pulsioni primordiali, che l’evoluzione ha lì risposto nell’eventualità che, in una situazione di emergenza, nella quale, per una ragione qualsiasi, gli strumenti più moderni, le norme sociali ed etiche di quell’ambiente, di cui l’uomo si è dotato, dovessero diventare inservibili, possano tornare utili o diventare addirittura essenziali per la sopravvivenza. In situazioni di emergenza nelle quali dovessero saltare tutte le regole e l’uomo si venisse, di conseguenza, a trovare in una condizione non dissimile da quella di un mammifero in un ambiente soggetto alle leggi naturali, piuttosto che umane, della sopravvivenza, l’unica risorsa disponibile per evitare di soccombere sarebbe costituita dagli arnesi dello “scantinato” del cervello.

Lo stesso Di Chiara evidenzia come dall’analisi fenomenologica del piacere risulti che esso è associato a ciascuna delle fasi, appetitiva e consumatoria, nelle quali si distingue tradizionalmente il comportamento motivato da stimoli gratificanti. Ed è proprio questa distinzione che ci consente di ricollegarci alle intuizioni di Kierkegaard, in quanto ne scaturisce una differenza significativa della natura del piacere.

Nella fase appetitiva l’organismo mette infatti in atto comportamenti flessibili e generici di ricerca e di approccio comuni ai più diversi stimoli (cibo, acqua, sesso, madre, figlio, caldo, etc.) e quindi indipendenti dalla specifica natura di essi. In questo caso il piacere consiste in uno stato di euforia e di eccitazione che rinforza e sostiene il comportamento di ricerca e di approccio all’oggetto del desiderio. Questo tipo di piacere, che Di Chiara chiama “state hedonia”, edonia di stato, è uno stato affettivo o emotivo che fa parte dell’eccitazione comportamentale (incentive arousal) caratteristica della fase appetitiva.

In questa fase, dunque, a incidere sul comportamento non sono tanto «i segnali provenienti dall’oggetto» del desiderio, quanto piuttosto «il cervello che parla a se stesso»[16], in quanto il comportamento medesimo è guidato da stimoli distali che vengono percepiti attraverso modalità sensoriali che non comportano una diretta interazione con l’oggetto (olfatto, vista, udito, percezione ultrasonica). È solo nella fase successiva, quella consumatoria che il comportamento si articola in attività diverse e specifiche e si struttura secondo rigidi schemi specificamente legati alla natura dello stimolo. il cui significato è spesso acquisito attraverso l’associazione con stimoli che utilizzano modalità sensoriali prossimali (tatto, gusto, percezione termica, stimolazione erogena, etc.) e che fanno invece parte della fase consumatoria. Così, un profumo, un suono o un’immagine, di per sé neutre, diventano significative e capaci di attrarre l’attenzione e guidare il comportamento se sono state associate in maniera predittiva a uno stimolo consumatorio capace di dare piacere[17]. Questi stimoli producono un piacere di tipo sensoriale (sensory hedonia) che non è frutto di apprendimento, ma è innato, dato che l’organismo è geneticamente predisposto a interpretarli come piacevoli in quanto utili alla sopravvivenza del singolo e della specie.

Il piacere della fase appetitiva, attraverso le sue proprietà motivazionali, rappresenta, pertanto, uno strumento potente e flessibile per adattare il comportamento alle necessità di un ambiente in continuo divenire. Pur essendo ovviamente cambiate, nel corso dell’evoluzione, le attività verso le quali erano indirizzate, nel caso dei primati che sono verosimilmente i nostri antenati, le attività motivazionali del piacere, è tuttavia sempre quest’ultimo, come forza originaria a conferire proprietà gratificanti a quegli stimoli, risposte o situazioni cui l’uomo attribuisce valore essenziale per la sopravvivenza in quell’ambiente del tutto nuovo e peculiare che egli stesso si è forgiato.

