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«Voir plus qu’on ne voit»: filosofia dell’immagine o immagine della filosofia?

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. L’immagine malfamata
  2. Chiasma ed espressione
  3. La profondeur

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract


This article investigates Maurice Merleau-Ponty’s concept of vision and his philosophical link with the painting of the artist Paul Cézanne. Through the works “Cézanne’s Doubt” and "Eye and Mind", this article shows that this link is not occasional, but it assumes an important philosophical role. Cézanne’s painting could be described using crucial concepts of both phenomenological project and method of Merleau-Ponty, this is the case, for instance of concepts like chiasme and expression. Along this article we could see the concept of vision switching into the meaning of "profondeur". A different meaning which emerges, according to the French philosopher, observing Cézanne works. The vision of both the artist and the philosopher is deeper than the vision that others could have. This is why the very vision is a remains of the invisibility which is to the heart of visibility. Therefore the art experience is a good example of the embodied experience, of the vision that could not be transparent but always chained.


Possiamo affermare, scevri dal timore di cadere in pericolose approssimazioni, che l’intera opera di Merleau-Ponty, da Phénoménologie de la perception a Le visible et l’invisible, passando per Sens et non sens e L’œil et l’esprit è stata una lunga, intensa, appassionante meditazione su cosa significhi vedere. A testimoniarlo il fatto non banale che quando il filosofo francese fu colpito da arresto cardiaco nella primavera del 1961 un libro fu trovato aperto sul suo tavolo di lavoro: la Dioptrique di Descartes. Al fine di provare a rispondere alla domanda “Che cosa significa vedere?” secondo Merleau-Ponty, ripercorreremo le tracce di due celebri scritti: Le doute de Cézanne e L’œil et l’esprit. Si tratta di due testi piuttosto distanti cronologicamente tra loro, dal momento che il primo risale al 1942, sebbene sia stato pubblicato tre anni più tardi nel numero dicembrino di «Fontaine»; il secondo, invece, è l’ultimo scritto che Merleau-Ponty riuscì a portare a termine. Composto su invito di André Chastel per il primo numero della rivista «Art de France», il filosofo gli dedicò buona parte dell’estate del 1960 trascorsa a Tholonet, nella campagna provenzale, soggiornando nella casa dell’ artista Francis Tailleux e osservando la bellezza dei luoghi che affollano l’universo pittorico di Cézanne. C’è una foto di Merleau-Ponty che ha sempre colpito il mio immaginario: il filosofo volge le spalle all’obiettivo fotografico, è estate e ha indosso solo dei calzoncini corti, chiari. La mano sinistra porta alla bocca un sigaro, la mano destra è appoggiata alla balaustra di un belvedere. Il suo sguardo, che è escluso al nostro, è intento ad ammirare il paesaggio del monte Sainte-Victoire. La stessa montagna che Cézanne ci restituisce in numerosi suoi dipinti. Cézanne è forse il doppio mimetico di Merleau-Ponty? Tra i due c’è una reversibilità simbolica, un chiasma per usare una parola cara al francese? E ancora l’occhio dell’artista è in grado di sottrarsi a quella visione panoramica, a quello sguardo di sorvolo, cifra della mauvaise philosophie, per sostituirvi una visione incarnata, implicata secondo l’occhio e secondo lo spirito?

 

