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Uomini e topi

Autore


Paolo Amodio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Editor in chief

Indice


 

 

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S&F_n. 07_2012


È noto che il pensiero classico non presta una particolare attenzione all’animale, al bambino, al primitivo, al folle. Descartes, lo si ricorderà, vedeva nell’animale nient’altro che una somma di ruote, di leve, di molle, in definitiva una macchina. E quando non era considerato una macchina, l’animale, nel pensiero classico, costitui­va un abbozzo di uomo e molti entomologi non hanno timore di proiettare su di esso i tratti es­senziali della vita umana. Per i medesimi pre­giudizi, la conoscenza dei bambini e dei malati è rimasta a lungo a uno stadio rudimentale: le domande che i medici o i ricercatori ponevano loro erano domande da uomini. Si cercava di misurare la distanza che li separa dall’adulto o dall’uomo sano nelle loro attività abituali piut­tosto che cercar di comprendere come vivano in loro stessi. Quanto ai primitivi, o si cercava in loro un’immagine abbellita del civilizzato o, al contrario, come Voltaire nell’Essai sur les moeurs, non si vedeva nei loro costumi e nelle loro credenze che una sequenza di assurdità inspiegabili. Il pensiero classico sembra imprigio­nato in un dilemma: o l’essere con cui abbiano a che fare è assimilabile all’uomo, e allora è lecito attribuirgli per analogia i caratteri general­mente riconosciuti all’uomo adulto e sano, oppure esso non è che una macchina cieca, un caos vivente, e allora non esiste alcuna possibi­lità di trovare un senso al suo comportamento ... Tutto nasce dalla convinzione che esista un uomo compiuto, in grado di penetrare fino all’essere delle cose, di costruire una conoscenza sovrana, di decifrare tutti i fenomeni, e non solo quelli della natura fisica, ma anche quelli che ci presentano la sto­ria e la società umane, di spiegarli per mezzo delle loro cause e, infine, di scoprire in qualche accidente del loro corpo la ragione delle ano­malie che tengono il bambino, il primitivo, il folle e l’animale lontani dalla verità.

Maurice Merleau-Ponty, Conversazioni

 

Questo numero trae spunto da un incontro tenuto il 29 novembre del 2011 alla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, al quale fui invitato per discutere con scienziati e antropologi circa la questione uomini-animali. Il suggestivo titolo proposto per l’incontro era Uomini e topi.

Allora non avrei mai potuto esimermi dal partecipare, come ora non posso non riproporre il tema, il tutto a partire dal reiterato capriccio di un dato autobiografico.

Uomini e topi di John Steinbeck: si tratta del primo romanzo “adulto” che mio padre in qualche modo mi “costrinse” a leggere e devo dire che mi è rimasto impresso a fuoco, in esso c’era tutto l’immaginario di un ragazzino di 12-13 anni.

Il racconto si svolge innanzi tutto in un Ranch, e dunque siamo tra animali e uomini, lo sfondo è perfetto e il Ranch si chiama “Soledad” (solitudine).

In Uomini e topi, Lennie è un minus habens, e ha per il mondo una sola funzione: la forza fisica, misurata quasi in senso direttamente proporzionale alla mancanza di cervello. In termini di autocoscienza, il suo “essere” si limita a un ambito emotivo confuso: ciò che esprime e vuole è una casa per allevare conigli, un dato minimo esistenziale dunque, ma che nel contesto si fa invece sogno e utopia. È un animale da soma, con uno scarto emozionale insignificante al mondo: a conti fatti di lui si può solo dire che “soffre” e che “può uccidere” (e infatti ammazzerà senza “volerlo” la moglie del figlio del padrone).

Anche George è animale da soma ma è dotato di un’autocoscienza che, oltre a soffrire e a poter voler uccidere, lo porta a pensare, giudicare e compatire. Quando George ammazza Lennie sparandogli alla nuca per sottrarlo alla furia vendicativa dei padroni, compie un atto di pietà: per me era letteralmente come il cow-boy dei miei film western che spara al proprio amato cavallo azzoppato per strapparlo a una morte più dolorosa e umiliante.

Lennie muore ammazzato come un cavallo e come un cane, anzi come il cane di Candy. Il cane di Candy era innocuo ed era l’unica vera compagnia per il vecchio “scopino” (così chiamato perché aveva immolato una mano quando era capo-cavallante ed era rimasto al Ranch come addetto alla rimozione del letame). La morte del cane di Candy anticipa il finale del romanzo: il cane e Lennie muoiono nello stesso identico modo e l’autore usa le stesse parole: «Right back of the head».

Ma non è di tutto questo che parla Uomini e topi: l’intenzione più palese di Steinbeck è il disegno di una condizione tutta umana (in cui semmai la condizione animale è la condizione di degradazione umana in cui l’animale non c’entra proprio) e il riferimento ai topi è l’evocazione di alcuni versi di Robert Burns del 1785 (A un topo, cui avevo distrutto il nido con l’aratro):

But, Mousie, thou art no thy lane,

In proving foresight may be vain;

The best-laid schemes o’ mice an ‘men Gang aft agley,

An’lea’e us nought but grief an’ pain,

For promis’d joy![1]

 

Non siamo tra uomini e topi, siamo nel pieno di una tradizione antropocentrica e culturalista, quella che qui, nel dossier di questo numero, intendiamo discutere.

La visione che l’intera tradizione filosofica ha prospettato circa l’animale e il rapporto uomo-animale è un percorso paradigmaticamente antropocentrato che si risolve, nel migliore dei casi, in un’esclusività “ignava”, e nel peggiore, in un’esclusività “crudele”. E come se non bastasse, le scienze della vita, in tutti i tempi, sembrano essersi adeguate. L’animale, sempre drammaticamente al singolare e sempre indistinto (che si tratti di organismi unicellulari, di insetti, topi, cani, gatti o scimpanzé sembra non fare differenza), non è mai paradossalmente al centro della questione animale, al centro c’è sempre la questione autoreferenziale dell’uomo e dell’umanità elegantemente foggiata del suo abito culturale, e inchiodata perciò alla sua incapacità di pensare la differenza, l’alterità, la contaminazione (o, se si preferisce, la continuità biologica).

P.A.

 


[1] Topolino, non sei il solo / A comprovar che la previdenza può esser vana: / I migliori piani dei topi e degli uomini / Van spesso di traverso / E non ci lascian che dolore e pena / Invece della gioia promessa.

 

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