Il fatto che le proprietà motivazionali degli stimoli primari siano innate non vuol tuttavia dire che siano immutabili; al contrario, uno stimolo gustativo positivo può cambiare addirittura valenza, diventando avversivo, per essere stato condizionato a stati viscerali avversivi come la nausea o il vomito. Così, può bastare una singola associazione con uno di questi stati per sviluppare un’avversione condizionata al più appetitoso dei gusti. Perciò, l’apprendimento permette di trasferire le proprietà motivazionali di uno stimolo primario agli stimoli secondari più diversi o addirittura di cambiarne il segno. In tal modo le proprietà motivazionali del piacere possono essere reindirizzate ed eventualmente sublimate in attività del tutto eterologhe rispetto agli stimoli primari cui esso è biologicamente associato[18].

La distinzione e l’articolazione così operate ci mettono quindi in condizione di affermare che il piacere del seduttore, sia di quello psichico sia di quello sensuale, così come lo configura Kierkegaard, è in entrambi i casi quello appetitivo, o del desiderio, che si gioca tutto all’interno, è caratterizzato da una costante tensione verso la ricerca e si manifesta sotto forma di uno stato di euforia e di eccitazione che rinforza e sostiene il comportamento di approccio all’oggetto del desiderio. Questo tipo di piacere, soprattutto in Don Giovanni, prevale nettamente sulla fase successiva, quella consumatoria o della soddisfazione. Egli infatti, sottolinea Kierkegaard, desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto seducen­te, in tal senso egli seduce. Egli gode dell’appagamento del desiderio; appena ne ha go­duto, cerca un nuovo oggetto, e così all’infinito.

La differenza tra le due diverse forme di seduzione e di piacere, come detto, sta soprattutto nel loro diverso rapporto con il tempo. Il seduttore psichico fa di quest’ultimo un ingrediente essenziale del proprio piacere: Don Giovanni, al contrario, è soltanto nel momento, ma il momento è concettualmente pensato come la somma dei momenti. Vedere una donna, conquistarla e amarla è per lui una cosa sola, questo è nel momento, e nello stesso momento tutto è finito, e la stessa cosa si ripeterà all’infinito.

Anche questa distinzione è importante, perché ci conduce alla questione della relazione tra piacere e abitudine, anch’essa attentamente scandagliata ed esplorata dagli studi sui processi cerebrali.

 

  1. Il piacere, la ripetizione e l’abitudine

La prima cosa che viene messa in rilievo da queste ricerche a proposito di tale questione  è che lo “scantinato del cervello” pur nella diversità delle aree che lo compongono, ha una caratteristica unitaria che accomuna e lega tra di loro i suoi componenti: il fatto di essere densamente innervato da neuroni che utilizzano la dopamina come neurotrasmettitore i cui corpi cellulari sono localizzati nell’area ventrale tegmentale del mesencefalo (VTA). La dopamina della shell del nucleo accumbens viene liberata da stimoli naturali nuovi e salienti, come un odore o un gusto nuovo e particolarmente buono. Siamo pertanto in presenza di risposte caratterizzate da una forte incidenza della novità dello stimolo e la cui intensità cala dopo una singola esposizione a quest’ultimo[19].

Come sottolinea ancora Di Chiara, gli studi sperimentali di manipolazione farmacologica della trasmissione dopaminergica dimostrano che tutti i farmaci e le sostanze d’abuso che inducono dipendenza, come la cocaina, l’eroina, l’amfetamina, la nicotina, l’alcol, il tetraidrocannabinolo (il principio attivo della cannabis) producono piacere e dipendono per questa proprietà dalla capacità di stimolare la trasmissione dopaminergica nella shell del nucleo accumbens.