  1. L’immagine malfamata

L’œil et l’esprit si apre con una constatazione disarmante: la filosofia deve prendere posizione di fronte alla vita, deve caricarsi di una certa pregnanza morale, è obbligata a render conto. L’arte, invece, può mostrare senza dimostrare. La dicotomia plurimillenaria tra essere e apparenza l’ha sollevata da questo fardello, e questa è la ragione per la quale non ci indigniamo per la vita dissoluta di Modigliani, il carattere burbero e rissoso di Caravaggio, la codardia di Cézanne, mentre l’adesione di Heidegger al nazismo continua a sbalordirci. Se questo è vero, qual è lo statuto di verità offerto dall’arte, in che modo essa può spalancarci le profondità dell’essere, iniziarci alla visione stessa delle cose? «Le mot d’image est mal famé»[1] nota Merleau-Ponty, questo perché essa è sempre stata interpretata come una copia della realtà, più o meno illusoria, una “seconde chose”. Tuttavia un quadro, una statua o la gestualità di un attore non sono cose false prese in prestito per indicare il mondo vero, il loro potere non è deittico piuttosto rivelativo. «L’imaginaire est beaucoup plus près et beaucoup plus loin de l’actuel»[2]. Il dilemma della figurazione è stato sempre mal posto: è incontrovertibile che nessuna frutta è mai stata quella dipinta da Cézanne nelle sue nature morte; ma è vero anche il contrario, nessuna pittura, neanche quella più astratta, più eludere l’Essere. In tal senso la frutta di Cézanne non è altro che la frutta stessa. Quando Émile Bernard fece notare a Cézanne che un quadro, per i classici, esige contorni ben definiti, composizione e distribuzione della luce, la risposta secca di Cézanne fu: «ils faisaient le tableau et nous tentons un morceau de nature»[3]. Tentare un pezzetto di natura vuol dire non solo riconoscere all’arte un certo statuto ontologico, ma, soprattutto, riconoscere in essa il sentiero privilegiato in grado di condurre alle profondità dell’Essere. Il paradosso dell’arte è quello della visione: il mio corpo è al tempo stesso vedente e visibile. Questa reversibilità più e più volte espressa nell’opera di Merleau-Ponty[4] negli ultimi anni della sua produzione filosofica viene estesa dall’ambito tattile a quello visivo. Tale passaggio implica che la visione sia un vedere-vedersi, un cogliere l’invisibile che è nel visibile. E l’apice di questa operazione è la visione pittorica, perché nessuno, come il pittore, è in grado di cogliere il mistero dell’Essere. La visione pittorica esprime la «genèse secrète et fiévreuse des choses dans notre corps»[5], quasi una sorta di magia per cui «la même chose est là-bas au cœur du monde et ici au cœur de la vision»[6]. Addirittura poco più avanti Merleau-Ponty afferma: «le peintre vit dans la fascination»[7], nella fascinazione, un termine che ricorda le filosofie rinascimentali, come se il poeta fosse un alchimista della natura, in grado di cogliere i vincoli che legano le cose, il loro incantamento. La pittura, insomma, sembra irridere tutte le nostre categorie: l’immagine e il reale, l’essenza e l’esistenza, il visibile e l’invisibile.

 

  1. Chiasma ed espressione

Ogni teoria della pittura cela una metafisica così come ogni metafisica, o più in generale ogni filosofia, può trovare la sua traduzione pittorica. Ecco perché la relazione tra Cézanne e Merleau-Ponty può essere definita in termini chiasmatici. In una nota di lavoro del novembre del 1960, accorpata all’edizione del 1964 de Le Visible et l’invisible a cura di Claude Lefort, Merleau-Ponty scriverà a proposito del chiasma: «réversibilité: le doigt de gant qui se retourne (…). Il suffit que, d’un côté, je voie l’envers du gant qui s’applique sur l’endroit, que je touche l’un par l’autre (…). le chiasme est cela: la réversibilité»[8]. Aggiungendo qualche riga più avanti: «circularité parler-écouter, voir-être vu, percevoir-être perçu (…). Activité = passivité»[9]. Entrambi mirano a restituire quella circolarità tra uomo e mondo, tra visione e visto, rendendo impossibile stabilire dove finisca il naturale e abbia inizio l’umano, o il culturale. Ecco che all’arte non inerisce più la definizione classica de «l’homme ajouté à la nature»[10] perché l’uomo è già immerso in essa, ne è invischiato, ne è compromesso. Essa rivela piuttosto «le fond de nature inhumaine sur lequel l’homme s’installe»[11]. Colui che guarda abita la visione, «le peintre apporte son corps (…). C’est en prêtant son corps au monde que le peintre change le monde en peinture»[12]. Nella pittura di Cézanne si realizzano su tela i paradossi dell’esperienza incarnata. «Le paysage, disait-il [Cézanne], se pense en moi et je suis sa conscience»[13]. La vicinanza tra i due è talmente forte da rasentare l’identificazione. La nota affermazione di Cézanne, riportata da Gasquet, è ravvisabile in un passaggio della Phénoménologie de la perception in cui l’autore descrive la reversibilità tra il soggetto sensibile e la sensibilità stessa, senza tuttavia citare Gasquet né nominare il pittore francese. Merleau-Ponty scrive Moi e le parole di Cézanne diventano le sue:

Moi qui contemple le bleu du ciel, je ne suis pas en face de lui un sujet acosmique, je ne le possède pas en pensée, je ne déploie pas au-devant de lui une idée du bleu qui m’en donnerait le secret, je m’abandonne à lui, je m’enfonce dans ce mystère, il “se pense en moi”, je suis le ciel même qui se rassemble, se recueille et se met à exister pour soi, ma conscience est engorgée par ce bleu illimité[14].

 

Un altro concetto chiave grazie al quale comprendere sia la filosofia di Merleau-Ponty sia l’arte di Cézanne è quello di espressione. L’artista realizza che l’espressione emana dai materiali, dal quadro stesso e non da una precisa intenzione espressiva. L’arte in questo senso è esattamente come la natura: così come l’una non è una “seconde chose, l’altra non è il “grand objet”: ecco perché Merleau-Ponty può affermare «la nature est à l’intérieur»[15] e la pittura, a sua volta, è ciò che mi fa scoprire il mondo esterno, la rassomiglianza[16]. Se il pittore dipinge la natura dall’interno, allora la sua opera non è mai un doppio delle cose ma sempre l’espressione della vita delle cose vissuta nel nostro corpo. Si potrebbe obiettare, quindi, che la pittura non è altro che espressione del mondo privato del pittore, e tuttavia accade che nelle grandi opere noi tutti ci riconosciamo, incontriamo qualcosa di comune. Impariamo a guardare selon lui il mondo che ci circonda. La pittura manifesta il delirio dell’«avoir à distance»[17] proprio come la filosofia: entrambe sono accomunate da questo potere del differimento, dell’avere in seconda, della riflessione sull’irriflesso. Il gesto di Cézanne che nei suoi quadri non traccia un contorno netto, ma plusiers contours, è teso a restituire l’operazione di un senso nascente: «le tableau et la parole ne sont pas l’illustration d’une pensée déjà faite»[18], il gesto e il suo significato sono generati nell’atto stesso di espressione. Cézanne «pense in peinture»[19], e per Merleau-Ponty egli esemplifica l’espressione non soggetta al pensiero riflessivo, movimento immediato dalla percezione al gesto. Ragion per cui il senso è restituito solo a posteriori, si dà solo nell’atto di dipingere e nel dipinto stesso. È questo mondo primordiale che il pittore restituisce a colui che sa guardare attraverso le sue opere, riscoprendovi un pezzo di natura.

 

  1. La profondeur

Nel penultimo capito di L’œil et l’esprit Merleau-Ponty cita Giacometti secondo il quale Cézanne avrebbe cercato la profondità tutta la vita[20]. Che cos’è la profondità per Merleau-Ponty? Secondo la definizione che ne dà ne Le Visible et l’invisible essa è «la dimension du caché par excellence. […] Il faut qu’il y ait profondeur puisqu’il y a point d’où je vois»[21]. In queste poche parole è sotteso uno degli aspetti più intriganti della teoria della visione di Merleau-Ponty: affinché vi sia visione è necessario che vi sia cecità, una dimensione di fallibilità che abita il cuore della visione stessa. Colui che vede, vede a partire da un punctum caecum:

Ce qu’elle [la conscience] ne voit pas, c’est pour des raisons de principe qu’elle ne le voit pas, c’est parce qu’elle est conscience qu’elle ne le voit pas. Ce qu’elle ne voit pas, c’est qui en elle prépare la vision du reste (comme la rétine est aveugle au point d’où se répandent en elle les fibres qui permettront la vision). Ce qu’elle ne voit pas, c’est ce qui fait qu’elle voit, c’est son attache à l’Être, c’est sa corporéité[22].