Sia le ricerche sperimentali compiute facendo ricorso agli animali, sia gli studi di brain imaging nell’uomo indicano in maniera convergente che il piacere associato alla liberazione di dopamina nel nucleo accumbens corrisponde al piacere appetitivo, all’eccitazione motivazionale (incentive arousal) indotta da stimoli condizionati predittivi della soddisfazione consumatoria. Perciò, i farmaci d’abuso, e soprattutto quelli dotati di proprietà psicostimolanti, come la cocaina, l’amfetamina e l’ecstasy, producono stati di eccitazione comportamentale omologhi a quelli tipici della fase appetitiva del comportamento motivato, cioè un comportamento di esplorazione e ricerca che utilizza modalità comportamentali specie-specifiche (annusamento nei roditori, scanning visivo nei felini, ricerca manuale nei primati).

Le medesime ricerche dimostrano che il piacere appetitivo (il desiderio) può raggiungere un valore motivazionale di grado anche superiore a quello di un piacere consumatorio, tanto che il ratto, posto di fronte alla scelta tra la somministrazione di una sostanza d’abuso come la cocaina, l’amfetamina, la morfina o la nicotina e un gusto dolce, come quello della saccarina, il cui piacere è tipicamente consumatorio, preferisce il farmaco e mostra segni di frustrazione se dopo uno stimolo predittivo del farmaco riceve invece la saccarina. Al contrario del piacere appetitivo, quello consumatorio non dipende dalla dopamina, per cui quest’ultima non è il substrato neurobiologico del piacere in generale ma solo di un tipo specifico di piacere, quello appetitivo.

Proprio la differenza tra queste due tipologie di piacere ci consente di approfondire meglio e comprendere la relazione tra il piacere medesimo e l’abitudine oltre che di precisare la funzione della dopamina. Stimoli consumatori piacevoli, come un gusto dolce, liberano dopamina nella shell del nucleo accumbens solo se sono particolarmente salienti, nuovi e imprevisti. Questa risposta va incontro ad abitudine dopo una singola esposizione al gusto senza per questo compromettere le sue proprietà edoniche valutate sulla base delle reazioni comportamentali al gusto (taste reactivity). Viceversa, le reazioni edoniche a un gusto buono non sono alterate da farmaci che bloccano la trasmissione dopaminergica. Perciò la dopamina della shell del nucleo accumbens non è un substrato ma una conseguenza del piacere consumatorio[20].

Per capire perché il piacere appetitivo possa raggiungere un valore motivazionale superiore a quello della fase consumatoria e per quale motivo, al contrario di quel che avviene in quest’ultima, esso risulti sottratto al potere obliterante dell’abitudine occorre fare riferimento a quello che Edelman chiama il «sistema di valore che rilascia il neurotrasmettitore dopamina. Questo sistema si trova nei gangli della base e nel tronco encefalico. Il rilascio di dopamina agisce come un sistema di ricompensa, che facilita l’apprendimento»[21]. In effetti, come rileva anche Di Chiara, le proprietà adattative della risposta della dopamina della shell e in particolare la sua rapida tendenza ad andare incontro ad abitudine, suggerisce un suo ruolo nell’apprendimento associativo. Infatti, una proprietà tipica dell’apprendimento associativo è la dipendenza dalla novità: è difficile stabilire nuove associazioni tra stimoli noti per il semplice fatto che per stabilire la nuova associazione bisogna prima cancellare quelle che inevitabilmente si sono già stabilite in seguito alle precedenti esperienze dello stimolo. Studi sperimentali confermano il ruolo della dopamina della shell del nucleo accumbens nell’apprendimento associativo. Dunque, la dopamina della shell del nucleo accumbens serve non solo a promuovere comportamenti di ricerca e di approccio in risposta a stimoli condizionati predittivi di stimoli gratificanti primari (ruolo incentivo-motivazionale) ma anche a promuovere l’acquisizione di nuovi stimoli condizionati facilitando le associazioni pavloviane tra stimoli altrimenti neutri e stimoli consumatori (apprendimento incentivo pavloviano). In pratica, in un contesto naturalistico, un evento eccezionale e carico di possibili conseguenze per la sopravvivenza come l’incontro fortuito e imprevisto con uno stimolo primario adatto alle circostanze e tale da provocare piacere viene marcato con una scarica di dopamina nel nucleo accumbens che non solo produce un’eccitazione motivazionale, ma fissa nella memoria alcune caratteristiche salienti del contesto e le associa a quelle del piacere accoppiato all’evento stesso. In questo modo il cervello trasforma una contingenza temporale in una relazione causale (post hoc ergo propter hoc) e fa sì che quel contesto diventi predittivo di situazioni utili per la sopravvivenza. La dopamina consolida la memoria di queste associazioni, facendo in modo che l’onda di nuove esperienze non le cancelli[22].
Questa conclusione è in linea con quella che viene oggi ritenuta la più significativa scoperta empirica relativa ai processi di condizionamento, dopo le acquisizioni iniziali di Pavlov, quella compiuta nel 1969 da Leon Kamin[23]. Questa sua scoperta può essere sintetizzata dicendo che gli animali, attraverso l’apprendimento condizionato, imparano qualcosa di più di una semplice relazione di contiguità spaziale o di successione temporale tra stimoli: ciò che essi imparano è che tra lo stimolo condizionato e quello incondizionato esiste un nesso significativo (un legame in termini di significato), in virtù del quale essi sono in condizione di predire, dopo che si è presentato il primo, la comparsa del secondo. Non si tratta quindi della semplice constatazione della preesistenza dello stimolo condizionato rispetto a quello incondizionato e della conseguente conclusione che, nella sequenza degli eventi temporali, al primo segue il secondo, ma di qualcosa di più complesso, che mette in gioco e mobilita la capacità di effettuare previsioni corrette.

Questa scoperta mette in qualche modo in discussione i presupposti del determinismo psichico, la cui idea chiave viene così esposta da Brenner: «Nella mente, come nella realtà fisica che ci circonda, non v’è nulla che avvenga per caso o in modo accidentale e fortuito. Ogni evento psichico è determinato da un altro, che lo precede»[24]. Questa idea è, per esempio, alla base della lucida e pregevole opera di Kim[25] che analizza le diverse ragioni che, a suo modo di vedere, impediscono di prendere sul serio il concetto di “causa mentale” nelle diverse versioni che ne sono state fornite. Se la “lettura” che Kamin propone del condizionamento classico è corretta, ciò che sembra possibile ricavare da essa è che tutte le forme d’apprendimento per associazione si sono probabilmente sviluppate per mettere gli animali in condizione di distinguere gli eventi che accadono insieme in modo regolare da quelli che sono associati tra loro in modo casuale. In particolare il cervello umano sembra aver sviluppato e messo a punto, nel corso dell’evoluzione, un semplice meccanismo che gli consente, in qualche modo, di “estrarre un senso” dagli eventi dell’ambiente circostante assegnando una funzione predittiva ad alcuni di essi.
Lo studio dei processi cerebrali ci consente dunque di approfondire due aspetti che mi paiono di fondamentale importanza per quanto riguarda l’argomento di cui ci stiamo qui occupando e di illuminare la questione relativa all’immediatezza del desiderare e alla sua refrattarietà alla ripetizione. I risultati da esso acquisiti ci mettono infatti in condizione di capire meglio come si stabilisca un’associazione tra fenomeni che semplicemente coesistono o si succedono immediatamente nel tempo e che sono inizialmente irrelati e in virtù di quali meccanismi cerebrali questa associazione si consolidi, trasformandosi in processo di apprendimento. Si è vista in proposito la funzione che in tutto questo ha il rilascio di dopamina che agisce come un sistema di ricompensa. D’altro canto però, una volta che questo circuito associativo si è innescato, il rilascio di dopamina viene meno in quanto il piacere a esso associato dipende dalla novità e si dilegua in presenza di un processo predittivo che consenta, per così dire, di trasferire in qualche modo il piacere medesimo dalla fase della ricerca e acquisizione di nuovi stimoli condizionati alla fase del consumo. Questo dileguarsi del piacere dopo che alla fase della ricerca subentrano l’istituzione di un legame stabile tra fenomeni e il consolidarsi di una funzione predittiva per cui il presentarsi dell’uno ci pone in una condizione di ragionevole attesa del verificarsi dell’altro è, oltre tutto, funzionale a renderci disponibili a una nuova fase esplorativa e quindi all’avvio di un ulteriore processo orientato verso l’innovazione.