 

Un cartesiano dimentica che mentre vedo sono attaccato al mio corpo e alla mia visione che mi restituisce l’esperienza paradossale di una percezione che è ignoranza di se stessa[23]. Non è necessario pensare di vedere per vedere e alle radici della percezione si radica un’impercezione. Descartes, ricorda Valery, immaginava un piccolo uomo dentro all’uomo, appostato dietro un grande occhio e intento a vedere l’immagine che si pone sulla retina, per un «souci singulier de vouloir observer ce qui observe» che «n’est pas sans quelque naïveté»[24]. Ne L’homme et l’adversité Merleau-Ponty si richiama esplicitamente al Descartes di Valery e condanna quest’antropomorfismo ingenuo per cui «ce petit homme qui est dans l’homme et que nous supposons toujours […] n’est que le fantôme de nos opérations expressives réussies»[25]. Il filosofo ritornerà ancora sulla teoria dell’homunculus cartesiano in una nota di lavoro del 1959:

Qui verra l’image peinte dans les yeux ou dans le cerveau? Il faut donc enfin une pensée de cette image - Descartes discerne déjà que nous mettons toujours un petit homme dans l’homme, que notre vue objectivante de notre corps nous oblige toujours à chercher plus au-dedans cet homme voyant que nous pensions avoir sous nos yeux. Mais ce qu’il ne voit pas, c’est que la vision primordiale à la quelle il faut bien en venir ne peut être pensée de voir[26].

 

Tuttavia proprio là dove Descartes ha fallito, nel peccato di antropomorfismo e nell’aver misconosciuto il fenomeno pittorico, un artista come Cézanne ha rivelato la propria grandezza, rendendo manifesto «le sensible qui se creuse»[27]. L’arte, allora, non è un artificio, come credeva Descartes, né ricostruzione laboriosa del mondo esterno, essa è ciò che svela quel doppio invisibile che consente la visione stessa, è l’incontro, la simultaneità di tutti gli aspetti dell’Essere, e quando Cézanne cerca la profondità mira proprio a quella che Merleau-Ponty chiama «déflagration de l’Être»[28]. C’è un bell’esempio ne L’œil et l’esprit che può aiutare a comprendere il paradosso di qualcosa che si mostra attraverso qualcos’altro che, in principio, sembra ostacolare la visione, mentre in realtà la rende possibile, di un vuoto di senso, una fessura che è all’origine di ogni nascita di senso: «quand je vois à travers l’épaisseur de l’eau le carrelage au fond de la piscine, je ne le vois pas malgré l’eau, les reflets, je le vois justement à travers eux, par eux»[29]. Analogamente la carne, che è l’altro nome della Visibilità[30], non è ciò di cui bisogna liberarsi, ma ciò da cui non si può prescindere. «Voir, c’est par principe voir plus qu’on ne voit, c’est accéder à un être de latence. L’invisible est le relief et la profondeur du visible»[31]. L’artista è colui che spalanca le porte di quest’Essere di latenza, che scava in esso e ci restituisce, attraverso le sue opere, delle straordinarie vie d’accesso. L’arte di Cézanne si carica pertanto di una pregnanza filosofica; il mondo, così come è reso visibile nei suoi quadri, è espressione di una certa ontologia. Questa nuova ontologia della pittura contemporanea è precisamente la “philosophie figurée” che ha da compiersi, quella che Merleau-Ponty, ne Le visible et l’invisible, definisce «la philosophie comme reconquête de l’être brut ou sauvage»[32]. Dunque l’arte non è banalmente visione, ma “voyance”, una sorta di veggenza che mostra questa latenza operante ed efficace. L’arte non copia, ma dona esistenza, converte l’invisibile in visibile; e tale filosofia figurata è ancora da fare, tutta tesa com’è non a contemplare l’esterno ma a compenetrarlo, a completarlo. Ecco perché possiamo concludere con Merleau-Ponty che: «ce qu’on appelle inspiration devrait être pris à la lettre: il y a vraiment inspiration et expiration de l’Être, respiration dans l’être, action et passion si peu discernables qu’on ne sait plus qui voit et qui est vu, qui peint et qui est peint»[33].