Se il quadro interpretativo che stiamo proponendo è corretto e ha un qualche significato possiamo dire che il piacere estetico nella sua forma appetitiva, così attentamente analizzato da Kierkegaard nelle sue diverse espressioni, costituisce la spinta decisiva per attivare e promuovere non solo comportamenti di ricerca e di approccio in risposta a stimoli condizionati predittivi di stimoli gratificanti primari (ruolo incentivo-motivazionale), ma anche l’acquisizione di nuovi stimoli condizionati, facilitando, come si è visto, le associazioni pavloviane tra stimoli altrimenti neutri e stimoli consumatori. Questo ci dice che la ricerca, l’investigazione, l’indagine, la scoperta, magari casuale o comunque non intenzionale sono tutte esperienze associate a un piacere intenso, di tipo estetico, che viene a cadere quando l’aspetto innovativo sfuma e subentra la ripetizione. Quest’ultima, però, è necessaria per trasferire il processo dalla sfera estetica a quella epistemica e per radicare e consolidare il tessuto relazionale acquisito, facendone l’oggetto di un percorso di apprendimento, per un verso, e di insegnamento, per l’altro, attraverso il trasferimento dei risultati di queste esperienze a chi non ne è stato protagonista e partecipe in modo attivo.

Questa distinzione mi sembra in linea con la diversità del modo in cui si rapportano al piacere i farmaci e le sostanza d’abuso, da una parte, e gli stimoli gratificanti primari di natura gustativa, come, ad esempio, il cioccolato dolce e lo zucchero vanigliato, dall’altra. La stimolazione della trasmissione dopaminergica nella shell del nucleo accumbens da parte dei primi non è sottoposta agli stessi meccanismi adattativi cui è sottoposta quella prodotta dai secondi. In particolare, la risposta della dopamina della shell ai farmaci non va incontro a quella rapida habituation che caratterizza invece la risposta agli stimoli gustativi, e in seguito alla quale questi ultimi, se ripetuti, tendono spesso a esaurire le loro capacità stimolanti. Proprio a questa differenza, come sottolinea ancora Di Chiara, è stato attribuito un ruolo fondamentale nella tossicodipendenza. Infatti, la mancanza di habituation della risposta dopaminergica della shell ai farmaci ha come conseguenza una abnorme consolidazione delle associazioni tra gli effetti gratificanti del farmaco e stimoli o contesti i quali acquistano eccessive proprietà incentivo-motivazionali. In questo meccanismo, lo stato di piacere appetitivo associato all’eccitazione incentiva (euforia) prodotta dal farmaco gioca probabilmente un ruolo di rinforzo. Come risultato di questo abnorme apprendimento incentivo, stimoli associati ai farmaci acquistano quella eccessiva salienza motivazionale che è alla base di un aspetto fondamentale della tossicodipendenza: l’abnorme, compulsiva capacità di stimoli condizionati alle droghe di motivare il comportamento.
Secondo questa ipotesi[26], dunque, la tossicodipendenza è un disturbo della motivazione originato da un abnorme effetto delle droghe sui meccanismi neurochimici e neurofisiologici che stanno alla base del piacere appetitivo. Un analogo meccanismo si può invocare per tutta una serie di disturbi della motivazione caratterizzati da compulsione, dal gioco d’azzardo patologico ai disturbi del comportamento alimentare, alle compulsioni sessuali etc. etc. Per questi disturbi si può invocare una disfunzione individuale di quegli stessi meccanismi adattativi delle risposte dopaminergiche che nella tossicodipendenza sarebbero alla base di un abnorme apprendimento incentivo di stimoli associati alle droghe. Per esempio il giocatore d’azzardo sarebbe così attratto dal gioco perché, a causa di una disfunzione dei processi adattativi (habituation) che regolano le funzioni dello “scantinato del cervello”, stimoli (stati d’animo, contesti etc.) associati al gioco avrebbero acquisito eccessive proprietà incentivo-motivazionali. In modo non dissimile da come stimoli (stati d’animo, contesti, etc.) associati all’immediatezza del desiderare e al tipo di appagamento e di godimento che esso produce acquistano proprietà incentivo-motivazionali abnormi in Don Giovanni così come ce lo raffigura Kierkegaard.

 

  1. Conclusione

Il piacere estetico è quindi uno strumento fondamentale ed efficace non solo di adattamento all’ambiente, ma anche di spinta a una sua costante innovazione in funzione delle nuove esigenze che via via emergono. Se non tenessimo conto di questa sua funzione e del fatto che non solo gli uomini, ma tutti gli organismi viventi sono predisposti a subirne il fascino sarebbe difficile riuscire a capire e a spiegare l’assunzione, da parte dei fiori di orchidea, di sembianze che innescano in alcuni insetti comportamenti sessuali, circostanza di cui le stesse orchidee approfittano, il potere attrattivo dei fiori grazie ai loro profumi e colori, gli odori sessuali, ugualmente attrattivi, di molte specie animali, la variopinta decorazione delle diverse ali di farfalla, la ruota del pavone, il canto specie-specifico degli uccelli e via esemplificando. Né potremmo fornire una qualche motivazione convincente della singolare efficacia, segnalata ancora da Braitenberg, del giallo-nero come segnale di messa in guardia non ascrivibile a un qualcosa di giallo-nero esistente in natura e pericoloso. Sembra dunque ragionevole concludere che

si tratta di un simbolo, un segno che ha acquisito il suo significato per caso e che da un certo punto in poi venne inserito stabilmente nella tradizione, come la maggior parte delle parole della lingua umana, la cui forma fonetica non ha niente in comune con la cosa che significano. È veramente sorprendente che un segnale simbolico, come nero-giallo con significato di pericolo, venga utilizzato da molte specie animali e venga anche compreso, come se (almeno in embrione) esistesse una lingua universale del vivente. Se uno pensa che di informazione si possa parlare solo dove, come per gli uomini, si tratta di uno scambio di simboli, sarà per lui istruttivo sapere che i simboli esistono già nel regno animale[27].

 

Il piacere costituisce dunque un potente e insostituibile fattore di sopravvivenza e sviluppo non soltanto della nostra specie, ma anche della vita nel suo complesso. In questo senso va letta e interpretata l’acuta riflessione sul rapporto tra etica ed estetica, proposta da Josif Brodskij l’8 novembre 1987, nel discorso in occasione del conferimento del premio Nobel:

Ogni nuova realtà estetica – dice lo scrittore – ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo e soprattutto categorie estetiche che precedono le categorie del “bene” e del “male”. In etica non “tutto è permesso” proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato. Il bambinello che piange e respinge la persona estranea che, al contrario, cerca di accarezzarlo, agisce istintivamente e compie una scelta estetica, non morale.

La scelta estetica è una faccenda strettamente individuale, e l’esperienza estetica è sempre un’esperienza privata. Ogni nuova realtà estetica rende ancora più privata l’esperienza individuale; e questo tipo di privatezza, che assume a volte la forma del gusto (letterario o d’altro genere), può già di per sé costituire se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento. Infatti un uomo che ha gusto, e in particolare gusto letterario, è più refrattario ai ritornelli e agli incantesimi ritmici propri della demagogia politica in tutte le sue versioni. Il punto non è tanto che la virtù non costituisce una garanzia per la creazione di un capolavoro: è che il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista. Quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero – anche se non necessariamente più felice – sarà lui stesso.