 


[1] M. Merleau-Ponty, L’œil et l’esprit (1960), Folio Gallimard, Paris 1993, p. 23.

[2] Ibid., p. 24.

[3] Id., Le doute de Cézanne, in Sens et non sens (1966), Nrf Gallimard, Paris 1996, p. 17.

[4] Ricordiamo il celebre passaggio di Phénoménologie de la perception tratto a sua volta da Ideen II di Husserl: «Je peux palper avec ma main gauche ma main droite pendant qu’elle touche un objet, la main droite objet n’est pas la main droite touchante: la première est un entrelacement d’os, de muscles et de chair écrasé en un point de l’espace, la seconde traverse l’espace comme une fusée pour aller révéler l’objet extérieur en son lieu. En tant qu’il voit on touche le monde, mon corps ne peut donc être vu ni touché», Id., Phénoménologie de la perception (1945), in Œuvres, Quarto Gallimard, Paris 2010, p. 108.

[5] Id., L’œil et l’esprit, cit., p. 30.

[6] Ibid., p. 28.

[7] Ibid., p. 31.

[8] Id., Le visible et l’invisible (1964), texte établi par C. Lefort, Tel-Gallimard, Paris 1993, p. 317.

[9] Ibid., p. 318.

[10] Id., L’œil et l’esprit, cit., p. 22.

[11] Id., Le doute de Cézanne, in Sens et non sens, cit., p. 30.

[12] Id., L’œil et l’esprit, cit., p. 16.

[13] Id., Le doute de Cézanne, in Sens et non sens, cit., p. 23.

[14] Id., Phénoménologie de la perception, in Œuvres, cit., p. 904.

[15] Id., L’œil et l’esprit, cit., p. 22.

[16] Ibid., p. 24.

[17] Ibid., p. 27.

[18] Id., Phénoménologie de la perception, in Œuvres, cit., p. 1091.

[19] M. Merleau-Ponty, L’œil et l’esprit, cit., p. 60.

[20] Cfr. Ibid.

[21] Id., Le visible et l’invisible, cit., p. 272.

[22] Ibid., p. 301.

[23] Cfr. Ibid., p.267.

[24] P. Valéry, Descartes, in Variété, in Œuvres, Gallimard, Paris 1957, vol I, p. 796.

[25] M. Merleau-Ponty, L’homme et l’adversité, in Signes (1960), Nrf Gallimard, Paris 1993, p. 305.

[26] Id., Le visible et l’invisible, cit., p. 263.

[27] Ibid.

[28] Id., L’œil et l’esprit, cit., p. 65.

[29] Ibid., p. 70.

[30] «C’est cette Visibilité, cette généralité du Sensible en soi, cet anonymat inné de Moi-même que nous appelions chair tout à l’heure, et l’on sait qu’il n’y a pas de nom en philosophie traditionnelle pour désigner cela», Id., Le visible et l’invisible, cit., p. 183.

[31] Id., Préface, in Signes, cit., p. 29.

[32] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, cit., p. 139.

[33] Id., L’œil et l’esprit, cit., pp. 31-32.

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