Proprio in questo senso — in senso applicato piuttosto che platonico — dobbiamo intendere l’osservazione di Dostoevskij secondo cui la bellezza salverà il mondo, o l’affermazione di Matthew Arnold che la poesia ci salverà. Probabilmente è troppo tardi per salvare il mondo, ma per l’individuo singolo rimane sempre una possibilità. Nell’uomo l’istinto estetico si sviluppa con una certa rapidità, poiché una persona, anche se non si rende ben conto di quello che è e di quello che le è davvero necessario, sa istintivamente quello che non le piace e quello che non le si addice. In senso antropologico, ripeto, l’essere umano è una creatura estetica prima che etica. L’arte perciò, e in particolare la letteratura, non è un sottoprodotto dell’evoluzione della nostra specie, bensì proprio il contrario. Se ciò che ci distingue dagli altri rappresentanti del regno animale è la parola, allora la letteratura — e in particolare la poesia, essendo questa la forma più alta dell’espressione letteraria — è, per dire le cose fino in fondo, la meta della nostra specie[28].

 


[1] S. Kierkegaard, Il diario del seduttore, in Enten-Eller. Un frammento di vita, a cura di A. Cortese, 5 voll., Adelphi, Milano 1976-89, tomo III, Milano, Adelphi 1978.

[2] Ibid., p. 89.

[3] Ibid., p. 84.

[4] Ibid., p. 21.

[5] S. Kierkegaard, Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in Enten-Eller, cit., tomo I, 1978, p. 171.

[6] Ibid., pp. 163-164.

[7] Ibid., p. 172.

[8] Ibid., p. 178.

[9] Ibid., p. 161.

[10] Ibid., p. 178.

[11] L. Šestov, Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime, tr. it. Adelphi, Milano, 1991, pp. 81-82.

[12] F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico (1874), tr. it. Reverdito, Trento 1989, p. 88.

[13] S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, tr. it. a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 130.

[14] L. Heimer, J. de Olmos, G. F. Alheid, L. Zaborszky, Perestroika in the basal forebrain: opening the border between neurology and psychiatry, in «Progress in brain research», 87, 1991, pp. 109-165.

[15] G. Di Chiara, Dopamine, Motivation and Reward, in «Handbook of Chemical Neuroanatomy», vol. 21: Dopamine, Elsevier, Amsterdam 2005; Id. Il piacere: optional o necessità biologica?, in Saperi umani e consulenza filosofica, a cura di V. Gessa Kurotscka e G. Cacciatore, Meltemi, Roma 2007.

[16] G. M. Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 28.

[17] G. Di Chiara, Il piacere: optional o necessità biologica?, cit.

[18] Ibid.

[19] Ibid.

[20] Ibid.

[21] G. M. Edelman, Seconda natura, cit., p. 27 (il corsivo è mio).

[22] Cfr. G. Di Chiara, Il piacere: optional o necessità biologica?, cit.

[23] L. Kamin, Predictability, surprise, attention and conditioning, in B. A. Campbell, R. M. Church (a cura di), Punishment and Aversive Behavior, Appleton-Century Crofts, New York 1969, pp. 279-296.

[24] C. Brenner, Elementary Textbook of Psychoanalysis, International Universities Press, New York 1978.

[25] J. Kim, La mente e il mondo fisico, tr. it. McGraw Hill, Milano, 2000.

[26] Ipotesi enunciata e argomentata in G. Di Chiara, Il piacere: optional o necessità biologica?, cit.

[27] Ibid., pp. 91-92.

[28] J. Brodskij, Dall’esilio, tr. it. Adelphi, Milano 1988, pp. 47-49 (il corsivo è mio).

 

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